Gli scrittori della porta accanto

Processo per stupro, un racconto di Stefania Bergo

Processo per stupro, un racconto di Stefania Bergo

Inediti d'autore Racconto di Stefania Bergo. Processo per stupro: dalle domande realmente fatte dagli avvocati in aula, la rabbia di una donna che deve difendersi anche quando è vittima.

Era arrivato il giorno del processo e quella mattina M. si era svegliata con una gran nausea. Erano appena le cinque ma non riusciva a riprendere sonno. Le tremavano le mani e un frullo d’ali le solleticava la bocca dello stomaco. Sbattevano su, in alto, le sentiva isteriche contro il suo sterno. Si alzò di scatto e corse in bagno, riuscendo a malapena ad aprire il coperchio del water. Ma dalla bocca non le uscì nulla, furono solo conati. Devastanti sforzi che la fiaccarono. E la precipitarono in un groviglio di immagini e sensazioni sgradevoli.
Era dolorosamente vivo in lei il momento in cui si era sentita così l’ultima volta. L’indomani dello stupro.

Era accaduto tre mesi prima. 

Aveva conosciuto C. al bar, dove lavorava saltuariamente per mantenersi in quella grande città. Lui era una guardia giurata e ogni mattina, alla fine del suo turno, andava lì a far colazione, ancora con la divisa.
Era facile per lei entrare in sintonia con le persone. Era tagliata per quel lavoro che richiedeva non solo abilità nel fare caffè e scaldare brioche ma anche, e forse soprattutto, una spiccata socievolezza. Lei la vedeva così, come un lavoro per cui era tagliata. Molti altri la vedevano diversamente, come una ragazza ammiccante e disponibile. Ma C. sembrava diverso, pareva quasi gli dessero fastidio certi commenti sul suo conto.
Bastò poco, a M., per fidarsi di lui.

Erano usciti una manciata di volte. Appuntamenti ingenui, così li aveva valutati M. Erano stati al cinema, a pranzo fuori, avevano trascorso un pomeriggio al parco e una serata in casa, sul divano a guardare un DVD. Avevano finito col baciarsi a lungo come due adolescenti, toccandosi con tale passione da stordirsi senza nemmeno arrivare a fare l’amore. Fu M. a tirarsi indietro ad un certo punto, non aveva intenzione di farsi travolgere, non ancora.
Eppure, incurante della sua reticenza, lui le chiese ancora più fiducia. Si incontrarono a casa si C., una sera che lui non faceva il solito turno alla gioielleria. Le disse, quasi glielo ordinò, di mettersi qualcosa di particolarmente provocante e di andare da lui senza vestiti, solo con un soprabito. Lei era eccitata all’idea. Si presentò con un completo di pizzo nero, con una fila di perle cucite sulla scollatura e ai lati del perizoma, tenuto su solo da un laccetto di velluto nero. Lui la accolse con una bottiglia di vino già aperta sul tavolo.
Dopo un paio di bicchieri, ubriaca e con addosso solo il perizoma, C. le mostrò un paio di manette e, sorridendo, la stuzzicò per fargliele indossare. Non lo vide subito, non si accorse di quel guizzo sardonico negli occhi, nemmeno quando lui le bloccò le braccia dietro la schiena. Nemmeno quando lei gli chiese «E adesso?», complice, e lui le rispose «Adesso ci divertiamo, troietta!»

La buttò sul letto con una spinta che scansava ogni illusione e la piombava nell’anticamera di un incubo. 

Si frantumò la sua bolla perfetta, ne scaturì un’aria acre, ferrosa, come il gusto che avvertì in bocca quando lui le diede il primo schiaffo. E mentre stentava a ridestarsi dall’incredulità e da quell’embrione di paura, lo sentì parlare al telefono con qualcuno. Gli disse di raggiungerlo.

Restarono in quella casa per tutta la notte. Ma l’incubo parve non avere fine e sforare il tetto del tollerabile. La paura era germogliata e aveva messo profonde radici, M. era atterrita, sbattuta a terra, sul tavolo, al muro. Ancora e ancora, prima uno, poi l’altro, poi entrambi. Lei era paralizzata, a tratti usciva dal suo corpo e sorvolava la stanza, vedendosi da fuori, chiedendosi perché non facesse nulla per ribellarsi. Li sentiva insultare quel corpo di cui stavano abusando, insultare lei, l’inquilina di un palazzo sventrato senza più serratura. Nessuna porta poteva tenerla al sicuro, ormai. Nessuna porta poteva tenere fuori quegli animali che vomitavano piacere indecente e umiliazioni. Istintivamente si pietrificò come lava che si tuffa nell’oceano. I primi brandelli di reazione, quei no gridati con terrore e determinazione, lasciarono il posto a una resa tremante, a una nausea invadente. Al disprezzo per quel corpo che le stava causando tanto dolore. Fu un attimo, uno solo: si accusò di tutto, assolse quelle bestie. Poi tornarono i suoni. Li sentì caldi su di lei, entrambi, per l’ennesima volta. E si ridestò. Li vide. E rimise a posto causa ed effetto, prima e dopo, colpa e innocenza, riportando l’equilibrio nel suo miserabile universo.
Loro, come nulla fosse, la accompagnarono addirittura a casa la mattina dopo, spingendola fuori dalla macchina come un cane, ridendo di lei, tronfi di averla dominata “come si deve”. E lei, lacerata come un vecchio lenzuolo da cui si possono solo fare stracci per spolverare, salì le scale mesta, avvertendo i suoi stessi cocci scricchiolare sotto i suoi piedi scalzi.

Erano passati tre mesi, ma sentiva ancora il tanfo del sudore di quei due corpi che l’avevano violata. 

Era proprio questo che la nauseava. O forse no, forse la nausea era data dal pensiero di quel processo in cui sarebbe stata violentata di nuovo, dagli avvocati difensori dei suoi aguzzini e dai loro occhi spavaldi. Oh sì, lo sapeva che si sarebbero sentiti più forti di lei ancora una volta, sicuri di non pagare per quel loro atto criminale. Perché per loro non era affatto un “atto criminale”. Era un diritto esercitato, la logica conseguenza di un’istigazione.

Entrò in aula con la zavorra. Sentì l’eco dei suoi passi. Incrociò prima del previsto gli occhi verdi di C. e a malapena riuscì a deglutire. Le si seccarono le fauci, eppure le pareva di annegare. E nella sua testa avvertì un click. Il suono delle manette che le si serravano sui polsi e la chiudevano in un incubo.
Si sedette al banco degli imputati, era il suo turno di essere interrogata. Con il suo avvocato, una donna empatica che le pareva di conoscere da sempre, aveva preparato per mesi questo interrogatorio, ben sapendo che sarebbe stata carne da macello. Ancora una volta. Perché un processo per stupro è ancora oggi un bizzarro e inaccettabile caso in cui la vittima diviene l’accusata, in cui si indaga sulla sua vita alla ricerca di una falla, senza rendersi conto che l’unica falla è stata aperta proprio da chi l’ha stuprata. Una falla invalidante, una pallottola che uccide senza uccidere e che quindi non ha evidenza. Perché chiunque può deflorare quel simulacro, ma nessuno può entrarci davvero e sapere quali brandelli si porti appresso.

Processo per stupro: colpevolizzazione della vittima

Avvocato difensore di C.: «Prima di arrivare al rapporto sessuale non si era scambiata nessuna effusione con il mio cliente, effusioni consensuali e reciproche?» *

Non poteva crederci. Allora era vero, allora davvero funzionava così, anche in un paese che spavaldamente di definisce progredito, mentre è rimasto al palo e gli dà fuoco ogni volta che c’è legata una donna.
M.: «Sì, ho scambiato con lui effusioni consensuali e reciproche. Ci frequentavamo da qualche settimana, è normale. Ma poi le cose sono mutate e anche se ero stordita dall’alcol ho cambiato idea, ad un certo punto non mi è piaciuto più».
“È un mio diritto no? – pensò con disgusto –, voglio dire, se mentre sta mangiando un gelato ad un certo punto trova sotto i primi strati un gusto che non le piace mica lo deve cacciare giù a forza solo perché ormai ha iniziato a mangiarlo. Non è così difficile da capire. Forse lo è da accettare, ma da capire no. Su, sono sicura che sia più intelligente di così, avvocato.”

Avvocato: «Durante questo rapporto C. l’ha mai minacciata, ad esempio urlando o con le mani?»
M.: «Nessuna minaccia esplicita però mi sentivo minacciata dal fatto che lui porta un’arma».
Avvocato: «Quindi ha usato la forza per sottometterla?»
Giudice: «Cosa intende per forza avvocato?»
Avvocato: «Se ha dovuto forzarla, esercitare una certa pressione. Non ha lottato fisicamente? Volevo sapere se C. ha esercitato violenza...»
Giudice: «Che brutta domanda avvocato. Sono domande che si possono e si devono evitare nei limiti del possibile, perché c’è un accanimento che non è terapeutico in questo caso... Non bisogna mai andare oltre certi limiti. È l’inutilità a mettere in difficoltà le persone, non si può ledere il diritto delle persone».
Avvocato: «Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa?» *


«Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa?»

“No, ma davvero mi sta chiedendo 'sta cazzata? Ma con che coraggio si guarda allo specchio la mattina dopo aver torturato in questo modo una donna che ha subito violenza?”

Giudice: «Inammissibile, le abitudini personali, gli orientamenti sessuali non possono essere oggetto di deposizione».
Avvocato: «Aveva la biancheria intima?» *

“Prego? – Pensò incredula, spalancando gli occhi inequivocabilmente – Ma che cazzo di differenza fa? Per lui avrebbe fatto differenza? No! Mi avrebbe violentato comunque. Ah già, la differenza sta nel fatto che in un caso me la sarei andata a cercare. Ma non provate mai schifo per voi stessi quando fate queste domande?”
M.: «Sì».

Avvocato: «La ragazza si è sottoposta a una visita ginecologica sulle malattie virali. Possiamo sapere l’esito di questa visita?».
Giudice: «Sta scherzando avvocato? Questo attiene alla sfera intima non è ammesso questo genere di domande. Ripeto: non torno indietro di 50 anni, non lo consento a nessuno».
Avvocato: «Si può sapere se ha una cura in corso?».
Giudice: «No».
Avvocato: «È la prima volta che è stata violentata in vita sua?» *


«È la prima volta che è stata violentata in vita sua?»

“No, adesso la devi finire, stronzo!” lo pensò con così tanta collera che per un attimo le parve di averlo detto davvero. “Sì, vengo stuprata ogni anno, la seconda quindicina di luglio. Quindi? È rilevante la cosa? Ah già, forse, dopo la seconda volta, viene il sospetto che magari mi piaccia e lo faccia apposta, vero? Che tentazione, avvocato, di rigirare quella frittata marcia. Ma io non glielo permetterò, io sono la vittima!”
M.: «Sì. È stata la prima volta. Credo che non ripeterò l’esperienza, grazie».
Lo disse con un tale livore, con una determinazione che non si riconosceva. Il dolore di quelle domande, invece di definire lo squarcio e tagliarla definitivamente in due, la stava risaldando, anche se i lembi di carne risultavano sovrapposti e per il resto della sua vita quella ferita le avrebbe dato un sordo fastidio, ricordandole per sempre, al tatto, entrambi gli stupri, quello nell’appartamento e quello nell’aula di tribunale.

Avvocato: «Ha un fidanzato?».
Giudice: «Cosa ci interessa avvocato?».
Avvocato: «Voglio sapere se ha un fidanzato, se è un poliziotto… […] Ha precedenti penali?»
Giudice: «Domanda non ammessa. Non si può screditare un teste sul piano della reputazione, lo si può fare sul contenuto delle dichiarazioni. Se un teste non è una persona sincera lo dobbiamo rilevare dal contenuto delle dichiarazioni». *

“Lasci fare giudice, glielo lasci chiedere, muore dalla voglia di vedere un’incrinatura in me per far leva e aprirsi un varco verso l’assoluzione di quei criminali. “
M.: «No, non ho precedenti penali».
“Ma il mio sogno è essere incriminata per stupro. Il mio. Fanculo, perché adesso non ci concentriamo su chi siano gli accusati? Io sono la vittima!”

Avvocato: «Ha mai visitato un negozio di divise […]?»
Giudice: «Ma che ci interessa! Non è rilevante!».
Avvocato: «Ha mai fotografato il volantino di questo negozio?»
Giudice: «Non è rilevante».
Avvocato: «C. si è accorto che lei era ubriaca?»
Giudice: «Non va bene avvocato, stiamo chiedendo a una persona ubriaca, affermazione senza offesa visto che l’ha detto lei, se avesse la capacità di rendersi conto del suo interlocutore».
Avvocato: «Ha mai detto a C. che non avrebbe voluto fare sesso con lui?» *

M.: «Sì, l’ho detto in modo inequivocabile, gli ho detto “Basta, non mi diverto affatto, riportami a casa, per favore”. Credo fosse abbastanza chiaro. Un bambino di sei anni direbbe che è chiaro. Forse ho solo sbagliato a chiedergli per favore. Ma ancora non avevo capito dove volesse arrivare, non ci credevo, sapevo solo che non volevo più andare oltre».
“Ma a uno che viene derubato fate le stesse domande del cazzo? Gli chiedete se ha fatto capire al ladro di non essere d’accordo col furto?”
Il livore era tornato, vacillava, il senso di colpa si affacciava di tanto in tanto, ma lei lo ricacciava in fondo all’aula. Era paonazza, ma non poteva dar aria a quei pensieri, il suo avvocato l’aveva istruita bene, non doveva dare nulla in pasto a quelle fiere, nulla a cui potersi attaccare.
“Se vi riesce più facile, vedete pure lo stupro come un furto. Sono stata derubata della mia intimità, della mia vita spensierata, della fiducia che posso riporre negli uomini. Mi hanno portato via la dignità, la salute, l’equilibrio psicologico. In molti casi anche la vita. Ma la mia no, me l’hanno lasciata. In frantumi, ma me l’hanno lasciata.”

Processo per stupro: silenzio, per favore, entra la vittima...

Avvocato: «C. ha insistito per avere contatti con lei? Ha insistito silenziosamente, con gesti e parole, perché uno insiste a un “no”...»
Giudice: «Ha manifestato questo non gradimento con comportamenti espliciti?»
M.: «No, non avevo forza nel mio corpo».
Giudice: «E con questa risposta non accetto più domande così invadenti».
Avvocato: «Perché dobbiamo privarci di scoprire la verità, la ragazza muore dalla voglia di dire la verità, sentiamola […]»
Giudice: «Che ironia fuori luogo, ora sta andando oltre il consentito. C’è una persona che secondo l’accusa ha subito una violazione così sgradevole e lei fa dell’ironia? Io credo che non sia la sede».
Avvocato: «Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina? Cosa diceva esattamente […] quando urlava? Erano urla di parole o semplicemente urla di dolore?».
Giudice: «No, fermiamoci qui, il sadismo non è consentito». *

“Erano parole di dolore, stronzo, preghiere disperate. Ma che ne sai, tu, cosa puoi saperne di quello che si prova? Ti sono mai entrati dentro senza chiederti il permesso? Pensando di averne i diritti per il semplice fatto di avere un pene che, guarda a caso, è preformato per entrare in una vagina? Se aveste voi le appendici concave e noi quelle convesse forse non ci violentereste nemmeno. L’atto di entrare è asettico, quello di essere profanati no. E tu, tu che mi fai queste domande del cazzo non sei diverso da loro. Usate solo modi diversi.”

Avvocato: «Una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. L’atto è incompatibile con l’ipotesi di una violenza. Lì il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui maschi. È lei che prende, è lei che è parte attiva, sono loro passivi, inermi, abbandonati, nelle fauci avide di costei! Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l’uomo. Avete cominciato con il dire “Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?” Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente». **

Buio.

Nella mente di M. calò il buio più oscuro. Come quella notte. La notte in cui tutte le sue volontà furono sottomesse al volere di quei due che l’avevano stuprata. Era di nuovo atterrita, aveva di nuovo paura di mostrare anche solo un’espressione che potesse contrariare il suo aguzzino, l’avvocato. Perché sapeva che qualsiasi espressione l’avrebbe provocato e la violenza si sarebbe acuita. Così ancora una volta optò per l’estraniarsi da sé e sorvolare sopra quell’ennesima violenza. Senza più parlare. Senza più pensare.
Ma poi tornò a sentire i rumori di fondo, il mondo riprese a ruotare di nuovo.
M.: «Io sono la vittima, io sono quella che è stata stuprata. Loro mi hanno stuprato, loro sono i colpevoli. La loro colpa non si misura sui miei “no”. Non si misura sulle macchie della mia vita o sui centimetri di pelle scoperta. Uno stupro è uno stupro! Smettetela di processare me, io sono la vittima!»
Le sembrava un incubo. Voleva solo andarsene, scappare da quell’aula così come aveva desiderato evadere dalla prigione di quell’appartamento. Ma era ancora nuda, ancora legata con le mani dietro la schiena. Non poteva fare nulla. Ma ora la sua determinazione superava la sua paura. Non sarebbe più stata inerme, non li avrebbe lasciati più far scempio di lei ridendole in faccia.

Avvocata di M.: «[…] E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. [...] Io non sono il difensore della donna M. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza. Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia». **

Sipario.


* Processo per stupro a Firenze, le domande choc in aula alle due ragazze: «Trovate sexy le divise?»
Dal processo per stupro di due studentesse americane nel 2018.

** Violentata e offesa: poi quel processo in Tv cambiò gli italiani.
Dal processo per stupro di Fiorella, violentata da quattro uomini nel 1978.
Nel 1981 viene abrogato l’articolo 544 codice penale che ammetteva il "matrimonio riparatore".
Prima del 1996 il reato di violenza sessuale era rubricato nel Codice Rocco nella sezione dei "Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume" e non in quella dei "Crimini contro la persona".



Stefania Bergo


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