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Speciale The Week: il conflitto israelo-palestinese

Speciale The Week: il conflitto israelo-palestinese

The week Di Argyros Singh. Il conflitto israelo-palestinese si è riacceso dopo l'attacco di Hamas del 7 ottobre. Una questione storica e geopolitica tra le più difficili da affrontare senza dare un’interpretazione tendenziosa. In questo speciale, un focus sugli ultimi eventi, ma anche un'esortazione a conoscere la storia e affinare il senso critico per restare obiettivi.

La questione israelo-palestinese, o arabo-israeliana, è una delle diatribe storiche e geopolitiche più difficili da affrontare. Anche sul piano meramente documentario, è complicato trovare saggi che non diano un’interpretazione tendenziosa, a favore di una parte o dell’altra. Cercherò di consigliare tre libri per introdursi al tema nella maniera più obiettiva possibile. Non sono gli unici, ma è un buon punto di partenza. Subito dopo, cercherò di raccontare gli eventi seguiti alle azioni compiute da Hamas in Israele il 7 ottobre 2023.

  1. Una premessa: affinare il senso critico
  2. Tre libri per cominciare
  3. Gli eventi di ottobre 2023


Una premessa: affinare il senso critico

Sto facendo fatica, in settimane come queste, a ignorare la tendenziosità di certi suggerimenti di lettura. Nei periodi in cui scoppiano conflitti, come quello in Ucraina, ci sono persone che si precipitano a condividere libri militanti a utenti che magari, in buona fede, pensano di trovare in quelle pagine qualche “verità oggettiva”.
In queste giornate, sul tema del conflitto arabo-israeliano, ho visto condividere moltissimi libri militanti, ovvero schierati con una precisa idea sulla questione. Titoli condivisi in malafede, ben sapendo che la maggior parte delle persone, ignorando i dettagli storici della regione, saranno propensi a prendere per buona la prima lettura che sembri essere convincente.

Ci sono alcuni strumenti per aiutare il proprio senso critico.

Per esempio, quando un autore o una casa editrice regalano il loro libro di storia sull’argomento, non stanno facendo beneficenza o un servizio pubblico, ma propaganda, non diversa dal volantinaggio partitico degli anni Settanta. E, giusta o sbagliata che sia quella visione, sarebbe bene prenderne le distanze, quale sintomo di disonestà intellettuale.
Un altro esempio: se state leggendo un libro che mira a individuare una “colpa” in una delle due parti coinvolte, è bene storcere il naso. Un saggio storico o antropologico non dovrebbe attribuire colpe o meriti, ma limitarsi a esporre i documenti a disposizione, cercando di organizzarli in una teoria, che non è mai verità assoluta.

Mentre è (dovrebbe essere) facile affermare che in Ucraina abbiamo assistito a un’invasione imperialista dal taglio ottocentesco, molto più complicato è mettere insieme i pezzi di quanto accade tra israeliani e palestinesi.

Gli esperti che a vario titolo se ne occupano, da decenni, non riescono a trovarvi una soluzione. È quindi opportuno che ciascuno di noi mantenga una sana prudenza al riguardo e cerchi di trattenere la facile (e comprensibile) emotività.
Un ultimo esempio. Bisogna prestare estrema attenzione a chi suggerisce di leggere l’autore X, considerato “indipendente”, perché mai questo termine è stato l’equivalente di imparziale. Anzi, in genere è proprio l’indipendente a scrivere o a dire le peggiori fesserie, perché – fuori dal confronto critico accademico – esprime sentenze che non possono essere falsificate, in quanto l’autore si rifiuta di sottoporsi a o di riconoscere una critica proveniente dall’ambiente accademico, ritenuto tout court compromesso dal potere egemonico di turno.

Se non sapete che cosa pensare sul conflitto arabo-israeliano, prima di acquistare qualcosa, approfondite la carriera degli autori, ma non solo.

Cercate di assicurarvi che la loro prospettiva non sia resa meno obiettiva dall’attivismo politico, come nel caso di un antropologo molto valido, Edward Said, che continuo a veder condiviso, ma che non è la miglior fonte per avere una visione a trecentosessanta gradi su questo tema. Uno studioso che invece è riuscito a mantenersi equilibrato, pur essendo chiara la sua sensibilità verso i palestinesi, è Alain Gresh nel suo Israele, Palestina (Einaudi, Torino, 2015).

Il conflitto israelo-palestinese è uno di quei casi in cui ci sono davvero verità e ragioni, al plurale.

Nessun riduzionismo ideologico di estrema destra e di estrema sinistra porterà a una soluzione. Non esiste un futuro di questa terra senza l’accettazione del dolore dell’Altro – come evidenzia Gresh – e senza la convivenza, in due Stati, tra questi popoli. Non esiste scenario in cui una delle due entità scomparirà. Partiamo da questo, se la pace vuol essere un valore e se il pacifismo non è solo sterile equidistanza.

Tre libri per cominciare

Giovanni Codovini, Storia del conflitto arabo israeliano palestinese. Tra dialoghi di pace e monologhi di guerra (Mondadori, Milano, 2002).

Non credo vi sia una nuova edizione di questo saggio, ma è disponibile nell’usato e, soprattutto, è a disposizione in centinaia di biblioteche di tutta la Penisola, come si può controllare nel sito del Sistema Bibliotecario Nazionale.
Il testo risale al 2002 ed è stato pubblicato nel corso della Seconda intifada (2000-2005). In meno di duecento pagine, Codovini racconta le origini della questione, le guerre arabo-israeliane, le prospettive di pace del secondo Novecento e il ripresentarsi della violenza a cavallo del millennio. Un capitolo è poi dedicato al tema del sionismo e dell’antisionismo e si fa chiarezza su termini quali ebreo, israeliano e sionista. Un ricchissimo apparato d’appendice include mappe, documenti originali, approfondimenti sui diversi punti di vista nel conflitto. Chiudono il volume una minuziosa cronologia e una corposa bibliografia. Il testo non racconta ovviamente gli ultimi vent’anni, ma è un buon punto di partenza per organizzare meglio le proprie idee.

Michael Brenner, Breve storia del sionismo (Laterza, Milano, 2003) e Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi (Carocci, Milano, 2017).

Si tratta di un doppio suggerimento di lettura, incentrato comunque sulla storia del sionismo. Dalle proposte di Theodor Herzl al rapporto ambivalente della Chiesa cattolica con gli ebrei, dal tema dell’integrazione alla persecuzione, questi saggi esplorano la storia di un movimento, o di un’ideologia che ha presentato e presenta diverse voci al suo interno.
Se dovessi fornire una sintetica e personale definizione di sionismo, esso è l’aspirazione di una larga parte degli ebrei di fondare uno Stato in cui veder riconosciuti i propri diritti. Una forma di giustizia storica e di autoaffermazione di un popolo. Certo, il sionismo non è solo questo e i due saggi che ho indicato mettono in luce le diverse criticità di un concetto che raccoglie differenti visioni dello Stato ebraico.

Abraham B. Yehoshua, Antisemitismo e sionismo. Una discussione (Einaudi, Torino, 2004).

Questo libricino è stato scritto da uno dei più famosi scrittori israeliani, ma non per questo risulta essere tendenzioso.
Yehoshua parte da un’analisi dell’antisemitismo e spiega perché si possa rintracciare un filo rosso storico per cui l’odio verso gli ebrei di ieri trovi ancora forza nel presente. Passa poi all’analisi dello stretto rapporto tra religione e nazionalità in seno all’ebraismo, auspicando che le due identità si separino, affinché la cultura ebraica possa divenire un veicolo di integrazione sociale anche per i non ebrei.

Giunto a questo punto, credo che un lettore medio possa aver acquisito gli strumenti base per orientarsi.

Allora la lettura di scritti come Orientalismo (1978) di Edward Said e il libro di Gresh possono essere interpretati in una prospettiva storica più consapevole e meno militante.
In parallelo, varrebbe la pena proseguire lo studio perlomeno con i saggi di Anna Foa (Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento) e di Wolfgang Benz (L’Olocausto, ma anche la sua analisi di un falso storico antisemita come i Protocolli dei Savi di Sion). Qualcuno potrebbe domandarsi che significato abbia leggere libri sul genocidio degli ebrei quando si parla dell’attuale conflitto arabo-israeliano: invito i lettori a recuperare queste opere per comprenderlo.

Gli eventi di ottobre 2023

Vengo infine all’attualità, agli eventi di ottobre, proprio perché, per inquadrarli al meglio, è necessario avere prima alcune basi di storia. Cercherò di essere il più chiaro e conciso possibile, riportando nel finale alcune fonti. Per un ulteriore approfondimento, rimando ai libri che ho indicato, una sorta di starter pack che potrà poi essere ampliato con altre letture.

La mattina del 7 ottobre 2023, circa cinquemila razzi sono stati lanciati contro Israele dalla Striscia di Gaza, controllata da Hamas.

Circa 2.500 militanti hanno attaccato basi militari dell’Idf e comunità civili, tra cui 260 persone che stavano partecipando a un festival musicale a Re’im. Era l’inizio dell’Operazione Al-Aqsa Flood.
L’attacco a sorpresa ha portato a una brutale carneficina e al rapimento di ostaggi civili disarmati e di soldati israeliani, portati nella Striscia di Gaza. Il giorno seguente, Israele ha dichiarato formalmente guerra a Hamas.
L’azione è avvenuta al termine della festa ebraica di Sukkot, a cinquant’anni dall’inizio della guerra dello Yom Kippur (1973). Il livello di violenza tra le parti non era così alto da allora.

Hamas, considerata organizzazione terroristica da molti Paesi, governa la Striscia di Gaza dal 2007.

Negli ultimi due anni, i rapporti con Israele si erano ridotti ai minimi storici. L’organizzazione ha affermato di aver ricevuto sostegno dall’Iran, per quanto Israele stesso e gli Usa abbiano dichiarato che non ci siano prove concrete di un coinvolgimento. Un modo – secondo alcuni – con cui tentare di non estendere il conflitto da regionale a globale.
Israele ha avviato una campagna di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, che al momento ha portato a oltre 5.000 morti palestinesi.
Ha anche messo sotto assedio l’area, interrompendo le forniture di cibo, acqua, elettricità e carburante. Anche il confine della Striscia con l’Egitto è rimasto chiuso a lungo, segnatamente al valico di Rafah, dove solo di recente sono passati alcuni veicoli delle Nazioni Unite con beni di prima necessità.

Israele ha esortato oltre un milione di abitanti a evacuare dal nord di Gaza, mentre Hamas ha bloccato le strade che portano a sud, spingendo i residenti a restare e a morire da martiri.

La crisi umanitaria si fa sempre più grave, mentre si attende l’imminente arrivo dell’Idf, con l’obiettivo dichiarato di cancellare Hamas, ma non di occupare la Striscia di Gaza, che sarebbe peraltro quasi impossibile da gestire.
Sul fronte di coloro che sono riusciti a fuggire, la scarsa solidarietà di Paesi islamici come il confinante Egitto si spiega in breve. Hamas è nata da un braccio dei Fratelli Musulmani, un’entità politica, fondata nel 1928, che ha portato a molti stravolgimenti nel Medio Oriente, minacciando o detronizzando le monarchie regionali. Per questo, ancora oggi, i Fratelli Musulmani sono considerati fuorilegge in diversi Paesi mediorientali come Egitto e Arabia Saudita e Hamas viene visto con diffidenza, a partire dalla monarchia giordana. Nessuno di questi Paesi, inoltre, è propenso ad accogliere migliaia o milioni di profughi palestinesi, che da un lato costituirebbero un costo ingente per la casse di Stati in difficoltà, dall’altro comporterebbero una variazione sociale e demografica capace di minare la stabilità interna, come suggeriscono gli esempi di Siria e Libano.

Una quarantina di Paesi hanno denunciato le azioni di Hamas, definendole terroristiche; gli Stati mediorientali hanno perlopiù chiesto una de-escalation; l’Iran, infine, ha gettato benzina sul fuoco, minacciando un intervento contro Israele.

Dal Libano, i militanti di Hezbollah, sostenuti dall’Iran, hanno lanciato razzi sul territorio israeliano come segnale di sostegno. Il 25 ottobre, leader di Hamas, di Hezbollah e del gruppo Jihad islamica si sono riuniti per un vertice a Beirut.
Israele ha poi compiuto azioni militari in Cisgiordania e in Siria, dove ha bombardato gli aeroporti di Aleppo e di Damasco.
L’attacco del 7 ottobre ha congelato il delicato processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi arabi, cominciato anni prima con la firma degli Accordi di Abramo (2020), patrocinati dagli Stati Uniti. Da allora, nazioni come il Marocco e l’Arabia Saudita stavano facendo passi importanti per portare a una pace solida nell’area, partendo dal presupposto del diritto all’esistenza di Israele. A rallentare il processo, tuttavia, ha contribuito l’occupazione illegale da parte di Israele di diversi territori palestinesi, tra cui quelli della Cisgiordania, come denunciato dalle Nazioni Unite. Gli attentati di Hamas, invece, hanno costituito l’ennesimo rifiuto del dialogo di una parte estremista del mondo islamico. Hamas, infatti, è tra coloro che nel loro “statuto” ha come missione l’eliminazione di ogni traccia di Stato israeliano nell’area.

Sul piano politico, la storica socialdemocrazia laica israeliana è sempre stata più favorevole a trovare un punto di incontro, come dimostrano gli Accordi di Oslo (1993).

All’epoca, però, l’assassinio del premier israeliano Yitzhak Rabin, da parte di un ultranazionalista israeliano, seguito a una serie di tensioni, portò alla dichiarazione di guerra dell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) a Israele, nel corso della seconda intifada.
Da allora, la sinistra palestinese ha perso gradualmente potere e, in parallelo, la destra nazionalista israeliana si è rafforzata, con la sesta rielezione di Benjamin Netanyahu (29 dicembre 2022), sostenuto dai voti dell’ala oltranzista del Paese.
Nel suo ultimo governo, Netanyahu ha intensificato la costruzione di insediamenti nella Cisgiordania occupata, mentre, sul fronte interno, la riforma giudiziaria ha portato migliaia di israeliani a protestare per le strade. Dopo l’attacco di Hamas, il presidente ha aperto a un governo di unità nazionale con l’opposizione e alla costituzione, l’11 ottobre, di un gabinetto di guerra. Netanyahu ha infine sospeso a tempo indeterminato il divisivo iter legislativo sul campo della giustizia.

Per quanto concerne le elezioni palestinesi, Hamas ha vinto le legislative del 2006 e il gruppo ha condotto una guerra vittoriosa con la rivale Fatah nel 2007, portando al controllo su Gaza.

Così Egitto e Israele hanno imposto un blocco della Striscia di Gaza, per evitare il commercio di materiale bellico.
Inoltre, è proprio dal 2006 che l’Autorità Palestinese non tiene elezioni nazionali per il timore di una nuova vittoria di Hamas.
L’ala moderata ha perso terreno tanto in Israele quanto tra i palestinesi e, secondo diversi sondaggi, la maggior parte dei palestinesi ritiene oggi che l’uso della forza sia indispensabile per ottenere concessioni da Israele. Nell’ultimo anno, si sono infatti intensificati gli scontri tra le parti, come ho raccontato in un precedente The Week.

Le tensioni tra Israele e Hamas erano già al culmine almeno dallo scorso settembre, con Nazioni Unite, Qatar ed Egitto che stavano tentando una mediazione per scongiurare il conflitto aperto.

Sembra che proprio l’Egitto avesse avvertito Israele, giorni prima, di un imminente attacco dalla Striscia. Molti i dubbi interni al riguardo, ma si presume che, nel prossimo futuro, Netanyahu dovrà rispondere ai cittadini per questa impreparazione della famosa intelligence israeliana, il Mossad.
Al momento, continuano le incursioni aeree israeliane e il lancio di razzi dalla Striscia: Israele può contare sull’ottimo sistema di difesa Iron Dome, mentre i palestinesi si trovano a vivere in una delle aree più densamente popolate del pianeta, con i miliziani di Hamas che spesso li impiegano come scudi umani, creando obiettivi militari a ridosso delle zone civili.

Gli sviluppi di questa guerra sono quanto mai incerti. Ci sono attori interessati a un allargamento del conflitto e altri alla ricerca di un compromesso.

È una fase troppo confusa per definire, una volta per tutte, gli schieramenti, ma certo è indicativo il fatto che al summit per la pace del 21-22 ottobre, in Egitto, i partecipanti non siano riusciti a firmare nemmeno una bozza di dichiarazione congiunta.
In questo momento del conflitto, non ci resta che mantenere vivo il nostro senso critico, attendere ore o giorni prima di commentare un qualsiasi evento dato per certo e, infine, leggere il più possibile non per schierarsi, ma per comprendere che non esiste soluzione alla questione che non includa la convivenza tra i due popoli in due Stati. Affinché questo sia possibile, Israele dovrà essere capace di non abusare della propria forza militare – come gli Stati Uniti e altri gli hanno intimato – e il mondo islamico, almeno in questo lembo di terra, dovrà riconsiderare la propria deriva estremista, che sta annientando ogni genere di progresso nel mondo arabo e mediorientale.
Per quanto ci riguarda, come italiani e come europei, dobbiamo respingere l’antisemitismo di certe manifestazioni, come quella di Milano con cori che non si sentivano dal tempo del nazismo («Apriteci i confini, così possiamo uccidere gli ebrei»), e aprire un dialogo serio con l’Islam moderato in Europa, per fare in modo che la radicalizzazione non coinvolga anche le nostre democrazie. Non possono prevalere ideologie o fedi i cui princìpi siano più importanti sulla sacralità di ogni vita umana.


Sugli argomenti d’attualità – haaretz.com, adl.org, cnn.com, washingtonpost.com, travelingisrael.com, ilfoglio.it e euronews.com


Argyros Singh


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