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Stefania Bergo presenta: Mwende. Ricordi di due anni in Africa

Stefania Bergo presenta: Mwende. Ricordi di due anni in Africa - Intervista, Libri

Presentazione Libri Intervista a cura di Silvia Pattarini Mwende. Ricordi di due anni in Africa, il nuovo romanzo di Stefania Bergo, StreetLib, 2018. Emozioni intense, natura prepotente di indescrivibile bellezza, persone straordinarie, vita quotidiana in un ospedale missionario, viaggi tra Kenya, Tanzania, Zanzibar e Sudan.


MWENDE
RICORDI DI DUE ANNI IN AFRICA

di Stefania Bergo
StreetLib
Narrativa di viaggio | Memoir
ISBN 978-8827565001
cartaceo 12,49€
ebook 2,99€

A 35 anni, malgrado una carriera avviata come ingegnere clinico, Stefania sente il bisogno di cambiare rotta. Decide di mollare tutto, un lavoro sicuro e gli affetti, e riparte con la sua valigia gialla per trasferirsi nell’arido villaggio di Matiri, in Kenya, come Direttore generale dell'ospedale St. Orsola. Lì conoscerà altri volontari, troverà amici tra i residenti, si scontrerà con una realtà a volte affascinante altre difficile da accettare, spesso combattuta tra ciò che le bisbiglia la testa e quello che le grida il cuore, sperimentando indimenticabili e logoranti montagne russe emozionali. E inaspettatamente, Stefania troverà anche l’amore.
In questo memoir, sequel del suo romanzo d’esordio “Con la mia valigia gialla”, l’autrice ripercorre la sua vita durante quei due anni, raccontando a volte fedelmente, a volte romanzandole per esigenze narrative, le storie che si è trovata a vivere. Per dare una sbirciatina alla sua Africa, una delle tante facce del seducente continente.


L'autore racconta



Ciao Stefania Bergo, finalmente eccoti graditissima ospite nella mia rubrica, qui siamo in famiglia. Oggi è il tuo giorno, presentati ai nostri affezionati lettori: la tua fama ti precede, ormai sappiamo bene chi sei, ci racconti soprattutto chi non sei?
Ciao Silvia, e un affettuoso saluto anche ai nostri lettori. La domanda è davvero interessante, chi non sono… non sono una cui piacciono l’inverno, le sfumature di grigio, i programmi a lungo termine, l’ipocrisia e la routine. Non sono una che sa stare troppo a lungo senza fare almeno un viaggio in paesi lontani e di certo non sono una che sa tenere sotto controllo le emozioni e il peso o in ordine la casa.

Parliamo della tua ultima fatica letteraria, Mwende. Ricordi di due anni in Africa. Intanto complimenti per la copertina, è meravigliosa! È stata una tua scelta?
Grazie mille! Certo, è stata una mia scelta e una mia elaborazione grafica. Lo sfondo è una foto che ho scattato a Ishara, un paese tra Nairobi e Matiri, il villaggio dove ho vissuto due anni. Volevo che la copertina rappresentasse il più possibile il contenuto del libro, chiaramente. E di strade rosse ne ho percorse parecchie. Il profilo di donna rappresenta ovviamente me, perché non parlo di Africa in senso assoluto, parlo di quella che ho vissuto io, filtrata attraverso le mie percezioni. Senza la presunzione di dire “l’Africa è così”, lo so che non è tutta così, ma è anche così, ed è parimenti autentica. Ho poi aggiunto il testo dell’incipit in trasparenza, per rifarmi allo stile della narrazione, un diario emozionale di ricordi.

Mwende. Ricordi di due anni in Africa, ci spieghi il significato di questo titolo? Chi è Mwende?
Mwende (si pronuncia muende) è il nome che mi hanno dato a Matiri. Era il 2005, stavo lavorando con gli operai portando carriole di sassi per realizzare la Fontana del sole al centro della pediatria che avevo progettato l’anno prima. Un neonato che avevamo vegliato per due notti consecutive non ce l’ha fatta, e io ero là quando è morto, nell’incubatrice. La mamma, con una dignità disarmante, ha pianto in silenzio, da sola, e poi ha chiesto quanto fosse il conto dell’ospedale per poter andare a casa. È stata la prima volta che mi sono scontrata col senso di impotenza e profonda ingiustizia che assale quando si vivono realtà come quella. E mi sono accasciata sotto un mango a piangere, con le mani ancora sporche di terra rossa. Gli operai con cui lavoravo mi hanno vista e si sono avvicinati piano. E ho fatto la conoscenza anche del senso della fatalità tipico di quella gente, necessario per non venire schiacciati da una vita spesso crudele: «lo so che non è giusto, ma questo è un ospedale, capita che la gente qui muoia», mi ha detto uno di loro. E per consolarmi mi ha regalato un nome: Mwende, che in swahili ha un significato meraviglioso… ed è perfetto per descrivere il senso del libro.

Significato che immagino si scoprirà solo leggendo il tuo romanzo. Quanto tempo hai impiegato a scriverlo e perché hai voluto raccontare la tua e altre storie?
La stesura di Mwende. Ricordi di due anni in Africa non mi ha portato via molto tempo. Ho raccolto alcuni dei miei diari che ho scritto durante la mia permanenza a Matiri e li ho riscritti cercando di dare loro la forma di un romanzo. Quello che mi ha portato via molto tempo, quasi cinque anni (!), è stato ritagliare, rimescolare, rielaborare il tutto, dovendo scegliere il tempo giusto per la narrazione (sono passata più volte dal passato al presente per poi tornare indietro), gli avvenimenti a parer mio più significativi e i personaggi maggiormente caratterizzati, l’inserimento di alcuni approfondimenti dei temi trattati, come l’infibulazione e la condizione della donna in Kenya e Sudan.
Ho voluto raccontare prima di tutto la storia di un ospedale missionario, il St. Orsola, che da 15 anni assicura cure mediche alla popolazione meno abbiente dell’arida regione del Tharaka, le storie di pazienti e medici locali, divenuti carissimi amici, di altri volontari che con me hanno vissuto. E ovviamente la mia, che funge da filo conduttore.

Quanto c’è di autobiografico e quanto di romanzato?
Le storie e i personaggi del mio libro sono reali, gli eventi e i viaggi cui si ispira sono accaduti davvero e la maggior parte delle volte ho voluto “trascriverli” senza filtro. Ma molte parti sono romanzate per esigenze narrative, per dare un aspetto più completo al romanzo e riuscire a legare le innumerevoli vicende.

Le meravigliose descrizioni dei paesaggi sono molto realistiche. Hai visitato personalmente tutti i luoghi di Mwende. Ricordi di due anni in Africa?
Sì, certo, ho descritto solo i luoghi dove sono stata davvero: dal villaggio di Matiri in Kenya, dove ho vissuto, a Chuka, Meru e Nairobi, al Parco Tsavo Est attraversato a bordo di un vecchio treno, dalla costa della Tanzania percorsa fino a Dar Es Salaam, alle bianche spiagge di Zanzibar e la sua natura incontaminata, dal deserto del Sudan attorno a Karthoum, alla suggestiva escursione sul Nilo.

Ci ricordi i titoli delle tue precedenti pubblicazioni? Esiste un filo conduttore o di aggregazione nei tuoi romanzi?
Prima di Mwende. Ricordi di due anni in Africa, ho scritto Con la mia valigia gialla, di cui questo ultimo è un sequel. Nel mio precedente romanzo, infatti, ho raccontato la mia prima volta in Africa, il mio primo viaggio da sola fuori dalla mia confort zone, durante le vacanze natalizie, sempre nello stesso ospedale missionario che da allora non è più uscito dalla mia vita. Già nel primo libro avevo riassunto i successivi due anni di residenza in Kenya e ora, finalmente, li ho raccontati nel dettaglio.

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A chi dedichi la tua ultima fatica letteraria?
La dedico al dottor Aldo, a Lucy, a Giorgio e Speranza (chi ha letto i miei libri o è stato a Matiri sa chi sono). La dedico anche ai miei genitori, che sono riuscita a trascinare laggiù, cui sarò per sempre riconoscente per come mi hanno cresciuta. Ovviamente la dedico a mia figlia Emma, che è l’amore della mia vita e che ho impastato con la terra rossa, cui resteremo per sempre legate. Infine, dedico questo libro a tutti i miei compagni di viaggio, quelli di cui parlo nel romanzo e anche quelli di cui non ho raccontato, non perché non mi siano cari, semplicemente perché sarebbe stato impossibile nominarli tutti senza far impazzire i lettori rincorrendo le innumerevoli storie.

Si dice che “in un buon libro la cosa migliore è tra le righe”. Tra le righe del tuo libro si cela qualche messaggio particolare, o il tuo obiettivo si limita a intrattenere piacevolmente il lettore?
Con Mwende. Ricordi di due anni in Africa ho voluto prima di tutto raccontare la mia esperienza e far conoscere la realtà del St. Orsola, l’ospedale missionario grazie al quale circa 150 mila abitanti possono accedere alle cure mediche altrimenti ad essi precluse. E poi credo sia importante aprire una porta su certe realtà, per rendersi conto che, al di là dei mezzi a disposizione e della diversa cultura, le emozioni e le abitudini delle persone non sono poi così differenti. Non ho approfondito troppo la mia storia d’amore, la parte più romanzata della narrazione, perché ciò che mi premeva raccontare era una delle innumerevoli facce dell’Africa. Qualcuno, in riferimento al mio precedente romanzo, ha criticato che quella raccontata non fosse l’Africa “vera”. Ecco, ci tengo a precisare che quella che io ho vissuto è comunque autentica e non ho certo la presunzione di dire che sia solo così, ma di sicuro è anche così. Un’Africa non estrema, ma decisamente intensa e vera.

Ci lasci un breve estratto da Mwende. Ricordi di due anni in Africa?
Ero stata a Zanzibar nel 2007, come semplice turista, in un hotel su al nord, la parte più stridente, secondo il mio modo di intendere il viaggio in luoghi lontani, tra usanze e culture differenti dalla mia. Non avevo avuto la possibilità di mescolarmi, di condividere, se non con gli altri clienti della struttura da cui, per altro, mi sentivo lontana anni luce. I colori violenti dell’isola, i profumi delle spezie e della frutta matura, l’armonia di una natura invadente e solo in parte domata, mi avevano fatto innamorare dell’Africa e, malgrado l’avessi vissuta attraverso una lente di plastica, capii allora che sarei tornata. E che lo avrei fatto sprofondando nel suo substrato senza fermarmi alla superficie, che già mi aveva sedotto, tastando l’anima del continente. Conscia del fatto che mai si può conoscere e capire davvero una terra di cui non si è indigeni ma rifiutandomi di viverla di nuovo come semplice spettatrice.
Partii di martedì pomeriggio, sul tardi, sfruttando un viaggio dell’ambulanza a Nairobi per i soliti servizi dell’ospedale. Avevo prenotato un volo economico per Stone Town, la capitale dell’isola, e mi ero accordata con la guest house per farmi venire a prendere all’aeroporto. L’autista Tony, infatti, mi aspettava con un cartello in mano con scritto il mio nome: Stefano.
Impiegammo più di un’ora ad attraversare l’isola e dirigerci verso la guest house che si affacciava sull’oceano Indiano. Un’ora nel buio, incontrando di tanto in tanto qualche villaggio di pescatori, illuminato dai fuochi e dalle luci dei locali pubblici. Mi dissi più volte che forse ero stata un po’ incosciente e frettolosa, soprattutto quando percorremmo lunghi tratti di strada tra le palme, nel nulla, rischiarati solo dalla luna, spettacolare e assoluta protagonista nel cielo. Sarebbe potuto accadermi qualsiasi cosa, nessuno sapeva dove mi trovassi esattamente, con chi avessi preso contatti. E in realtà nemmeno io sapevo molto della struttura che avevo prenotato via mail. L’autista poteva essere un terzo estraneo, un impostore pronto a darmi una botta in testa, derubarmi e abbandonarmi tra le palme. Sì certo, un estraneo che conosceva preventivamente il mio nome, seppure in modo impreciso.
Mi scrollai di dosso gli inutili timori e mi misi in ascolto della natura, godendomi l’incontaminato attorno a me.

Sarebbe troppo scontato chiederti che target di pubblico ambisci conquistare, quindi giro le carte in tavola e ti domando: a chi NON consiglieresti la lettura di Mwende. Ricordi di due anni in Africa?
Interessante questa domanda al contrario! In realtà non credo ci siano persone che non possano essere in grado di apprezzare almeno qualche aspetto del mio romanzo. Forse chi non ama i viaggi o non condivide l’operato delle associazioni umanitarie potrebbe trovarlo noioso e ripetitivo, non è un libro facile, perché non è facile vivere realtà come quella descritta, e la parte romance potrebbe non essere sufficientemente approfondita da invogliarlo alla lettura. Ma in questo caso credo perderebbe l’occasione di dare una sbirciatina a una delle tante facce di un continente magico e suggestivo. Di sicuro non consiglierei il mio libro a Trump e all’allegra brigata di chi odia certi “cessi di paesi”!

Vuoi lasciare un messaggio per i nostri affezionati lettori?
Certo, con molto piacere. Come blogger, mi piacerebbe poter ringraziare personalmente i nostri lettori, uno per uno, perché tornando a leggerci dimostrano di trovare interessante il nostro sito e questa è una soddisfazione impagabile per chi porta avanti un progetto culturale con passione. Come scrittrice indipendente, li ringrazio per darci fiducia anche se non abbiamo famose case editrici alle spalle, acquistando e leggendo i nostri libri, tra cui si può nascondere anche qualche ottima e inaspettata lettura.

Progetti per il futuro?
Mah, dal punto di vista letterario, sto già pensando ai prossimi romanzi. Uno sui miei nonni, le loro storie intorno agli anni della seconda guerra mondiale, nell’altro vorrei raccontare i miei viaggi con mia figlia Emma che ora ha quasi otto anni. Al di là del mio impegno come scrittrice, il mio progetto è trovare un lavoro non più precario ma che mi dia più stabilità economica… e che mi lasci il tempo per viaggiare! E poi, chiaramente, spero di poter tornare a Matiri molto presto, almeno a salutare tutti i miei vecchi amici e a rivedere la mia casa…

Grazie Stefania Bergo per essere stata con noi, un grande in bocca al lupo per il tuo libro, comunque vada sarà un successo!

Silvia Pattarini

Silvia Pattarini
Diplomata in ragioneria, ama scrivere racconti e componimenti poetici, alcuni dei quali compaiono in diverse antologie. Partecipa a concorsi letterari di poesia, prosa e premi letterari per narrativa edita.
Biglietto di terza classe,  0111Edizioni.
La mitica 500 blu,  Lettere Animate.


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