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Speciale The Week: il Sudest asiatico

Speciale The Week: il Sudest asiatico

The week Di Argyros Singh. Uno speciale sugli eventi che hanno segnato la geopolitica e l'attualità del Sudest asiatico nell'ultimo anno, con particolare riferimento alle tensioni tra Usa e Cina.

La presidenza di Barack Obama ha dato avvio al pivot to Asia, la svolta verso Oriente, teatro di una generale crescita economica, demografica e militare. All’epoca il riequilibrio non poté realizzarsi a pieno a causa del prolungamento dei conflitti in Medio Oriente, ma Hillary Clinton diede comunque un segnale, visitando le dieci nazioni dell’Asean (Association of South-East Asian Nations), associazione per cui venne nominato un ambasciatore speciale. Era la prima volta che un segretario di Stato statunitense mostrava tale premura. Obama si impegnò poi a migliorare i rapporti diplomatici con Vietnam, Singapore, Filippine e Birmania.
Il suo successore, Donald Trump, ha rallentato il processo di riequilibrio, nel nome di un neo-protezionismo statunitense. La guerra dei dazi e delle sanzioni e controsanzioni ha però costituito un elemento di continuità, poi ripreso dallo stesso Joe Biden. Con la presidenza di quest’ultimo, le tensioni tra Usa e Cina hanno conosciuto un picco mai raggiunto, segno che i nodi tra le due potenze stanno per venire al pettine.
Questo speciale di The Week si concentrerà sull’importanza del Sudest asiatico in questa contesa, ma verranno citate situazioni importanti nella più vasta area dell’Indo-pacifico, utili a evidenziare alcuni punti chiave. Le fonti specifiche sono citate alla fine di ogni capitolo, ma per l’impostazione generale mi sono affidato al saggio di Sebastian Strangio, All’ombra del dragone. Il Sudest asiatico nel secolo cinese, Add, Torino, 2022.

  1. Il punto di vista statunitense
  2. Il punto di vista cinese


Il punto di vista statunitense

Nel maggio 2022, l’amministrazione Biden ha introdotto l’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity, tentativo di rilanciare la presenza statunitense in un’area trascurata da Trump, ma centrale per l’economia globale. Il progetto mira a delineare delle linee guida per i partner: la lotta al cambiamento climatico; lo sviluppo economico; l’aderenza ai valori democratici liberali e alle regole dell’ordine internazionale, promulgate da enti come l’Onu.
Il riposizionamento americano ha portato gli Stati più piccoli a doversi districare tra le due superpotenze, denunciando spesso come gli interessi strategici di Cina e Usa mettano in secondo piano i loro particolari interessi. Chiare in tal senso le parole del premier delle Figi, Frank Bainimarama, che nel 2022, alla vigilia della visita del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, dichiarò che il posizionamento geopolitico significava meno di niente per quelle comunità che stavano scivolando sotto il livello del mare.

L’ambasciatore australiano negli Usa, Kevin Rudd, ha inoltre evidenziato come alla dichiarazione dei princìpi statunitensi non corrisponda un investimento economico abbastanza rilevante da poter competere con i progetti cinesi.

Come ricordato da Rudd, gli Usa sembrano più attenti a gestire una cooperazione militare e sulla sicurezza, mentre gli strumenti economici si limitano a incidere sul tema delle tariffe (per un approfondimento, cfr. Kevin Rudd, Usa – Cina. Una guerra che dobbiamo evitare, Rizzoli, Milano, 2023).
Per poter competere con la Cina, ci sarebbe bisogno di un maggiore accesso al mercato da parte degli Stati asiatici e del Pacifico, di un piano di investimenti mirati e di una riduzione delle barriere commerciali.

Già il presidente Theodore Roosevelt, un secolo fa, aveva affermato che il futuro americano sarebbe stato «più determinato dalla nostra posizione sul Pacifico di fronte alla Cina, che dalla nostra posizione sull’Atlantico di fronte all’Europa».

Dopo la limitata esperienza imperialista in Indonesia, gli Usa adottarono un approccio diverso dal classico colonialismo di stampo europeo. D’altra parte, gli Stati Uniti nascevano proprio dall’atto di ribellione di un gruppo di colonie e, durante la guerra fredda, sostennero l’indipendenza di Paesi come l’India e, appunto, l’Indonesia. Non mancò tuttavia il sostegno ai britannici in Malesia e ai francesi in Indocina, con il pesante strascico che condusse alla guerra del Vietnam. L’attenzione statunitense in Asia rientrava nella logica del contenimento globale del comunismo e da questo dipese, per esempio, l’intervento in Corea. Già allora, dunque, il principale interesse nella regione era di ordine militare, pur non mancando una componente economica di rilievo.
Gli Usa hanno permesso lo sviluppo dei Paesi asiatici e del Pacifico nel complesso delle regole del Gatt e dell’Omc e hanno finanziato organizzazioni come l’Asian Development Bank (assistenza nella formazione del capitale) e l’Usaid (assistenza umanitaria). L’idea alla base di questo progetto geostrategico era che il libero mercato potesse portare allo sviluppo economico e alla nascita di società democratiche liberali.

L’amministrazione Obama tentò di rilanciare il progetto con il Partenariato transpacifico (Tpp), a cui aderirono dodici Paesi, Cina esclusa.

Sotto la presidenza Trump, tuttavia, gli Usa si defilarono dall’accordo, che venne poi ridiscusso dai membri restanti e ribattezzato Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp). Il gruppo di Stati raccoglieva così il 13,4% del Pil globale.
L’amministrazione Biden ha cercato di recuperare il tempo perduto, partendo a ottobre 2021 con l’Indo-Pacific Economic Framework (Ipef). A differenza degli analoghi accordi che questi Paesi hanno stipulato con la Cina, gli Usa hanno cercato di mantenere un equilibrio tra sviluppo economico e rispetto dei diritti. Così l’Ipef si doveva occupare di alti standard lavorativi e ambientali, in un flusso di dati digitali aperti all’interno del libero mercato. Nello specifico, però, il progetto non includeva impegni di accesso al mercato e questo lo ha reso debole alla nascita.

In modo analogo, la Blue Pacific Initiative doveva implementare gli investimenti nelle infrastrutture, nella salute e nel contrasto agli effetti del cambiamento climatico, ma i fondi stanziati sono stati molto inferiori alle aspettative.

Mentre gli Usa mostrano incertezza, la Cina è entrata nella Regional Comprehensive Economic Partnership, un patto commerciale che pone le basi per il dominio cinese nella regione e che include il 30% della popolazione mondiale. Per cambiare questa tendenza, gli Usa dovrebbero ripartire dall’adesione al Cptpp, che porterebbe anche un vantaggio diretto a imprese e lavoratori americani, ora esclusi da quei mercati. Nel maggio 2022, invece, Biden ha lanciato l’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity, con il risultato che, al momento, molti alleati si sono ritrovati in una posizione scomoda, in bilico tra Cina e Usa.

Il punto di vista cinese

Nel 2013 la Repubblica popolare cinese ha dato vita alla Nuova Via della Seta (Bri, Belt and Road Initiative), un massiccio piano di investimenti in Paesi esteri in settori come le infrastrutture (stradali, ferroviarie, portuali), l’energia (gasdotti, oleodotti) e la comunicazione (impianti di fibra ottica). L’area da coprire, da Vladivostok all’Atlantico, mira a uniformare la regione eurasiatica con la Cina al centro di un neo-nato impero.
Nel corso degli anni, la Bri è andata definendosi nel dettaglio e ha previsto nuove diramazioni e percorsi alternativi. In Occidente questa avanzata può essere letta come una minaccia all’ordine globale istituito dagli Usa, ma è da ricordare che è grazie a tale ordine che la Cina ha potuto trarre benefici per sé. Per questo non ha interesse a distruggere il sistema di regole costituito e che le ha garantito un’imponente crescita economica: intende semmai riformare le istituzioni internazionali, in modo tale che rispecchino la sua potenza.

Viviamo in un’epoca in cui molte nazioni stanno riscoprendo la loro storia nel tentativo di legittimare la propria sfera d’influenza.

La riscoperta di un’immaginaria identità cinese, russa o turca è un espediente utile a rinsaldare storiche amicizie o a fare pressione su un determinato territorio.
In epoca Ming (1368 – 1644), la Cina era in effetti al centro del mondo orientale e i territori circostanti, a partire dal Sudest asiatico, non potevano che ruotare intorno a quel perno.
Oggi però le cose sono cambiate. Da un lato, secoli di imperialismo occidentale hanno spezzato il dominio plurisecolare cinese; dall’altro, si è sviluppata un’identità nazionale. Nata come reazione al colonialismo, la sovranità di questi Paesi viene difesa anche dall’ingerenza cinese, benché con mezzi e intensità differenti.
Inoltre, nell’epoca imperiale cinese non c’erano vere alternative all’Impero: oggi, invece, esso si scontra con una moltitudine di concorrenti. Giappone, India, Australia, Ue e Usa sono solo i principali attori economici che, insieme, bilanciano il potere cinese. Il Giappone è la terza economia mondiale dopo Cina e Usa, la quarta per esportazioni. Gli investimenti giapponesi nel Sudest asiatico, negli scorsi decenni, hanno costituito un volano per l’economia della regione e ancora oggi il Paese del Sol Levante resta il primo investitore dell’Asean (102,3 miliardi di dollari nel periodo 2013-18, quasi il doppio degli investimenti cinesi).

Quando nacque la Repubblica Popolare Cinese (Rpc), molti Paesi confinanti percepirono una doppia minaccia: quella comunista e quella di un impero in ricostituzione.

L’Asean nacque proprio per il timore dell’avanzata comunista. Tra i cinque Stati fondatori c’erano anche Indonesia e Singapore, che si rifiutarono di riconoscere la Rpc fino all’ultima fase della guerra fredda. E persino la relazione con il Vietnam, che grazie al sostegno cinese aveva affermato la rivoluzione comunista, si trasformò in un conflitto tra nazionalismi.
Un primo cambio di rotta avvenne nel 1991, quando la Cina divenne ospite consultivo dell’Asean e avviò un meccanismo di diplomazia pacifica con i vicini. Nel 2003, venne firmato l’Accordo di libero scambio (Acfta) tra l’associazione e la Cina, entrato in vigore nel 2010. Un punto di forza di Pechino consiste nel trattare con qualsiasi tipologia di governo, anche autoritario, in nome della sovranità statale assoluta. Questo rende più difficile per gli occidentali fare affari in quelle aree asiatiche non democratiche, poiché la questione dei princìpi e dei valori non viene percepita come prioritaria da diversi attori della regione.

Con il ritorno della Cina come protagonista nel Sudest asiatico, è riemerso anche un vecchio pomo della discordia.

Nei dieci Paesi che oggi costituiscono l’Asean, vivono oltre trentadue milioni di abitanti di etnia cinese. Ancora nel 1909, la dinastia Qing rivendicava la propria giurisdizione sui gruppi di etnia cinese all’estero, una posizione ereditata dalla Repubblica di Cina dopo il 1912.
Nel 1980, Pechino varò una legge che aboliva la doppia nazionalità, distinguendo per la prima volta tra huaqiao (cinesi residenti all’estero) e huaren (stranieri di origine cinese). La decisione rientrava in una politica di “buon vicinato”, che permise alla Cina di accedere a nuove risorse finanziarie. Era l’epoca delle riforme economiche di Deng Xiaoping, che aprì agli investimenti in Cina da parte degli imprenditori di origine cinese in Thailandia, Indonesia e Malesia.

Con Xi Jinping, però, il tema della popolazione di etnia cinese all’estero è tornato alla ribalta.

Nel marzo 2018, il Dipartimento per gli affari dei cinesi all’estero è passato sotto il controllo del Dipartimento del lavoro del fronte unico, estensione del Pcc che si occupa anche di stringere alleanze con i gruppi della diaspora. Ciò ha allarmato i vicini, in concomitanza con la presenza sempre più massiccia di lavoratori e di manager cinesi in ruoli chiave dell’economia dei Paesi del Sudest asiatico. Per non parlare del turismo di massa, che se da un lato porta notevoli introiti, dall’altro ha introdotto elementi di attrito tra turisti e popolazione locale.
Vi è poi una distinzione tra i migranti di vecchia generazione e quelli dell’ultima: a differenza dei predecessori, i nuovi migranti (xinyimin) provengono da tutta la Cina, non più solo dal meridione, e sono spinti dalla crescita economica e non più dalla povertà. Essi non si considerano semplici cinesi etnici o per cultura (huaren), ma cittadini di una nazione unita e potente (zhongguo ren). I migranti del passato parlavano diversi dialetti della Cina meridionale, tra cui il cantonese e l’hokkien, mentre i nuovi coloni parlano il putonghua, il cinese mandarino promosso dal governo.

Pechino sta attuando un’espansione verso i Tropici, con la provincia dello Yunnan come avamposto.

La città-capoluogo Kunming conta 6,6 milioni di abitanti ed è stata completamente modernizzata, con una rete infrastrutturale che raggiunge il Golfo del Siam e il Mare delle Andamane.
Sugli altopiani della Birmania e del Laos si trovano numerose comunità cinesi, che adottano una segnaletica in mandarino semplificato e appaiono come un prolungamento urbanistico e culturale della Cina. In Laos, esiste persino una Golden Triangle Special Economic Zone (Gtsez), un’enclave cinese del gioco d’azzardo, gestita dal gruppo Kings Romans, che attira ogni mese migliaia di visitatori dalla Cina continentale, dove il gioco d’azzardo è vietato (con l’eccezione di Macao). I turisti sfruttano in gran parte la nuova rete autostradale che arriva dallo Yunnan, o atterrano in Thailandia, per poi risalire il fiume Mekong sui motoscafi del casinò.
La Gtsez rappresenta un caso emblematico, perché lo Stato laotiano sembra non averne il controllo e detiene solo il 20% della quota dell’azienda. La zona è inoltre controllata da proprie forze dell’ordine e da un magnate, Zhao Wei, soprannominato l’“imperatore locale” (tu huangdi).

L’influenza politica cinese scende lungo il Mekong e assume spesso la forma di un ricatto.

Nel 2016, i Paesi del basso Mekong affrontarono una delle peggiori siccità della storia. In Thailandia, il governo prelevò dal fiume quarantanove milioni di metri cubi d’acqua per le coltivazioni; in Cambogia, il ritardo delle piogge monsoniche distrusse i raccolti di riso e manioca; in Vietnam, i livelli del delta del Mekong toccarono il punto minimo dal 1926.
Che cosa era successo, oltre agli effetti del cambiamento climatico? Anno dopo anno, Pechino aveva modificato il corso del fiume, allargando alcuni tratti con la dinamite, e costruendo dighe a Nord (finora se ne contano undici). Nel primo caso, si doveva favorire il transito di mercantili; nel secondo, fornire energia idroelettrica al processo di industrializzazione. In definitiva, la Cina sta sfruttando “a monte” il Mekong, lasciando che i Paesi a valle ne paghino le conseguenze ambientali.

Pechino mira però a un controllo più diretto.

Nel 2014, ha promosso la Lancang-Mekong Cooperation (Lmc), un meccanismo per promuovere la cooperazione nel basso Mekong e la diffusione di istituzioni cinesi nell’area. La Lmc è in concorrenza con istituzioni parallele come la Mekong River Commission (Mrc), fondata nel 1995, e la Lower Mekong Initiative (Lmi), creata nel 2009. Già nel 1954 si era formato un Comitato per il Mekong, uno strumento di matrice statunitense di contrasto al comunismo: la Cina era rimasta esclusa, mentre aveva scelto di non partecipare alla Mrc per non dover sottoporre a controllo le proprie dighe. Creando un suo meccanismo, la Cina ha voluto così imporre le proprie regole alla regione.
Al Mekong si interessa anche il Giappone, che nel 2007 ha fondato il Japan-Mekong Regional Partnership Program. Sotto l’allora governo di Shinzō Abe, sono stati costruiti ponti, autostrade e infrastrutture. Lo slogan era “Alleanza per infrastrutture di qualità”: un messaggio non troppo velato indirizzato alla Cina.

Sulla situazione generale – thediplomat.com, wsj.com, japantimes.co.uk, bernama.com, khmertimeskh.com, japantimes.co.jp e formiche.net

Reportage: Il Sudest asiatico

Nelle prossime puntate del reportage:
  1. Vietnam e Cambogia
  2. Laos, Thailandia e Birmania
  3. Singapore e Malesia
  4. Indonesia e Filippine



Argyros Singh


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