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4 weeks, settembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, settembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks Di Argyros Singh. Cosa è successo nel mondo a settembre? Il terremoto in Marocco e l’alluvione in Libia, la “questione migranti”, la situazione nel Nagorno Karabakh, il G20 in India e l’Assemblea generale dell'ONU.

The Week diventa 4 Weeks, notizie dal mondo: ogni mese, il focus sui principali eventi accaduti durante le quattro settimane precedenti.
Nel 4 Weeks di settembre affronto le due grandi tragedie del Nordafrica: il terremoto in Marocco e l’alluvione in Libia. Tratto poi degli ultimi sviluppi della “questione migranti” nel Mediterraneo e la situazione nel Nagorno Karabakh, per concludere con il G20 in India e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.



Il terremoto in Marocco

L’8 settembre, nella regione di Marrakech-Safi, c’è stato un terremoto di magnitudo 6,8 MW. L’epicentro è stato un punto a una cinquantina di chilometri dalla stazione sciistica di Oukaimeden, sulla catena montuosa dell’Alto Atlante.
Nelle prime ore successive alle scosse, la stima dei morti era compresa tra le mille e le duemila persone, ma in pochi giorni si è attestato a quasi tremila morti e a oltre cinquemilacinquecento feriti.
Alcuni villaggi sono stati rasi al suolo o danneggiati gravemente, ma anche aree più urbanizzate sono state colpite, da Marrakech alle province di Ouarzazate, Azilal, Chichaoua e Taroudant.

L’evento ha coinvolto circa trecentomila persone.

È stato il più forte evento sismico registrato del Marocco, più mortale del terremoto di Agadir del 1960. Secondo lo United States Geological Survey (USGS), le perdite economiche potrebbero raggiungere il 9% del Pil.
Sono state danneggiate quasi seicento scuole; sono crollate parti della medina di Marrakech, che è patrimonio mondiale dell’Unesco e risale al XII secolo. Nei primi giorni, le attività commerciali sono state chiuse, perché la popolazione preferiva restare all’aperto nel timore di nuove scosse.
Nelle zone rurali, però, è stato complicato far arrivare gli aiuti, perché le strade erano bloccate dai veicoli o ostruite dai massi. Per questo, i marocchini hanno dovuto trovare soluzioni alternative. I cittadini comuni sono stati parte attiva nel portare un primo soccorso a chi era rimasto incastrato sotto le macerie. Sulle montagne dell’Atlante, lungo le strade, sono poi nate postazioni improvvisate della Mezzaluna Rossa per il primo soccorso.

Diversi Stati hanno offerto assistenza al Marocco.

In particolare, l’Olanda ha stanziato cinque milioni di euro di aiuti, la Croce Rossa cinese ha donato duecentomila dollari per l’assistenza umanitaria e la Commissione Europea ha stanziato un milione di euro per le operazioni di soccorso. Sul territorio, però, sono stati accettati solo soccorsi provenienti da Regno Unito, Spagna, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.
Su questo punto sono nate delle polemiche, affiancate dalle critiche per l’assenza di soccorsi nelle aree più impervie e per il discorso del re Mohammed VI, giunto solo a diciotto ore dal terremoto. I funzionari hanno risposto che il mancato coordinamento delle squadre di soccorso internazionali avrebbe potuto creare confusione.
Significativo è stato però il rifiuto dell’aiuto proposto dalla Francia, a causa dei rapporti diplomatici complicati tra i due Paesi. D’altra parte, l’Algeria ha aperto il suo spazio aereo al Marocco per la prima volta dalle tensioni del 2021, facilitando l’arrivo degli aiuti umanitari. Le tensioni tra Rabat e Algeri si erano accentuate con il riconoscimento da parte di Israele della sovranità marocchina sul Sahara occidentale, a luglio 2023, come conseguenza della normalizzazione dei rapporti tra Marocco e Israele, promossa dagli Usa alla fine del 2020.

Nei prossimi mesi, il Marocco dovrà cercare di limitare i danni economici a medio termine del sisma.

Il Paese viveva già situazioni complicate legate all’aumento dell’inflazione, al costoso approvvigionamento di petrolio, alle ripetute fasi di siccità.
Negli ultimi anni, il governo ha introdotto delle misure soprattutto per cercare una soluzione alla crisi idrica. Inoltre, il settore turistico era in decisa ripresa, con entrate aumentate oltre il 170% nel 2022 rispetto all’anno precedente, con livelli superiori anche alla fase pre-pandemica. Importante anche il dato delle rimesse dei marocchini all’estero, aumentate del 16% nell’ultimo anno. Ora, questi dati incoraggianti sono stati stravolti dal sisma.
Il Paese potrà contare su diversi alleati, tra cui la Spagna, che nel 2007 ha rinunciato alla sua equidistanza sulla questione del Sahara occidentale, accogliendo con favore il piano di autonomia per la regione presentato dal Marocco. Sul piano diplomatico, la candidatura congiunta di Marocco, Spagna e Portogallo per ospitare i mondiali di calcio del 2030 è un altro segnale dei buoni rapporti con gli iberici.

Discorso diverso per la Francia, accusata dal Marocco di essere troppo equidistante tra Rabat e Algeri sulla questione del Sahara occidentale.

Il posto dell’ambasciatore francese in Marocco è vacante dal mese di gennaio e non sembrano esserci schiarite all’orizzonte. Sul piano dell’Ue, l’istituzione rappresenta il primo partner marocchino per interscambio commerciale ed è stato lanciato un “partenariato verde”, a ottobre 2022. Sul fronte africano, Rabat cerca di mantenere una prudenza diplomatica in merito alle trasformazioni politiche. Il timore di ripercussioni sulla questione del Sahara occidentale ha probabilmente spinto il Marocco a non esprimersi sugli sviluppi politici degli ultimi anni in Mali, Guinea Conakry, Burkina Faso e, soprattutto, in Niger, con il recente colpo di stato. Inoltre, è dal 2017 che il Marocco ha presentato domanda di adesione alla Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale). Ciò che è certo è che il sisma ha scatenato nuove turbolenze diplomatiche.

L’alluvione in Libia

La tempesta Daniel è stata il ciclone tropicale mediterraneo più mortale mai registrato e il peggiore evento meteorologico del 2023. Formatasi il 4 settembre, ha colpito Grecia, Bulgaria e Turchia, per poi spostarsi sulla Libia, dove ha provocato inondazioni e il cedimento di due dighe vicino alla città di Derna.
Ci sono stati oltre tremila morti, con un calcolo dei dispersi tra le diecimila e le centomila persone, a seconda della fonte. Il numero delle vittime potrebbe però aumentare di molto nelle prossime settimane. La stima delle Nazioni Unite, al 17 settembre, era di oltre quattromila morti. Il disastro in Libia è stato provocato non soltanto dall’intensità delle piogge, ma dalla guerra civile, che ha portato a trascurare la manutenzione delle infrastrutture critiche, tra cui le dighe che hanno ceduto, risalenti agli anni Settanta.

Osama Hamada, primo ministro del governo di stabilità nazionale, che controlla la Libia orientale, ha dichiarato lo stato di emergenza il 9 settembre.

Sono state sospese le lezioni; ai cittadini era stato imposto un coprifuoco che gli impediva di muoversi; la National Oil Corporation ha chiuso per tre giorni quattro porti petroliferi.
Secondo il ministro dell’aviazione, Hisham Chkiouat, il 25% di Derna è scomparsa e il resto della città è stata come trascinata nel Mediterraneo. Gli ospedali e gli obitori si sono riempiti a tal punto che i corpi sono stati distesi per le strade e nella principale piazza della città. In seguito, si è optato per la sepoltura in fosse comuni. Squadre navali hanno poi recuperato altri corpi trascinati in mare.

Oltre a Derna, l’alluvione ha colpito anche Tobruk, Tacnis, Al-Bayada, Battah, Mechili e altre città.

Sono stati colpiti anche i siti archeologici nei pressi di Cirene. L’International Crisis Group ha parlato di un rischio di collasso per gli scavi, per l’erosione delle pareti e dei canali di drenaggio. Altri danni sono stati segnalati ai siti archeologici di Apollonia e di Athrun. Al netto di questi danni e delle vittime, una cosa è certa: i contrasti politici tra Stati risultano controproducenti nel momento in cui gli eventi climatici estremi – sempre più frequenti – si abbattono su un territorio come la Libia. Non a caso, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha dichiarato che le vittime dell’inondazione avrebbero potuto essere evitate se in Libia fosse stato operativo un servizio meteorologico funzionante. Ha inoltre aggiunto che i suoi tentativi di aiutare le autorità libiche sono stati infruttuosi, per le stringenti misure di sicurezza adottate.

Secondo l’Autorità libica per le strade e i ponti, il 70% delle infrastrutture civili è andato distrutto; l’80% del sistema idrico è fuori servizio; il 50% delle strade è impraticabile.

Il Governo di unità nazionale (GNU), riconosciuto a livello internazionale con sede a Tripoli, ha indetto il lutto nazionale. Il primo ministro Abdulhamid al-Dbeibah ha promesso un’indagine per vagliare le responsabilità e ha stanziato 2,5 miliardi di dinari libici (circa 500 milioni di dollari) per favorire la ricostruzione.
Nel frattempo, il sindaco di Derna è stato sospeso dall’incarico; il consiglio comunale è stato sciolto e sottoposto a indagini, su ordine del premier Hamada.

L’Agenzia libica per il controllo delle malattie ha posto l’attenzione sulla diffusione della diarrea a Derna, a causa delle acque contaminate.

Le autorità hanno così diviso la città in quattro distinte aree sanitarie, per circoscrivere eventuali epidemie. In parallelo, il Ministero della Salute ha annunciato l’inizio di una campagna di vaccinazione in città.
Il 18 settembre, i residenti di Derna hanno iniziato a protestare davanti alla moschea Al Sahaba, denunciando il governo di Hamada. I manifestanti hanno chiesto la caduta del governo, l’istituzione di un ufficio delle Nazioni Unite e un’indagine sui bilanci comunali degli scorsi anni. In risposta, l’Esercito nazionale libico, guidato da Khalifa Haftar, vero leader dell’Est del Paese, ha impedito ai giornalisti di entrare a Derna; l’accesso a internet è stato interrotto per trentasei ore.
Squadre dell’Onu operano in città, ma gli spostamenti sono complicati dalle tensioni politiche. Solidarietà è giunta da diversi Paesi arabi e dell’Unione Europea. In particolare, l’Italia ha potuto inviare nel Paese una squadra di soccorso e attrezzature sanitarie e tecniche, mostrandosi come potenziale ponte tra i due governi libici.

La “questione migranti” nel Mediterraneo

Il governo italiano, guidato dalla premier Giorgia Meloni, ha disposto una serie di misure sull’immigrazione, tra cui la possibilità di trattenere i migranti arrivati illegalmente fino a diciotto mesi (finora erano tre) e la costruzione di nuovi centri per ospitarli, distribuiti su tutta la Penisola. Inoltre, sono state aggiunte nuove possibilità per l’espulsione, come per chi mente sulla minore età e per chi compie reati.
Il decreto-legge è nato a seguito dell’incremento repentino del numero di sbarchi, con più di diecimila persone giunte a Lampedusa nell’ultimo mese. I colpi di stato nel Sahel, i disastri naturali e la guerra del grano hanno aumentato la pressione su una Tunisia in crisi economica. In parallelo, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, visitando Lampedusa, ha annunciato un nuovo piano in dieci punti, che includerebbe una missione navale europea per sorvegliare il Mediterraneo e per bloccare le partenze.
Per rendere il piano efficace, però, ci vorrebbe perlomeno la collaborazione della Tunisia, con cui l’Ue ha siglato un accordo a luglio, che deve ancora entrare in vigore.

Scettica l’opposizione italiana, con la segretaria del PD Elly Schlein che ha definito odiosa la scelta di creare campi di detenzione e che la misura, in passato, non aveva portato a un aumento dei rimpatri.

Per la Coalizione Italiana per i Diritti e le Libertà Civili (CILD), i centri di detenzione sarebbero luoghi in cui avvengono gravi violazioni dei diritti fondamentali, oltre a essere costosi e inefficienti.
Secondo il think tank OpenPolis, tra il 2014 e il 2020, solo il 20% delle persone soggette a un ordine di rimpatrio hanno poi lasciato il Paese. Stando ai dati del governo, quest’anno sarebbero giunti in Italia circa 130mila migranti, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo del 2022. I migranti provengono soprattutto da Bangladesh, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Egitto, Guinea, Pakistan e Tunisia.

Ma quali sono i numeri dell’immigrazione in Italia?

L’Istat ha stimato che, nel 2021, vivessero nella Penisola circa cinque milioni di cittadini stranieri (l’8,7% della popolazione), una cifra che non include gli immigrati clandestini, stimati in almeno 670mila persone.
Le provenienze dei cittadini stranieri, sempre al 2021, sono così distribuite: Europa (47,6%), Africa (22,25%), Asia (22,64%), Americhe (7,49%) e Oceania (0,04%). La distribuzione sul territorio è disomogenea: nel 2020, il 61,2% degli stranieri viveva nel Nord Italia, soprattutto a Nordovest.
Mentre la premier Meloni ha portato la questione migranti anche all’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite, la principale difficoltà è quella di riuscire a stabilire un modello aggiornato sull’argomento, che spinga per esempio Francia e Austria a non “chiudere” i confini e i Paesi dell’Europa orientale (Ungheria e Polonia su tutti) a mostrarsi più aperti in tema di redistribuzione.

Sviluppi in Nagorno Karabakh

Tra il 19 e il 20 settembre, l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva contro l’autoproclamato stato separatista dell’Artsakh. La regione interessata, il Nagorno-Karabakh, è riconosciuta a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian, pur abitandovi gli armeni.
Il conflitto nell’area era esploso nel 1988: gli armeni del Karabakh avevano chiesto il passaggio della regione all’Armenia; negli anni erano intervenute le truppe russe per congelare la situazione, ma, alla fine del 2020, si era scatenata la seconda guerra su larga scala, che aveva portato a una vittoria dell’Azerbaigian con conseguente armistizio.
In quel conflitto, l’Azerbaigian aveva revocato l’offerta di status speciale ai residenti armeni, insistendo per una completa integrazione. Nel dicembre 2022, l’Azerbaigian aveva bloccato l’accesso alla Repubblica dell’Artsakh, adducendo una violazione dell’accordo sul cessate il fuoco. Aveva poi sabotato le infrastrutture civili critiche come gas, elettricità e rete Internet.
Il blocco ha portato a una crisi umanitaria che ha coinvolto 120mila residenti. Le truppe russe, definite peacekeepers, non sono intervenute per riportare l’ordine e l’inazione può essere letta come una violazione dell’accordo tripartito del cessate il fuoco.

Il governo azero del presidente Ilham Aliyev ha affermato di aver allestito corridoio umanitari e punti di accoglienza sulla strada per Lachin e altrove, per garantire l’evacuazione della popolazione armena.

La leadership del Nagorno-Karabakh ha chiesto di aprire un negoziato e gli azeri si sono detti pronti per un confronto nella città di Yevlakh. Hanno però aggiunto che l’offensiva sarebbe durata fino allo scioglimento degli organi governativi e delle forze armate separatiste.
Il 20 settembre, le forze russe hanno stabilito un cessate il fuoco; il governo armeno ha lamentato il fatto di non essere stato coinvolto. Dopo questo accordo, ci sono stati nuovi momenti di tensione, tra cui il bombardamento di Stepanakert. Il Ministero della Difesa russo ha dichiarato che sono stati uccisi diversi militari russi vicino al villaggio di Chankatagh. Con la cooperazione azera, le truppe russe hanno arrestato i sospetti e un comandante azero è stato sospeso.
In un discorso serale alla televisione, il presidente Aliyev ha ribadito l’appartenenza del Karabakh all’Azerbaigian, rivendicando il pugno di ferro.

Terminati i combattimenti, l’Azerbaigian ha riaperto il territorio dopo mesi di blocco, lasciando fuggire gli armeni dal corridoio di Lachin.

A Yevlakh si sono tenuti dei negoziati tra le parti, con il coinvolgimento delle forze russe e del capo dell’Osservatorio congiunto russo-turco, Oleg Semyonov. I colloqui non hanno portato a un accordo congiunto, ma il governo azero si è detto soddisfatto e ha affermato che si terranno ulteriori negoziati.
Nella riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’Armenia ha proposto una missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, chiedendo l’istituzione di un meccanismo internazionale per il dialogo tra Azerbaigian e rappresentanti armeni della regione. Al medesimo incontro, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato: «Come tutti ormai riconoscono, il Karabakh è territorio dell’Azerbaigian. L’imposizione di un altro status non sarà mai accettata». Aggiungendo che la Turchia «sostiene i passi compiuti dall’Azerbaigian, con cui agiamo in collaborazione, all’insegna del principio di “una nazione, due Stati”, per difendere la propria integrità territoriale». L’Azerbaigian è infatti uno Stato la cui storia è legata al mondo turco, a partire dalla lingua azera, appartenente alla famiglia delle lingue turche; è inoltre uno Stato laico, ma con una maggioranza religiosa islamica, della corrente sciita.

Il 23 settembre è stato avvistato un primo convoglio di aiuti della Croce Rossa; il giorno seguente è iniziata l’evacuazione di massa di civili di etnia armena.

Secondo il governo armeno, oltre 78mila persone sono fuggite dal Nagorno-Karabakh, circa il 65% della popolazione residente, ma i numeri potrebbero crescere nelle prossime settimane.
L’Ue ha ospitato a Bruxelles un incontro tra Armen Grigoryan, capo del Consiglio di sicurezza dell’Armenia, e Hikmat Hajiyev, consigliere per la politica estera del presidente azero, per trattare dell’accesso nell’area alle organizzazioni umanitarie e per i diritti umani.
Il 27 settembre, Matthew Miller, portavoce del Dipartimento di Stato degli Usa, ha annunciato che il governo azero accoglierà con favore una missione di monitoraggio internazionale. Sembra che, al momento, la situazione sia tornata nelle mani della diplomazia.

Il G20 in India

Tra il 9 e il 10 settembre, si è tenuto il primo summit del G20 in India, a New Delhi.
È stato un incontro difficile sotto il profilo diplomatico: la guerra in Ucraina e le tensioni tra Cina e Stati Uniti stanno alimentando una spaccatura sempre più profonda sullo scenario globale. L’India, però, sotto la guida di Narendra Modi, è riuscita a costruire un delicato equilibrio.
Quell’aggettivo, “delicato”, è la chiave di lettura della dichiarazione finale firmata dai vari leader. Perché su temi come la guerra in Ucraina, il documento conclusivo è rimasto vago, non citando il nome dell’aggressore – la Federazione russa – al punto che il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha potuto definire l’incontro un successo.

Al vertice non hanno preso parte i presidenti russo e cinese, che continuano a portare avanti la loro idea di una crisi delle organizzazioni internazionali e della necessità di fondare un nuovo ordine globale “multipolare”, un modo per rendersi attrattivi verso i Paesi del Sud del mondo, spesso esclusi dalle decisioni del G20.

In tal senso, è stata positiva la decisione – su proposta di Modi – di far ammettere l’Unione Africana al format. A ciò si aggiungono accordi sulla ristrutturazione del debito dei Paesi poveri e sulla riforma delle banche multilaterali. L’India ha voluto porsi così come mediatore tra Oriente e Occidente e tra Nord e Sud del mondo.
In risposta alla Belt and Road Initiative (BRI) cinese, un piano infrastrutturale che si estende dall’Asia all’Africa, fino all’America Latina, gli Usa hanno avanzato la proposta della Partnership for Global Infrastructure Investment (PGII), un progetto – ribattezzato “Via del cotone” – che vorrebbe collegare India, Penisola arabica, Israele e Unione Europea. Al summit è stato raggiunto un memorandum d’intesa; ora si dovranno valutare i finanziamenti. La PGII è inoltre in linea con la Global Gateway, un progetto infrastrutturale del 2021 della Commissione europea, rivolto ai Paesi in via di sviluppo, che ha già stanziato 300 miliardi di euro.

Il prossimo summit del G20 si terrà in Brasile, a novembre 2024.

Il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha affermato che, in quell’occasione, Vladimir Putin non verrà arrestato, pur gravando su di lui un mandato di cattura internazionale. Ha poi corretto la dichiarazione, dicendo che sarà la magistratura brasiliana a valutare la questione. Per il momento, nella competizione con la Cina, l’India si è posta come leader dell’area indo-pacifica. Ha inoltre gettato ombra sull’allargamento dei Brics, che hanno deciso di aggiungere sei nuovi membri ad agosto, seguendo la strategia di Mosca e Pechino di far perdere importanza al formato del G20.
Tra i vari punti proposti dall’India e sottoscritti nella dichiarazione finale, c’è il tema della cooperazione globale in merito a problemi come il cambiamento climatico, la carenza di cibo e l’aumento dei prezzi dell’energia.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite

Il 5 settembre si è aperta la settantottesima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, mentre la fase del dibattito generale è iniziata il 19 settembre e si è conclusa il 23 dello stesso mese. Il presidente Dennis Francis ha scelto il tema del dibattito dell’anno: «Ricostruire la fiducia e riaccendere la solidarietà globale: accelerare l’azione sull’Agenda 2030 e i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile verso la pace, la prosperità, il progresso e la sostenibilità per tutti».
Nel dettaglio, tra i dossier sul tavolo: la guerra in Ucraina, i colpi di stato nel Sahel, le sfide climatiche.
Il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha chiesto ai leader «soluzioni pratiche e reali» e meno «approcci formali». Lo stesso segretario ha messo in luce l’obsolescenza di istituzioni multilaterali come il Consiglio di Sicurezza, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, chiedendo una riforma strutturale del sistema delle Nazioni Unite.

In un certo senso, l’ultimo dibattito generale è stato simile a una seduta collettiva di psicanalisi.

Come con il G20 di New Delhi, il presidente cinese Xi Jinping non ha preso parte al dibattito. Assente anche il premier indiano Narendra Modi, il presidente francese Emmanuel Macron (impegnato a Parigi con la visita del re Carlo d’Inghilterra) e il premier britannico Rishi Sunak. Dei cinque membri permanenti (Usa, Uk, Francia, Cina, Russia) del Consiglio di Sicurezza, soltanto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha partecipato all’Assemblea generale.
Ciò che si teme è che possa esserci una «Grande Frattura» (sono parole di Guterres) tra Nord e Sud del mondo e tra Oriente e Occidente, qualora le istituzioni dell’Onu non venissero riformate per tempo. Tra le principali esigenze, ci sarebbe la messa in discussione del potere di veto e l’allargamento del numero di Paesi nel Consiglio di Sicurezza, con l’inclusione di membri permanenti come l’Unione Africana, il Brasile e l’India.


Per approfondire

Sul terremoto – aljazeera.com, bbc.com e ilpost-it | Sull’alluvione – france24.com, bbc.com e aljazeera.com | Sulle migrazioni nel Mediterraneo – politico.eu, reuters.com e aljazeera.com | Sul Nagorno Karabakh – theguardian.com, cnn.com e ilfoglio.it | Sul G20 – ispionline.it, ilpost.it e washingtonpost.com | Sull’Assemblea generale – cnn.com, euronews.com e ispionline.it



Argyros Singh


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