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Squid Game: una serie TV Netflix da censurare?

Squid Game: una serie TV Netflix da censurare?

Serie TV | Netflix Di Elena Genero Santoro. Squid Game, la serie originale Netflix che fa discutere: elementi visivi K-pop per una rappresentazione espressionista della società coreana. È davvero da censurare?

Ho appena terminato la visione di Squid Game, una serie bellissima e potentissima, che ha fatto lievitare gli incassi di Netflix per più di un motivo.
E l’ho guardata con i miei figli, entrambi minori di quattordici anni, censurando le scene più cruente.
Facciamo un passo indietro.

Per settimane lo scandalo urlato ai quattro venti su Facebook è stato: «Oddio, i ragazzini guardano Squid Game! Nessuno li sorveglia!».

Non avevo intenzione di mostrarla ai miei due visti, appunto, i contenuti violenti di cui è intrisa. Ma poi ho fatto due scoperte.
La prima scoperta è che i miei figli sapevano già tutto. Non perché avessero guardato la serie, non ci pensavano neanche, uno perché Netflix lo tengo sotto chiave, due perché nelle prime settimane era disponibile solo in coreano sottotitolato in inglese. Eppure i ragazzi conoscevano a menadito lo svolgimento dei sei giochi e il filo conduttore della storia perché, in giro per il web, non c’era un solo tiktoker o un vlogger che non avesse fatto il verso a Squid Game.
La seconda scoperta l’ho fatta quando ho iniziato a guardare Squid Game io.
Anziché focalizzarsi sul gioco vero e proprio, la prima puntata introduce la vita del protagonista, Seong Gi-hun.

Siamo in Corea del Sud, in epoca contemporanea. Gi-hun è quello che si potrebbe definire uno sfigato.

Quarantasette anni, divorziato e con una figlia che vede solo saltuariamente, non ha un lavoro, vive sulle spalle della madre anziana, scommette sui cavalli ed è pieno di debiti. È di certo molto sfortunato, ma è talmente sprovveduto da apparire ridicolo. E in effetti un paio di risate le strappa. Non riesce a stare lontano dai guai. Non riesce a tenersi i soldi in tasca. Non riesce a smettere di indebitarsi, peggio di Paolino Paperino. Alcune sue azioni rasentano l’idiozia.
Imbranato, squattrinato, ingenuo. Il candidato ideale per la società segreta che organizza lo Squid Game, il torneo di sei giochi nel quale il vincitore porterà a casa l’equivalente di 33 milioni di euro.

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Lo spettatore che si approccia a Squid Game, fin da subito, intuisce che, a braccetto col dramma, c’è una venatura dissacrante. I fatti che accadono sono drammatici, ma il contorno è grottesco.

Le divise delle guardie che dirigono il gioco, rosa fucsia, sono farsesche. Il capo delle guardie, il Front Man, ha un costume che lo fa sembrare un piccolo Dart Fener. Guardie e Front Man, con quelle maschere nere, con le armi in mano, sono minacciosi, eppure hanno un che di kitsch. E anche le bare dei concorrenti morti, enormi scatole regalo nere sormontate da un fiocco rosa, fanno a botte con la serietà del contesto.
La serie è intrisa di elementi visivi K-pop, estrosi e colorati, pacchiani, diremmo noi in occidente, che sminuiscono la sacralità del gioco, l’importanza del sacrificio. Inseriscono in un contesto divertente qualcosa che di per sé non lo sarebbe affatto.
E in effetti qualcuno che si diverte c’è.

Gi-hun accetta di partecipare al gioco e si risveglia in un’enorme camerata, con una imponente struttura di letti a castello, insieme ad altri 455 concorrenti. Lui è l’ultimo.

Le regole sono poche e giochi sono semplici, da bambini, e si svolgono in ambientazioni che sembrano allegri parchi giochi. Ciò che i concorrenti non sanno è che fallire un gioco comporta l’eliminazione fisica e rimangono pertanto traumatizzati quando, durante il primo round – Uno, due, tre, stella – più della metà di loro muore sotto i colpi di un mitra attivato da un sensore.
I sopravvissuti, sotto shock, non vogliono proseguire oltre. E poiché una delle regole del gioco permette di interrompere la corsa al bottino se la maggioranza dei concorrenti vota per l’interruzione, i partecipanti procedono a una votazione. Per un unico voto vince l’interruzione e i circa duecento superstiti tornano alla miseria delle loro vite. Tuttavia le loro esistenze sono così disperate che 187 di loro decidono di tornare a giocare. Tra essi Gi-hun che, una volta a casa, ha dovuto affrontare la malattia della madre, un diabete grave per curare il quale sono necessari molti soldi.
Ciò con cui non hanno fatto i conti è che, se nel primo gioco la sopravvivenza di ognuno era indipendente da quella degli altri, nei giochi successivi vale il mors tua, vita mea. I concorrenti non devono solo dimostrare di saper fare qualcosa, ma anche sfidare i loro compagni, sopravvivere a discapito della morte di qualcun altro. Inoltre, ogni volta che uno di loro muore, qualunque sia la ragione, il montepremi aumenta. E le alleanze tra i giocatori, che si erano create nelle prime fasi, iniziano a saltare.

In Squid Game il sangue si spreca.

Accoltellamenti e sparatorie sono quotidiani, e queste scene sono state da me oggetto di censura verso i miei figli. Loro sapevano ciò che stava accadendo, ma evitavano di guardarlo, perché l’immagine (show, don’t tell) fa la differenza sulla psiche di un ragazzino.
Su tutto il resto abbiamo ragionato insieme, perché senza opportune riflessioni una mente giovane può assimilare Squid Game e l’eliminazione fisica dei concorrenti come un folle videogioco senza anima, come lo presentano gli YouTuber. Invece Squid Game l’anima ce l’ha e la distinzione tra bene e male è netta (meno netta la distinzione tra buoni e cattivi).

Squid Game è una narrazione di denuncia. È una rappresentazione espressionista della società coreana.

Ho letto che in Corea del Sud è molto facile ottenere prestiti e rimanere indebitati, in balia degli usurai. Quindi essere un Gi-hun, in Corea, non è poi così difficile. E laddove c’è una massa di poveri disperati, si trovano sempre alcuni ricchi che non vedono l’ora di approfittarne.
In Squid Game sono i VIP, un gruppo di uomini ricchi, mascherati e annoiati, che si divertono ad assistere ai giochi e che scommettono sui concorrenti come se fossero cavalli. Intanto i poveri si prostituiscono, si vendono per denaro, bramando un’occasione più unica che rara.
Un po’ come avviene con il Grande Fratello, che è legale, non prevede l’uccisione di nessuno, ma che sa essere comunque immorale, quando lucra sulle vicissitudini di uno sconosciuto che svende la propria intimità nella speranza di ottenere visibilità e mettere le mani su un montepremi ricco.

Tra i concorrenti in Squid Game serpeggia un mix di disperazione e avidità. La vita fuori dal gioco è squallida, senza speranza, ma fino a che punto è lecito combattere per vincere?

I VIP dall’alto si divertono a vedere i concorrenti scannarsi. Li mettono uno contro l’altro. Fomentano la classica guerra tra poveri e distolgono l’attenzione da se stessi. Il montepremi è uno specchio per le allodole, che traveste i carnefici da salvatori. E infine il dubbio morale. Quanto una persona disperata, che lotta per la vita, nel tentativo di salvare se stesso, ha il diritto di sacrificare gli altri?

Squid Game ci mostra un ventaglio di comportamenti possibili.

C’è Jang Deok-su, criminale, che partecipa al gioco per scappare da qualche pesce più grosso di lui che vorrebbe farlo fuori. È gradasso, voltagabbana, non ha scrupoli di alcun tipo. Stringe alleanze per convenienza, ma poi non rispetta i patti.
C’è Cho Sang-woo, amico di infanzia di Gi-hun. Lui è quello intelligente, laureato, ambizioso, non si accontenta di una vita mediocre. La madre lo crede all’estero, alle prese con un lavoro importante. Invece ha truffato, è indebitato fino al collo, non riesce ad affrontare le proprie responsabilità per sfuggire alle quali si fa coinvolgere nello Squid Game. È un debole, che col procedere del gioco si macchierà di azioni abbiette. Sempre in bilico tra il bene e il male, alternerà atti di gentilezza e gratitudine ad altri di pura crudeltà. Non è privo di coscienza, ma, fissato sul suo obiettivo, preferirà metterla da parte.

La rivelazione sarà Gi-hun. Nonostante la situazione rimarrà sempre umano, empatico nei confronti dei concorrenti più deboli. È questo ciò che lo rende davvero l’eroe positivo della serie, non le prove che supera.

È questo che volevo che i miei figli capissero. Se ti diverti a guardare degli esseri umani vendersi e ammazzarsi per trenta denari, come se fossero pupazzi in un videogioco, sei uno psicopatico tale e quale ai VIP.
Se invece cogli che la grandezza del protagonista risiede nella sua umanità, allora hai capito il senso del racconto.



Elena Genero Santoro


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