Incipit #152 | Valchiusa era così nominata non per via dei monti che le sbarravano la strada, ma per le acque del Chiese che vi scorrevano intorno.
Il fiume avanzava, scompariva per poi riaffiorare all’improvviso allo sguardo poco più in là. Esso si accostava a lunghe file di boschi che si infittivano man mano che si saliva, rincorreva le scarpate in un vivo contrasto di pianure e giogaie, di valli e alture, da lì proseguiva imperterrito fino a gettarsi tra le acque dell’Idro, nella piana di Storo.Non fosse stato per l’imponente Castello che dominava quel paese, non ci sarebbe granché da raccontare.
Alla morte di suo padre, Andreas si presentò davanti al portone e prese possesso del palazzo. Doveva decidere che farne, se abitarlo o liberarsene.
Dimostrava circa venticinque anni, rampollo di una famiglia di cui non si è tramandato il nome. Delle sue origini non si è conservato nulla, se non quello che le generazioni di carbonai e minatori consegnarono ai posteri. Si sa che gli ultimi cinque anni li spese in lunghe peregrinazioni, impegnato in battaglie e avventure di cui si è perso il ricordo.
Andreas intendeva stabilire quali fossero i confini effettivi delle nuove proprietà: ogni fazzoletto di terra faceva parte del vescovado, senza distinzione tra ciò che era sopra e ciò che stava sotto, a valle o a monte. La cosa non era chiara, perché si sapeva di volta in volta chi avesse su quelle terre diritto di alta e bassa giustizia. Andreas dedicò le sue giornate a misurare, calcolare, a stilare un minuzioso inventario che aggiornasse l’antico.
Nell’edificare il Castello si era assecondato il disegno delle pareti rocciose, rinunziando alla simmetria delle forme. Rappresentava un unico blocco che si univa al resto. Si ergeva su un grumo pietrificato allacciato alla montagna, i bastioni gareggiavano con gli spalti di roccia che lo affiancavano. Radici insidiose e un fitto reticolato d’edera si abbarbicavano tra le mura ricoprendole quasi integralmente.
Sul retro, un pianoro erboso terminava in uno strapiombo che si attraversava grazie a un ponte di corda dissestato. Si trattava di quello che molti giurarono di vedere, caparbio e teso tra un versante e l’altro, due, tre secoli dopo. Ed era lo stesso che poté notare di passaggio l’esercito di Napoleone, e di cui ancora si parlava all’inizio del secolo scorso, quando infine crollò. Non per una bava di vento, ma per i contraccolpi di una battaglia aerea.
Che si sapesse, già all’epoca di Andreas la misteriosa passerella di travi era diroccata, e non passava giorno che non vincesse la forza di gravità che premeva verso l’abisso.
Il ragazzo si domandò se non fosse il caso di rinforzare il ponte o di costruirne uno più robusto. Oltre il dirupo che si apriva a pochi passi, nelle mappe a sua disposizione non si vedeva altro. Prima c’era il prato di cui si è detto, in un angolo del quale si accatastava la legna da ardere.
Per il resto, non vedeva l’ora di visitare le terre che lo attendevano.
Ben pochi osavano avventurarsi al di là di quel confine naturale. Il versante opposto, infatti, apparteneva alla Vivena, uno spirito dimorante nei boschi, per definizione da sempre forestiero. La Vivena era una figura incrollabile e granitica, forgiata da millenni di incontrastato dominio. Essa emergeva nella valle addormentata, in equilibrio su un picco, piantata come un chiodo su una sporgenza di roccia a precipizio, lo sguardo fisso a indugiare sui casolari. Oppure vagava nella notte silenziosa, priva di sonno fino a giungere alle porte dei paesi, dai quali si ritirava sul far del giorno. Benevola o collerica secondo la stagione, si riconosceva dal mantello scuro che avvolgeva la figura, dai modi regali e irascibili.
Da bambino, Andreas ascoltava suo padre raccontare e reinventare storie tramandate di generazione in generazione.
Gli apparve in equilibrio sulla prima coppia di assi, nel momento in cui egli mosse un passo oltre il confine stabilito. Il suo sguardo severo gli intimò di tornare indietro.
In seguito la avvistò intenta a raccogliere dell’erba nel prato sul retro. La vide fragile e solitaria, alla mercé di qualsiasi predatore. Le si accostò con cautela, illudendosi di sorprenderla e sfiorarle il lembo della veste, ma essa si voltò prima che potesse farlo, apostrofandolo con asprezza:
«Osate avvicinarvi a me? Di certo non mi temete come dovreste.»
No, non la temeva, avrebbe voluto rispondere, contraddicendosi subito dopo, che le stava di fronte neanche fosse una statua di sale, privo del respiro, vinto dal turbamento di chi era stato colto con le mani nel sacco.
«Tutto quello su cui poggia il castello vi appartiene. Vostri sono i pendii che potete risalire e la mulattiera che scorta al paese. Per mia graziosa concessione potrete passeggiare sul mio prato, ma non vi avvicinerete al ponte, né lo attraverserete. È vostra la legna che viene accatastata al muro, vostro ciò che coltiverete nei terreni intorno. Non un ramo dei miei boschi è vostro più di quello che vi è dato per diritto di passaggio. Solo ai minatori che scavano la roccia viva e ai carbonai consento il transito. A voi sarà proibito.»
Andreas comprese che gli spettavano le fondamenta del castello, ma non la metà del burrone sul quale poggiava il ponte.
«Siete arguta, mia signora. Se il prato non fosse vostro, almeno metà del ponte mi spetterebbe, con ciò che attraversa la mia parte» rispose recuperando la padronanza di sé.
Il viso della donna mostrò dapprima meraviglia, poi si indurì per l’insolenza del giovane. Si allontanò sprezzante, raggiunse il ponte che attraversò con passo leggero. Prima di dileguarsi tra i boschi pronti ad accoglierla, gli lanciò un’ultima occhiata. Segno che ormai, per leggerezza di entrambi, l’irreparabile era avvenuto. Anche volendo, lui non avrebbe potuto inseguirla. La Vivena abitava l’infida roccia, poggiava la punta dei piedi nelle salde pareti, sostava tra le paludi vischiose. Abitava le grotte, condivideva le miniere con i cavatori, si immergeva nei torrenti. Talora si soffermava in solitudine in cima al mondo, tra i ghiacci oltre le nubi che si addensavano copiose.
Il ragazzo fu conquistato dalla figura, tanto che i racconti non gli bastarono. Desiderò che quel pezzo di mondo divenisse tutto il mondo, e che non esistessero altri che loro due. Prese l’abitudine di trattenersi a lungo nei pressi del ponte che mai avrebbe attraversato, o sul muro prospiciente il prato, anche a costo di sfidare l’ira della signora, come la chiamava.
Il monito di suo padre gli tornò chiaro nella mente: se gli dèi si ritirarono per sempre nel proprio Olimpo dopo la guerra di Troia, fu perché appresero la nefasta lezione del mischiare le cose divine alle umane. Non era il caso di scatenare un innesco che nessuno sarebbe stato in grado di dire dove avrebbe condotto. Se la Vivena o Andreas avessero violato il limite, alle generazioni future sarebbe stato presentato un conto assai salato.
Se la Vivena si fosse impossessata della rocca, da essa avrebbe governato le valli quale tenebrosa regina.
Quarta di copertina
"Il ponte delle Vivene" di Davide Dotto, CIESSE Edizioni , 2015.
XIX secolo. Valchiusa è un paese sperduto della Valle del Chiese. Un antico castello incastonato nella roccia ne domina la piazza, mentre lo strapiombo sul retro è attraversato da un ponte di corda pencolante.
Da secoli i montanari convivono con la Vivena, spirito ineffabile che ha membra e tratto di donna, memoria e destino della valle. Non sarà facile per Giuseppina, proveniente dalle campagne trevigiane, integrarsi in un mondo di cui non conosce le tradizioni. Sposata da anni con Oreste, sente la mancanza di un figlio che la leghi per sempre a luoghi così nuovi per lei. Non esiterà a incalzare la Vivena per ottenere la tanto agognata grazia.
Imparerà a sue spese che, se la Vivena è capace di grandi slanci d’amore nei confronti della comunità cui dà protezione, non esiterà a pretendere, a tempo debito, il prezzo di quanto accordato.
Da secoli i montanari convivono con la Vivena, spirito ineffabile che ha membra e tratto di donna, memoria e destino della valle. Non sarà facile per Giuseppina, proveniente dalle campagne trevigiane, integrarsi in un mondo di cui non conosce le tradizioni. Sposata da anni con Oreste, sente la mancanza di un figlio che la leghi per sempre a luoghi così nuovi per lei. Non esiterà a incalzare la Vivena per ottenere la tanto agognata grazia.
Imparerà a sue spese che, se la Vivena è capace di grandi slanci d’amore nei confronti della comunità cui dà protezione, non esiterà a pretendere, a tempo debito, il prezzo di quanto accordato.
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