Gli scrittori della porta accanto

Qualunque cosa significhi amore, di Guia Soncini: incipit

Qualunque cosa significhi amore, di Guia Soncini

Incipit #151 | «Ricordati che è una festa a sorpresa. Devi essere sorpreso.»


Qualunque cosa
significhi amore

di Guia Soncini
Narrativa | Romance
Giunti
ebook 6,99€
cartaceo 11,90€



«Sarò sorpresissimo. Buongiorno.»
Se a Vanni Gualandi avessero chiesto qual era la cosa che preferiva di Elsa Tomei, avrebbe per abitudine taciuto la verità: che era quel momento lì. Quando le portava il caffè a letto, e lei era quasi sempre precipitata in un sonno profondissimo e troppo recente, stava quasi sempre sognando e non erano quasi mai bei sogni e non vedeva l’ora di fuggirne. Che era il momento in cui, appena si accorgeva che lui le stava sfiorando una guancia, appena annusava l’espresso, sbarrava gli occhi e diceva subito una cosa di senso compiuto, qualcosa di pratico sulla giornata che li aspettava. non si stiracchiava, non faceva versi con pretese di sensualità: recuperava immediatamente la sintassi di chi è sveglia da ore.
Tra le cose che amava di lei, la fretta di tornare nel mondo dei consapevoli e l’urgenza di riprendere il controllo della conversazione avevano un posto di un certo rilievo.

«Ma c’è anche la Sandri?»
«Credo proprio di sì, ci eravamo mandate dei messaggi, e poi non ha ancora capito se la invitiamo o no in trasmissione, mi sta intorno con la premura di chi ha comprato una nuda proprietà.»
«Per forza: col casino che ha combinato con le dediche, potete rammendarle l’immagine solo voi.»
«Che dediche?»
«Pensavo lo sapessi, me l’hanno raccontato ieri al giornale. Dice che ha fatto questa cosa artistica delle dediche senza nomi...»
«Artistica.»
«Artistica. Ovviamente all’ufficio stampa della casa editrice hanno fatto casino. Figurati: se non ci metti i nomi, te le cerchi. Hanno mescolato i destinatari. E una copia che non si è capito per chi fosse, c’è chi dice per... Come si chiama quell’attore?»
«Che ne so come si chiama, dammi degli indizi!»
«Vabbè, un attore.»
«Tu e i tuoi pettegolezzi imprecisi, ti detesto.»
«Insomma, vuoi sapere come finisce la storia o no?»
«Secondo te?»
«Era a scuola con questo attore, dai che lo sai chi è, sono migliori amici, dice, quello che ha fatto coso nel film di coso...»
«Certo, chiarissimo.»
«La moglie che lavora a Emergency? Due figlie femmine? Gemelle?»
«Ah! Capito. E quindi?»
«Come si chiama?»
«Non te lo dico, così impari.»
«Domani il caffè te lo fai da sola.»
«Daaaaai, cosa gli ha scritto? “non sono figlie tue”?»
«No, gli aveva scritto una dedica spiritosa, evidentemente sono in confidenza. “a tuo figlio finocchio.”»
«Nel senso di Lucio Dalla?»
«Ma senza scrivere “cit.”, che non fa chic.»
«Ovvio.»
«Fatto sta che l’hanno mandato a...»
«A...?»
«Non so se dirtelo, non sei mica simpatica stamattina.»
«Appoggia questa tazza da qualche parte, devo percuoterti senza macchiare le lenzuola.»
«La copia speciale, rullo di tamburi, con frase inequivocabile sul figlio finocchio, altro rullo di tamburi, è arrivata... ennesimo, esasperante rullo di tamburi...»

Vanni si fermò con l’aria divertita del torturatore allegro,

Elsa si tirava le falangi come quando aspettava una cosa che le piaceva: il vermouth con l’acqua tonica dei sabati d’estate al bar sulla spiaggia in toscana, quello dove sapevano cosa voleva bere, non equivocavano tra il Martini dolciastro che chiedeva lei e quello da servire col gin, non le portavano bicchieri con dentro roba che la facesse sbuffare «Ma non sono mica un agente segreto»; o i dati auditel, una mattina in cui era certa che la sua intuizione del pomeriggio precedente avesse fatto un picco d’ascolto.
Lui fece una pausa lunga osservandole le mani.
Lei disse «ti ammazzo», ridendo ma seria.
Vanni concluse col tono di chi dice la frase definitiva e sa di non deludere la platea: «al domicilio dell’onorevole Rosi».

Elsa si schiacciò una mano sulla faccia perché lo spasmo non le facesse sbrodolare il caffè che stava ingoiando. Tossì soffocata dal palmo, Vanni si alzò ridacchiando dal bordo del letto e appoggiò la tazza sul comodino, sopra al loro nuovo giocattolo, Schottenfreude, un libro grigio che le aveva regalato il mese prima e che aveva sostituito il manuale delle malattie psichiatriche nelle preferenze di Elsa. Prima aveva una diagnosi per tutto, ora per tutto c’era una parola tedesca composita.
La sera prima l’aveva trovata in cucina, rientrando: beveva vermouth in un bicchiere da acqua, facendo tintinnare il ghiaccio, e scandiva le centomila sillabe – come diavolo facevano, i tedeschi, a ricordarsi parole così lunghe? – della parola composita che significava «fingere sorpresa arrivando a una festa a sorpresa».
Se l’era studiata, anche. Gli aveva spiegato con gran sollucchero che se n’era occupato persino Darwin, che era una simulazione complessa, che per riprodurre la vera sorpresa occorreva mimare tutt’e cinque le fasi.
«Mica puoi sollevare un sopracciglio e spalancare la bocca e cavartela così. La genuina sorpresa è un affare molto più complicato.»
Gli aveva illustrato le fasi, ma Vanni non ricordava più le prime quattro.
La quinta era «terrore».

«È la storia più bella del mese, non ti perdonerò mai per non avermela raccontata subito.»

«Non sei più la gheparda di una volta, quando andavi per la maggiore l’avresti saputa prima di me.»
«Non possono averlo mandato per sbaglio a quello col figlio frocio, dai. Gliel’hanno fatto chiaramente per dispetto. Si sarà fatta detestare come suo solito.»
«Quanto ti amo. Ho fatto lo stesso commento.»
«Quanto ti ami, quindi.»
«Abbiamo anche casa libera.»
«Come due sposini? Dove sono?»
«Kadija a comprare non so cosa che mancava per stasera. Ha detto di dirti che se citofonano prima che sia tornata è il pane. Bitti usciva alla terza ora e andava a Bologna a non so che compleanno. Ma non farà troppe assenze? Da quando sta qua non è andata a scuola una settimana intera mai.»
«Tu hai imparato qualcosa di utile, al liceo?»
«No.»
«Io neanche. Dicevamo, casa libera. lei aveva delle ipotesi di utilizzo, mi pareva di intuire, Gualandi.»
«Non le sfugge un’intenzione, Tomei.»

Quarta di copertina
"Qualunque cosa significhi amore" di Guia Soncini, Giunti, 2015.

Di che cosa ci vergogniamo? Da quanto tempo ci portiamo dentro quell’imbarazzante segreto? Cosa siamo disposti a fare per tenerlo nascosto?
Vanni si vergogna da trentacinque anni, da quando è arrivato a Milano ed era un ragazzo del sud, e non gli è mai più scappato l’accento sbagliato ma non basta. Si vergogna di sua madre che teneva sul comodino la biografia di padre Pio, di suo padre che faceva le parole crociate prima di addormentarsi. Guarda Elsa – milanese da sempre, impeccabile in ogni istante – e non si capacita. Di essersi affidato a lei, e che lei l’abbia sposato anche se sa. Cosa significa amare qualcuno che è il carceriere dei tuoi segreti?
Elsa si vergogna da trentatré anni: da quando suo padre organizzò quel falso incidente. Da venticinque anni: da quando scoprì cos’era successo a sua madre. Da otto anni: da quando, per creare un programma televisivo di successo, ha procurato un’amante a suo marito. Elsa si vergogna d’una vergogna nuova da dieci minuti, da quando ha capito che stasera verranno svelate tutte le loro bugie, e che la loro settimana non finirà come previsto. Di una vergogna che non riesce a sedare neanche il cassetto dei medicinali, da cui si è servita l’ultima volta cinque minuti fa.Che cosa c’entra l’amore con l’ambizione? Che cosa c’entra l’amore con l’abitudine? Che cosa c’entra l’amore con l’inadeguatezza? Che cosa c’entra l’amore coi segreti, e le bugie, e le porte chiuse e chi sta dentro e chi rimane fuori?

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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