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Evadere ai tempi del coronavirus: un racconto di Maria Dell'Anno

Evadere ai tempi del coronavirus,: un racconto di Maria Dell'Anno

Inediti d'autore Racconto di Maria Dell’Anno. Evadere ai tempi del coronavirus: quando andare a prendere il pane è una fuga dagli arresti domiciliari.

Omicidio, sostituzione di persona, truffe miliardarie…
Chi guarda le fiction televisive deve pensare che i processi siano sempre misteriosi, appassionanti e degni della prima pagina dei giornali. Lavorando in un Tribunale, invece, la prima cosa che si impara è che la realtà è spesso meno entusiasmante di una sceneggiatura, e che le giornate scorrono per lo più tra piccoli furti, altrettanto piccole truffe, e altrettanto piccoli spacciatori. Ma, a volte, accade anche che la realtà superi la fantasia, ed è così che, per esempio, l’evasione assume un nuovo significato.
Una rocambolesca fuga da Alcatraz? Un letterario diversivo per uscire non visto dallo château d'If? Una prosaica e pesante bustarella data a qualche agente della penitenziaria per abbandonare Poggioreale? No, niente di tutto questo. Qui si evade solo da casa.
Certo che gli arresti domiciliari ai tempi del coronavirus sono diventati un po’ più patrimonio comune di quanto non fossero prima, visto che quasi tutti siamo rimasti reclusi in casa in attesa che la tempesta passasse, con il desiderio di evadere per una passeggiata. Ma c’è anche chi pure ai tempi del covid-19 evade nel senso legale del termine. Da casa, però.

La modalità dell’evasione è piuttosto semplice: basta aprire la porta.

Niente a che vedere con la fatica che ha dovuto fare Edmond Dantès, prima scavando un tunnel nei muri e poi approfittando della morte del povero abate Faria per farsi buttare da un dirupo avvolto in un sacco, forte della speranza di poter compiere la sua vendetta contro chi lo aveva ingiustamente incarcerato. Ma, mentre il buon Edmond, dopo l’evasione, con costanza e astuzia, pianifica e realizza la sua agognata vendetta, chi evade da casa ai tempi del coronavirus viene arrestato a pochi metri dal suo portone dai carabinieri di quartiere. Appena pochi minuti per respirare il profumo della libertà – naturalmente attraverso l’obbligatoria mascherina -, per poi finire nuovamente davanti a un giudice per la direttissima.
Ma perché si evade ai tempi del coronavirus? Per vendicarsi di una soffiata? Per recuperare la refurtiva nascosta? Per raggiungere i propri complici in un paese senza estradizione? No. Ai tempi del coronavirus si evade per andare a comprare il pane. Pane rigorosamente già prenotato per telefono, per non creare code e assembramenti davanti al negozio.
D’altra parte l’attenzione alla salute viene prima di tutto, anche del crimine. Ed è così che un giudice, un pubblico ministero, un avvocato, un carabiniere e un evaso, al posto di occupare il ruolo di personaggi in una barzelletta da bar, si ritrovano collegati da remoto, ciascuno dalla sua aula, dal suo ufficio e dalla caserma, per discutere se e come punire questa violazione della legge.
Chi si aspetterebbe un’arringa alla Perry Mason in un processo che si apre con queste premesse? Eppure le vie della giustizia sono infinite, perché è proprio nei contesti più impensati che emerge il riferimento a quei pochi articoli del codice penale che sono diventati la base dei grandi romanzi: la legittima difesa e lo stato di necessità.
Il povero evaso racconta che, in effetti, si trovava in regime di detenzione domiciliare per reati già commessi e condannati e che, non avendo nessuno che si possa occupare di lui e aiutarlo nelle incombenze quotidiane indispensabili, aveva chiesto al magistrato di sorveglianza un permesso di uscita in certi orari. L’avvocato precisa che l’illustre magistrato ancora non ha provveduto in merito all’istanza, forse perché anche la pandemia influisce sui tempi della giustizia, notoriamente già tibetani. Il povero evaso prosegue raccontando che dopo qualche giorno di reclusione, privo ormai anche dei più essenziali mezzi di sostentamento alimentare, ha dovuto farlo.

Si è risolto a violare la detenzione per andare a comprarsi un po’ di pane.

Pane rigorosamente già prenotato telefonicamente, come già detto, per non creare code davanti al negozio.
Il carabiniere conferma di averlo arrestato proprio in quei pochi metri che separano il suo appartamento dalla panetteria e aggiunge che, dopo aver proceduto all’arresto, si è preoccupato anche di ritirare il pane già prenotato a nome dell’evaso, perché non sia mai detto che i carabinieri non sono al servizio dei cittadini, tanto più in una circostanza storicamente drammatica come quella che stiamo vivendo.
E così, sazio e ammanettato, il povero evaso chiede clemenza al giudice: non aveva altro modo di sfamarsi. L’esperto avvocato illustra quindi la fine giurisprudenza pronunciata dalla Suprema Corte sulla tanto importante previsione normativa dello stato di necessità, argomentando in modo inoppugnabile che il povero evaso non ha fatto altro che esaudire una necessità fisiologica non altrimenti soddisfabile, e che è proprio il fine ultimo della giustizia quello di tutelare i diritti fondamentali e inalienabili dei cittadini.
A questo punto il pubblico ministero, allargando le braccia, in modo solo parzialmente visibile attraverso il collegamento da remoto, si rimette a giustizia. Il giudice riflette. Forse pensa alla strana forma di detenzione domiciliare a cui la natura ci ha così inaspettatamente tutti condannati. Forse pensa che il suo stomaco reclama il pranzo e che in effetti quando lo stomaco chiama è difficile non rispondergli. E in nome del popolo italiano assolve il povero evaso, che se ne torna accompagnato dai fidati carabinieri al suo luogo di espiazione della pena in regime domiciliare, con un nuovo sacchetto del pane.

© Maria Dell'Anno, autrice di Troppo giusto quindi sbagliato (Le Mezzelane).


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