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L'insicurezza delle donne: ecco perché guadagnano meno e non fanno carriera

L'insicurezza delle donne: ecco perché guadagnano meno e non fanno carriera

Di Stefania Bergo. Le donne hanno conquistato il diritto allo studio e a ricoprire cariche tradizionalmente maschili. Ma  continuano a guadagnare mediamente meno dei colleghi e faticano a fare carriera. Perché? Che sia solo questione di insicurezza?

Ci sono molti angoli del mondo in cui la donna non ha alcun diritto. Figuriamoci poi se le viene concesso di studiare e lavorare ricoprendo cariche importanti, al di là di spaccarsi la schiena per raccogliere il riso, con i piedi a mollo e i figli legati ai lombi.


Fortunatamente, in quello che con molta e spesso ingiustificata enfasi chiamiamo mondo civilizzato, le donne studiano, lavorano e possono pure far carriera. Ma in generale – fortunatamente ci sono delle eccezioni – guadagnano mediamente meno degli uomini e non arrivano quasi mai ai vertici. Perché?

Due giornaliste statunitensi, Katty Kay e Claire Shipman, hanno svolto un interessantissimo studio sui comportamenti delle donne in ambito lavorativo, scrivendo sull'argomento anche un libro, The confidence code

E sono giunte alla provocatoria conclusione che le donne siano semplicemente più insicure degli uomini.
Spesso le donne si diplomano e si laureano in minor tempo e in numero maggiore rispetto agli uomini. Rappresentano la metà della forza lavoro e hanno fatto enormi progressi nel colmare la disparità di genere tra le cariche più alte della gerarchia, occupando posizioni dirigenziali di medio livello. Le aziende in cui lavorano prevalentemente donne, sono notoriamente più produttive, evidentemente perché le donne sono più diligenti e affidabili.
Eppure, malgrado tutti questi aspetti a loro favore, malgrado le conquiste e l'impegno prodigato ogni giorno, i loro colleghi hanno continuato a guadagnare di più, ad essere promossi prima e a ricoprire cariche di livello superiore. Come se le donne avessero sempre un elastico grave legato alla schiena e fossero perennemente rallentate pur impiegando un'energia superiore per avanzare.

Molti imputano questa disparità ad aspetti sociali, culturali, barriere che ancora oggi faticano a cadere.

Il che è vero. Ricordo i miei primi anni di lavoro. Seguivo in cantiere un mio collega ingegnere, con lui mi occupavo di interloquire con i medici per le specifiche sulla progettazione degli ospedali. Ebbene, ogni primario che incontravo dava per scontato che io fossi la sua segretaria, non una sua pari, e per di più non mi degnavano di risposta quando facevo qualche pertinente domanda, rivolgendosi sempre e comunque a lui, come se io non fossi stata in grado di comprendere, chissà.
A parte l'evidente mancanza di rispetto che non deve essere subordinata al ruolo che si ricopre, questo mi ha fatto capire, fin da subito, quanto avrei dovuto rimboccarmi le maniche per farmi riconoscere.

Altri sostengono invece che la differente prospettiva tra uomo e donna sia data dai figli che, ancora oggi più nelle donne, cambiano le priorità. 

Anche questo è vero, dato che spesso è la donna a dover scegliere tra la famiglia e la carriera o che comunque è imbrigliata in una sorta di cortocircuito emotivo che la fa perennemente sentire in colpa se, per il lavoro, trascurasse i figli. Ma che dire della facilità con cui una donna viene discriminata in virtù di una probabile futura gravidanza?
Rispetto agli uomini, le donne non si considerano altrettanto pronte per una promozione, si aspettano risultati peggiori agli esami e in generale sottovalutano le proprie capacità.
Katty Kay e Claire Shipman, The confidence code

Alla base di questi atteggiamenti patologici delle donne e della società, c'è una profonda insicurezza del genere femminile. 

Sono le donne per prime a non credere in se stesse, secondo lo studio condotto da Katty Kay e Claire Shipman.
Questa mancanza di fiducia si traduce in un atteggiamento negativo nei confronti della vita, in particolare in ambito lavorativo, dato che in generale al successo concorrono in egual misura la competenza e la percezione di sé.
Monique Currie, stella del basket femminile di Washington, afferma che «anche l'ultimo uomo in panchina, pur senza giocare, si sente un campione... per le donne non è così». Clara Shish a 29 anni è entrata nel consiglio di amministrazione della Starbucks e oggi è una delle poche amministratrici delegate della Silicon Valley. Eppure, si sente spesso un'impostora, come se coprisse un ruolo che non le spetta. Lo stesso vale per Sheryl Sandberg, direttrice operativa di Facebook, che a volte si chiede se meriti davvero il suo posto.

Anche quando si tratta di contrattazioni salariali, l'insicurezza delle donne le penalizza. 

I colleghi maschi, infatti, riescono dibattere col futuro datore di lavoro quattro volte più spesso delle donne, chiedendo mediamente un 30% in più come stipendio mensile.
Gli uomini sono più sfrontati, hanno un atteggiamento più sicuro, a volte sopravvalutando le proprie capacità. Quando un uomo deve affrontare degli impegni sul lavoro particolarmente complessi può pensare che siano oggettivamente difficili, mentre una donna penserebbe di essere personalmente inadeguata.

Donne forti

Che le donne abbiano poca autostima e siano insicure è vero. Ma credo che questo sia comunque il frutto della società in cui viviamo, non un'impronta genetica. 

Trascurando tutti i posti del mondo in cui la donna non esiste e i tempi passati, bui, in cui si è cercato di zittirla se non addirittura eliminarla, la società in generale ha un'avariata percezione delle capacità della donna e di ciò che le compete.
Fin da piccole ci allevano in un mondo in rosa, monocromatico, che delinea uno stereotipo controproducente. Quando cresciamo e ci capita di uscirne, infatti, questo viene spesso interpretato in modo negativo. La donna indipendente che vive da sola, mantenendosi col proprio lavoro, è una «zitella acida» o sfortunata, un uomo è un «single affascinante»; la madre che passa otto ore in ufficio è un «pessimo esempio di cura parentale», aggravata dal fatto che non indossi contemporaneamente ogni giorno un grembiule con il pizzo e svolazzi per casa con il piumino per la polvere e un piatto di biscotti allo zenzero appena sfornati, il padre di famiglia che vede i suoi figli solo cinque minuti al giorno è un «gran lavoratore»; una dirigente di polso che sa gestire il proprio personale e farlo produrre è una «dittatrice» o una «stronza», il suo collega maschio è un «leader».


La verità è che la società incoraggia negli uomini un comportamento deciso, sicuro di sé, mentre il medesimo atteggiamento è mal visto nelle donne, considerate prepotenti o negativamente ambiziose.

Forse, il modo giusto per rendere meno insicure le donne, è avere prima di tutto una società che apprezzi e rispetti le donne sicure di sé. Le donne possono davvero fare la differenza in ambito lavorativo, sono una risorsa da valorizzare. Non da umiliare, sottovalutare o criticare.
Chiaramente il discorso è molto più ampio e non si ferma al mondo del lavoro. E allargando il focus non si può che confermare che la sicurezza in una donna viene sempre vista con accezione negativa. Come qualcosa di non accettabile. Addirittura da punire, in alcuni casi.
È un gatto che si morde la coda: l'insicurezza delle donne è alimentata dall'atteggiamento patriarcale della società che a sua volta pretende di abbassare la testa delle donne che vogliono vedere oltre, costringendole con la forza o facendole sentire sbagliate. E credo che stia solo a noi spezzare il loop. Anzi, ne sono sicura.



Stefania Bergo


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