Gli scrittori della porta accanto

A Biancaneve non piacciono le mele, racconto di Davide Dotto

A Biancaneve non piacciono le mele, racconto di Davide Dotto

Inediti d'autore Racconto di Davide Dotto. A Biancaneve non piacciono le mele. «Chiamatemi Neve, Neve come strega, matrigna senza figlie da tormentare. Neve a causa del ghiaccio e del freddo di questa sera all’aperto»

Si arriva sempre a un’età in cui non si comprende l’espressione del viso che restituisce lo specchio. Quel che offre è un volto nascosto dietro il lieve serpeggiare di rughe e lo sguardo assorto.
Era così concentrata sulla sua immagine, nemmeno dovesse da un momento all'altro intravedere l’anima, che non si accorse di una presenza sulla porta, intenta a osservarla. Colse il furtivo movimento del braccio che nascondeva, lesto, qualcosa in tasca.
«Un regalo?» domandò curiosa, voltandosi di scatto. Antonio, preso alla sprovvista, abbassò il mento, bofonchiò qualcosa senza farsi capire, tornò verso lo studio. «Dai, dimmi cos'è, non vergognarti», gridò lei rincorrendolo. Fece in tempo a distinguere la mano ritrarsi dal cassetto che chiuse a chiave.
«È colpa dei tuoi occhi, Bianca, mi paralizzano. Non sembri neanche tu, ma tua madre.» Bastò questo perché calasse su di lei l’inverno. Si scosse tutta ed esibì un sorriso stanco: «Fino a questo punto? È perché sto diventando vecchia? Che modo dolce di esprimerti. Non potevi farmelo capire meglio. Basta bisticciare ora, tanto ho capito cos'è, inutile fare il misterioso. Dai, apri il cassetto.»
«Non è il caso» replicò Antonio imperturbabile. «Al momento opportuno saprai cosa vi ho nascosto. La curiosità uccide il gatto, non lo sai?»
Bianca sospirò e se ne tornò in soggiorno immusonita.
Antonio era stato il suo principe azzurro. Ora era un uomo tozzo con i capelli bronzei e l’aria per bene, l’eterno sorriso che gli illuminava i lineamenti, il sigaro acceso pencolante dal labbro. Si conobbero davanti al multisala, a guardare lo stesso film. E pensare che sulle prime l’aveva scambiato per un vigilante.
Si sposarono in fretta, danzando un valzer la sera delle nozze, assaporando un lieto fine che sapeva di rivincita. Erano giovani, spensierati e caparbi, una coppia da fiaba pronta a resistere alle traversie del tempo. Per non invecchiare, Bianca non volle essere madre, ponendo nel nulla il senso della loro unione. Antonio non la prese bene. La scelta di lei fu felice per altri versi, perché avrebbe avuto in stizza la figlia che era stata. Ricordava ancora i pianti, gli alterchi, le mani di sua madre protese per graffiarle la faccia: «Meglio per te che non fossi mai nata» gridava.
Quella mattina fremeva per un capello bianco, a causa del quale aveva indugiato davanti allo specchio. Non voleva che Antonio sorprendesse né il gesto, né il segno destinato ad accompagnare la corazza di rughe che avrebbe solcato il volto da lì a non molto. No, Antonio non l’aveva notato il capello bianco, traccia impassibile degli anni trascorsi insieme, aveva preferito attardarsi sui suoi occhi.

Antonio era goloso di mele rosse che portava alla bocca con il coltello, non prima d’aver spruzzato sulla polpa un velo di zucchero.

Ne mangiava tante, troppe, tre o quattro alla volta. Solo lui. Non si curava delle contumelie di Bianca, che tutte quelle mele insieme erano velenose. Le mangiava per tentarla, e rifilargliene una tra i denti.
Le lasciava l’ultima, la più bella, rossa e succosa, che non addentava mai. « È per te» diceva lo sguardo, sicuro che vi si posasse come fa una mosca. Lei invece la scostava da sé.
«A Biancaneve non piacciono le mele» commentava.
Vedergliele mangiare le ostruiva lo stomaco. Masticava a bocca aperta, mostrando i denti.
Quelle stesse labbra poco dopo si sarebbero posate sulle sue, o sulle guance. Per questo e altri motivi non dormivano insieme. Stava invecchiando male. E lei con lui.
«Per vivere a questo mondo occorre avere spalle larghe, affrontare di petto la realtà, conoscere luci e ombre, cibarsi senza sosta del frutto della conoscenza». Questo era il suo pensiero, non quello di Bianca.
Al contrario lei preferiva le fiabe, quelle almeno sai come vanno a finire. Le piaceva raccontarsele, sognava a occhi aperti. Le fiabe la aiutavano a tenersi salda al suolo, senza barcollare, al contrario di Antonio, con i piedi troppo per terra.
Non si capivano più. Negli ultimi mesi era cambiato. Quando il malumore raggiungeva il culmine rimaneva seduto o in piedi, nascosto nello studio, sicuro di non rivelare lo sguardo imbambolato, la figura imbalsamata e immobile di chi non ascolta, o non raccoglie una battuta arguta uscita in radio. Ciò che accadeva fuori casa lo sapeva solo lui, che rientrava sconsolato, con l’aria di chi aveva litigato da qualche parte. Dall’oggi al domani rifiutò di leggere i quotidiani, di seguire i notiziari, di sapere niente di niente. Prese a comportarsi in modo insolito. Non era mai a casa.
Bianca pensò a un’amante. E in fondo avrebbe preferito fosse così.
Venne meno la voglia di aspettarlo, la sera, seduta sulla sedia o in poltrona. Preferiva attenderlo in piedi, attaccata al telefono con le amiche, impegnata in colloqui che non finivano mai. In questo modo pensava ad altro e sbolliva la rabbia di chiedergli dove fosse stato.
«A lavorare». Sicuro.

Vestita della sua pelle indolente, usciva a tratti dalle sue nervature per ricomporsi in tutt’altro aspetto, per nulla benevolo. Assomigliava a una madre-matrigna, come diceva lui.

Che almeno le somigliasse in tutto e per tutto.
Quando capì che non avevano più un centesimo?
Dura da confessare, da digerire, da far digerire. Si sarebbe comunque accontentata, si sarebbe tirata su le maniche. Lui no. Non più. Lo terrorizzava l’insostenibile condizione di ritrovarsi sul lastrico, il perdere quel tutto che gli apparteneva più di se stesso. E così si aggrappava alla realtà che conosceva, vivendo sulla pelle la paura che potesse cambiare.
Togliete al principe azzurro il castello e non avrete più il principe azzurro. Togliete alla matrigna la figlia, e non avrete più la matrigna. Togliete a Biancaneve i capelli neri come l’ebano, le labbra rosse e la carnagione bianca, e non avrete più Biancaneve.
Le scesero lacrime che la lasciarono stupita. Pensava che un tempo Antonio avrebbe affrontato per lei mari in tempesta, vasti deserti, draghi, streghe. Scoppiò in una risata isterica quando intercettò l’avviso dell’ufficiale giudiziario. Da allora provò spavento delle ombre notturne, dei passi, dei silenzi, di Antonio chiuso nello studio, nemmeno fosse un altro. Lo sorprese a spulciare sulla spesa, sbiancava davanti allo scontrino battuto alla cassa. Non fiatava, però.
Cominciarono a sparire i gioielli di famiglia, impegnati chissà dove. E la macchina. Dal meccanico, diceva, una botta di quelle che il preventivo tarda ad arrivare per quel pezzo di ricambio introvabile.
E forse andava in giro a piluccare favori e prestiti, staccandosi a poco a poco dall'immagine così perfetta che conservava di lui.
Che dire se non che ne approfittò? Ecco un bel paio di scarpe nuove, una gonna di velluto, una giacca per la bella stagione.
Dipendeva dall'occasione che si fosse presentata, allora sarebbe scoppiato, si sarebbero chiariti. Perché Antonio, se tutto filava liscio, aveva il suo bel dire e suo bel fare, ma di fronte a difficoltà serie, dimostrava il cuore di chi temeva di perdere tutto, di scomparire nel dissolversi del proprio tutto. Perché il principe azzurro è destinato a scomparire insieme al suo castello, l’aveva detto, no?

Intuì da chiari segni che il suo principe voleva farle la pelle.

Suo era il volto del guardiacaccia col coltello che la perseguitava nei sogni, suo il volto della madre che la voleva avvelenare, cui diceva di assomigliare.
Poco le importava se tergiversasse, tentennasse, tornasse sui propri passi, lasciasse cadere il proposito. Avrebbe preferito rimproverargli un tradimento, o qualcos'altro di imperdonabile. Capì da chiari segni che voleva porre fine all'esistenza di lei prima che arrivasse l’omino del banco dei pegni, staccassero il gas, la luce, o intimassero lo sfratto. Lo vide maledire il primo bacio e la festa al castello – uno vero – il valzer ballato insieme, gli amici, sette per giunta, che avevano benedetto la loro unione.
Una mattina Antonio indossò la giacca da portare in tintoria e non quella buona. Uscì quindi senza portafogli e l’indispensabile agenda.
Bianca lo rincorse invano per le scale, quando dalla tasca scivolò una piccola chiave. Allora si fermò, rientrò in casa, sprangò la porta.
La chiave.
Del cassetto.
Erano passati dieci giorni, Antonio non era più tornato sull'argomento. Qualunque oggetto avesse riposto nel mobiletto dello studio, era stato dimenticato.
Esitò qualche minuto, per scrupolo di coscienza. Infilò la chiave nella serratura, aprì il cassetto e la vide.
Nera, lucente, senza un briciolo di polvere. Tozza, lucidata. Era quella che fece scivolare in tasca quel giorno?
Le mancò il fiato per lo spavento, implorò Iddio che la ridestasse dall’incubo che stava vivendo.
Fu così che imparò, su molte cose, a serbare il silenzio. Non era infatti adusa alle facili sfuriate, aveva sempre preferito lasciar correre. A poco a poco aveva capito come andavano le cose, come la mela lasciata sempre per ultima, che buttava con la scusa che aveva preso a marcire, neanche contenesse un potente veleno. Che odore, considerava annusandola.

Più che restare incantata davanti allo specchio delle brame, pensava, avrebbe ora scrutato con la coda dell’occhio l’espressione sul viso di Antonio appoggiato alla porta del soggiorno.

Quella sera entrò nella sua stanza. Aveva appena varcato la soglia che Bianca si destò di soprassalto.
Le era parso un rumore di fuori, la brusca frenata di un’auto che si allontanava. Si insinuò, tiepida, la luce di un lampione. Il silenzio che seguì la turbò, come la figura oltre la sponda del letto: «Antonio, sei tu?»
Antonio si scosse per l’espressione sorpresa che ebbe il tempo di osservare, spaventandosi della paura di Bianca. Teneva l’arma rivolta contro di lei.
Bianca si strinse al lenzuolo, alzò la coperta facendosene scudo.
Lo sparo fu più veloce del suo grido, un lampo illuminò la parete e poco altro. Sentì il tonfo di un corpo che cadde.
«È stato un incidente, non voleva farlo. Sicuro, non voleva farlo. L’ha puntata contro di me, ma io non dormivo. Ho sentito un rumore, mi sono alzata da supina che ero. Sapeva che l’avrei guardato. Io e il mio vizio di fingere di dormire. Sempre tra la veglia e il sonno, un delfino sul pelo dell’acqua, con una parte sommersa e il capo fuori, pronta a scorgere ogni sfrigolio, il passo più lieve» pensò.
Specchio traditore e perverso, senza di lui chissà quando si sarebbe accorta di quel capello bianco. Il tempo reclamava il giusto prezzo, non si può essere se stessi più di una volta. Un’altra donna si era fatta largo costruendosi un varco tra i lineamenti di lei. Il bianco del capo di lì a poco sarebbe prevalso sul pallore, imponendo un nuovo nome.
Chiamatemi Neve, Neve come strega, matrigna senza figlie da tormentare. Neve a causa del ghiaccio e del freddo di questa sera all’aperto.
L’ufficiale giudiziario si presentò più puntuale delle pompe funebri e del commissario di polizia.
Bianca ha perso tutto. Ora vive tra le strade, a ridosso di un carrello della spesa colmo di cianfrusaglie raccattate dai robivecchi. A chi s’avvicina grida e bestemmia, che non la derubino del niente che possiede.
C’è voluto del tempo perché si abituasse alla nuova condizione, si smorzasse dai timpani l’eco dello sparo, la lunga nota bassa che sapeva di radiazione cosmica, lungi dallo spegnersi del tutto.
Tra i pattumi stasera ha trovato una mela. Rossa e succulenta. L’ha addentata, masticata. Forse è avvelenata. Ma a lei non importa.
Davide-Dotto

Davide Dotto
Sono nato a Terralba (OR) vivo nella provincia di Treviso e lavoro come impiegato presso un ente locale. Ho collaborato con Scrittevolmente, sono tra i redattori di Art-Litteram.com e curo il blog Ilnodoallapenna.com. Ho pubblicato una decina di racconti usciti in diverse antologie.
Il ponte delle Vivene, Ciesse Edizioni.


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