
Incipit #164 Padronanza assoluta. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel movimento. Quelle tre palline rosse nelle sue mani avevano catturato la mia attenzione.
Gli angeli del Bar di Fronte
di Elena Genero SantoroMainstream
Gli Scrittori della Porta Accanto
ebook 2,99€
Continuavo a osservarlo rapita. Lui non pareva farci caso. Attorno a noi una fiumana di gente che andava e veniva. C’era la Sagra del Peperone a Carmagnola. Era un evento che durava una decina di giorni: nel centro storico venivano allestiti stand fieristici, padiglioni, attrazioni varie, musica nelle principali piazze, luci ovunque e intrattenitori dappertutto. Carmagnola era un grosso paesone dove in genere non accadeva nulla di nulla. Diceva la mia amica Noemi, i cui nonni vivevano lì, che i locali commerciali erano tutti in mano a una mafia, per cui aprire anche solo una pizzeria era un’impresa impossibile. In effetti, la sera c’era il coprifuoco: Piazza Sant’Agostino deserta, non girava un’anima, per le strade non c’era nessuno. Ma in quei dieci giorni di fiera tra la fine agosto e l’inizio di settembre cambiava tutto. Il mondo intero confluiva lì. In Piazza Sant’Agostino allestivano un palco e veniva inscenato uno spettacolo, di musica o di cabaret, diverso ogni sera. Di sabato ingaggiavano pure qualcuno di conosciuto. Altrimenti si esibivano professionisti meno noti e le viuzze del centro storico si popolavano di pagliacci, trampolieri e acrobati. Quell’anno mi ero fatta coinvolgere da Noemi e dal suo fidanzato, Simone, e mentre attendevo che quest’ultimo comprasse gelato al peperone per tutti, mi ero lasciata incantare per caso dalle mani di quel ragazzo che continuava a lanciare per aria e ad afferrare le tre palline rosse. Non riuscivo nemmeno a distinguere bene il suo viso, perché si era dipinto la faccia di bianco come i clown ed era malamente illuminato dalla luce giallognola del lampione. Finché, a un certo punto, il giocoliere non fu distratto da qualcosa, distolse lo sguardo, e una delle palline gli scappò via, rotolando fino ai miei piedi. In quel momento Simone, col gelato in mano, mi chiamò. Mi voltai e lo raggiunsi, non senza aver prima ricevuto uno spintone da un passante. Poi cercai di nuovo il ragazzo con lo sguardo, ma non c’era più, doveva essersene andato. Mi resi conto in quell’istante che in quelle mani sicure avevo lasciato un pezzo del mio cuore.
Settembre 2013
Chiara
Mio padre era morto l’anno prima e a casa i soldi iniziavano a scarseggiare. Un tempo eravamo benestanti, ma poi con la crisi, il decesso del babbo e la depressione di mia madre c’era stato qualche problema. Mia sorella Eleonora oramai si era sposata, viveva a Milano, non la vedevamo di frequente. Di sicuro stava molto meglio di noi. In casa, un ampio alloggio di un edificio dalla facciata eclettica situato in via Cibrario, ormai c’eravamo solo io e la mamma, anche se lei viveva rintanata nella sua stanza, dormiva tutto il giorno e si nutriva di antidepressivi. Averci a che fare non era piacevole e stavo meditando di trasferirmi dalla mia amica Anna, per lo meno per un po’, anche se questo avrebbe implicato ulteriore esborso di denaro. Eppure stavo valutando l’idea, se non altro perché dovevo terminare gli studi, concludere una volta per tutte, e invece non ne venivo a capo. Mi mancava poco, dovevo finire di scrivere la tesi e trovare il tempo di discuterla, ma, da quando avevo iniziato a lavorare al bar, ero sempre distrutta e non avevo mai né la concentrazione né la voglia di accendere quel dannato computer e applicarmici. Il professore si stava seccando. Sperava di vedermi un po’ più presente nella Facoltà di Fisica, per lo meno nei laboratori, dove avevo il materiale da analizzare. La verità era che a lui i miei dati servivano, con urgenza per giunta, perché doveva rivenderseli il più in fretta possibile e trarne del lustro, ma io ormai ero nell’impasse più inerte e seguitavo a non dargli alcuna soddisfazione.
Comunque, al mattino cincischiavo abbastanza e mi trascinavo fino al primo pomeriggio quando era ora di prendere servizio. Quando arrivavo, trafelata perché il tram era sempre in ritardo, Armando, il proprietario, era già lì. E poco dopo il bar si popolava di alcuni individui, sempre più o meno gli stessi, che di fatto erano i cosiddetti “clienti fissi”. A lungo mi ero stupita della fedeltà di quei figuri, che incuranti del fatto che il bar fosse una vera bettola non avevano mai tradito Armando con il suo dirimpettaio, solo un po’ più decente, al di là del viale. Magari erano in cerca di un surrogato di famiglia, e con Armando si sentivano a casa. Ciò di cui avevo avuto modo di rendermi conto era che Armando era un ottimo ascoltatore: discreto, molto empatico, insomma, alla gente piaceva. Un barista nato, dunque, almeno secondo i miei canoni.
Chissà perché allora non dava al suo locale un tono più trendy, e continuava invece a lasciare che fosse un bugigattolo dall’arredamento spartano e dall’aspetto mai troppo pulito, per quanto io mi spezzassi la schiena a fregare i pavimenti dopo la chiusura. Evidentemente ad Armando conveniva mantenere quell’assetto. Forse la sua era una scelta economica. Comunque di soldi ne faceva. E poi teneva anche le macchinette, quelle che alcuni clienti con il vizio del gioco foraggiavano quasi ogni giorno.
Tra i clienti fissi c’era Giovanni, un uomo di circa cinquant’anni portati malissimo.
Poi, come sempre, quel giorno arrivò Carla. Carla era una disoccupata sulla trentina e oltre, piccola, magra, scura di pelle, con un taglio di capelli da dura, alcuni tatuaggi disseminati lungo il corpo e una gravidanza in stato avanzato. Del padre del nascituro, un maschio, non c’era traccia e lei non ne parlava mai. Di solito entrava e si accomodava al bancone, che ormai toccava con la pancia, e chiedeva da bere. In genere prendeva una bibita gassata, ma qualche volta si concedeva pure qualcosa di alcolico. Ogni tanto si sedeva alle macchinette e faceva qualche puntata, perdendo tutte le volte qualche decina di euro. Non avevo idea di come campasse, visto che non aveva un reddito fisso, e nemmeno poteva impiegarsi in lavoretti saltuari di impatto fisico, dato che era incinta. Ipotizzavo che potesse essere depressa per trascorrere le sue giornate con un bicchiere in mano in un bar dall’aspetto discutibile e frequentato da gentaglia. E pensare che, a vederla così, mi sembrava una donna dall’intelligenza vivace e dalle molte risorse. Comunque, in effetti, non la conoscevo a sufficienza per poter avere su di lei un’idea precisa.
E poi c’erano i rumeni. Il bar di Armando aveva come clienti fissi un gruppo di perdigiorno provenienti dall’est Europa, che si incontravano sempre allo stesso tavolino, si riempivano la pancia di birra e spendevano ore e ore fino a tarda sera discutendo di qualcosa nella loro lingua d’origine. Il bar di Armando era territorio loro, a differenza di quello di fronte che era popolato da nordafricani: marocchini, magrebini, algerini, non avrei saputo distinguerli. A me i nordafricani parevano tutti uguali, anche se immagino fossi io che non riuscivo a coglierne le differenze. Parlavano un italiano approssimativo mangiandosi sempre le vocali.
Invece da Armando c’erano i rumeni.
Solo uno dei rumeni si distingueva per la sua presenza silenziosa. Il suo nome era Victor...
Quarta di copertina
"Gli angeli del Bar di Fronte" di Elena Genero Santoro, Gli Scrittori della Porta Accanto Edizioni, 2018.
Chiara, italiana, e Paula, rumena. Due giovani voci in una Torino autunnale e desolata. Due ragazze che vivono di lavori umili. Chiara serve ai tavoli di un bar malfamato, Paula fa la badante in nero. Tra di loro un gruppo di ragazzi rumeni che ha tutta l’aria di essere una banda. Una sera, quello che pare essere il capo, Vic, salva Chiara da un tentativo di stupro da parte di due di loro. Chiara vorrebbe sporgere denuncia, ma Vic, che è tanto affascinante quanto ambiguo, le chiede di non farlo, in cambio della sua protezione. Nel frattempo l’ingenua Paula sogna l’amore, ma ripone tutte le sue speranze nell’uomo più sbagliato che ci possa essere. Un romanzo contro i pregiudizi e contro la violenza, che ha il sapore di una fiaba moderna.
★★★★★
Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
Tutti i nostri incipit:
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