Gli scrittori della porta accanto

Monologo da Teatro, di Stefano Benni

Monologo da Teatro, di Stefano Benni

Palcoscenico Di Tamara Marcelli. Il monologo teatrale da "La misteriosa scomparsa di Wu", della raccolta Teatro di Stefano Benni.


Stefano Benni è nato a Bologna il 12 agosto 1947. Scrittore, sceneggiatore, giornalista e drammaturgo, si è fatto conoscere presto per i suoi scritti pungenti. Ha pubblicato racconti, testi teatrali, articoli, romanzi e poesie. La sua satira sulla società contemporanea cela una profonda conoscenza dell’animo umano.
Tra le sue opere più famose Bar sport (1976), Il bar sotto il mare (1987), Le Beatrici (2011), Blues in sedici. Ballata della città dolente (1998), Terra! (1983), La compagnia dei Celestini (1992), Teatro (1999). Celebre la sua poesia dal titolo Io ti amo.
Da 2018 Stefano Benni è supervisore artistico della Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Roma.
Gli addii non si ripetono, la prima volta sono romantici, la seconda noiosi, la terza ridicoli o tragici.

Monologo da "La misteriosa scomparsa di Wu", della raccolta Teatro.

"La misteriosa scomparsa di Wu" è un monologo femminile in cui la protagonista, paziente psichiatrica, ci svela la sua storia e, allo stesso tempo, illumina aspetti della società contemporanea, piena di ipocrisie e meschinità. La ricerca di un’altra V che completi la sua personalità disincantata, si infrangerà nel vuoto. Il suo sguardo sul mondo risulterà, alla fine, più lucido di quanti si credono sani.
Il giorno che io nacqui un sole improvviso meraviglioso entrò dalla finestra della sala parto e illuminò la scena, mia madre lanciò un trillo melodiosissimo da soprano e senza sofferenza alcuna mi sparò nell’aria come una palletta di cannone, io feci una doppia capriola e ricaddi esattamente tra le braccia del primario, un uomo bellissimo, brizzolato, virile, non fumatore e in quell’attimo MIRACOLO! Per la gioia a tutti i presenti ricrebbero i capelli, a chi non li aveva, si indorarono a chi li aveva, e una suora Cresimina si spogliò della sua palandrana rivelando un corpo stupendo abbronzato, nato per l’amore e un infermiere rozzo peloso bitorzoluto sudato la prese lì per terra con il trasporto e la dolcezza di un quindicenne, e MIRACOLO! Tutti i malati si alzarono dai letti e invasero le corsie cantando, battendo il tempo con le stampelle e i gamboni di gesso, ognuno reggendo la sua flebo come un dono, e MIRACOLO! I collassati si riebbero, i fratturati saldarono, i nefritici filtrarono, gli anemici rinsanguarono, i diabetici si amareggiarono, e tutti fecero cerchio intorno per vedere me, la bambina più bella del mondo, io, Vu!

[Marcia trionfale.]

E ci si inoculò morfina, si bevvero sciroppi e anche i più a lungo lungodegenti si levarono dai capezzali secolari e le loro piaghe da decubito erano diventate splendidi tatuaggi di draghi e sirene e "a casa!" dissero, "andiamo a casa perché abbiamo una casa, parenti, amore che ci aspetta". E il primario dei primari vetusto barbuto occhi dardeggianti, uno Zeus [finge severità] disse: "Ci dispiace che ve ne andiate. Questo ospedale sarà vuoto senza di voi". E in quell’istante dalla sala operatoria venne un chirurgo alto, bruno, virile, non inquisito, e tra le mani sporche di sangue reggeva qualcosa di umido e rosso. E al suo fianco c’era l’operato che si teneva la pancia, così, ma era felice, non era affatto spaventato e il chirurgo alzò la cosa umida e gridò: "Guardate! Guardate cos’aveva in pancia il signore! Non era una metastasi, no… era un TRICICLO!".

[Alza al cielo un triciclo di carta.]

Un piccolo triciclo rosso. Per me! E io vi salii. Avevo solo dieci minuti di vita ma io vi salii. E partii, pedalando nel corridoio, tra le ali di degenti plaudenti e dalle camere mi lanciavano chi cioccolatini, chi biscotti vecchi, chi libri o settimanali e gridavano: "Non sappiamo più cosa farcene di queste cose, siamo guariti!". E così uscii dall’ospedale tra lo scampanio delle autoambulanze e fuori [si arresta un attimo, si rattrista] fuori c’era una nebbia pesante densa soffocante e un ingorgo di macchine che fumavano per il calore come rocce vulcaniche e una canea di clacson e volti cerei e dentro le macchine guidatori agonizzanti che morivano accelerando e uno degli ingorgati, vedendomi rosea neonata sudata col triciclo rosso che cercavo di passare davanti nella fila, mi mirò, aspettò, spalancò lo sportello dell’auto e bam… mi centrò. Poi mi prese per il collo e disse: "Credi che la vita sia tutta rose e fiori, eh, puttanella?"

[Il teatrino di carta si strappa, resta solo il ciclorama tutto intorno. Scena vuota.]

Fu allora che persi la fiducia nel mondo.


In teatro devi ascoltare tutti, dal fonico al datore di luci: ne sanno più di te.


Tamara Marcelli


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