Gli scrittori della porta accanto

L'incipit | #20 Il sole scuro


CAPITOLO 1

A Giada piace l’inverno. Osservare la foschia che sfuma i contorni del paesaggio, la nebbia che accende tutto di bianco. Sentire il gelo insinuarsi nei muscoli, nelle ossa, snodarsi attraversando ogni frammento del suo corpo.
Percorre il lungo viale per andare a scuola. La neve dei giorni scorsi è accatastata tra i palazzi, la strada e il marciapiede, due file ininterrotte di un miscuglio di fango e smog. Al centro, il passaggio per i pedoni, dove l’acqua del manto bianco disciolto ha lasciato piccole pozzanghere scure e dense di polvere nera. Procede lentamente, anche se ha la versione di latino le prime due ore ed è preoccupata perché è una materia in cui va male. Quelle regole così strane con i cum, i quin, i quominus non sono nelle sue corde, proprio non le entrano in testa.
Studia, datti da fare, scaldi la sedia tutto il giorno senza fare niente.
A lei piace ascoltare la musica, a volume basso o con le cuffie. Leggere poesie. Lo fa di nascosto, quando la madre è in cucina e lei sente lo sferragliare delle pentole, il rumore della porta del frigo che fa quel flop gommoso quando lei lo chiude velocemente, con una spinta nervosa e affrettata.
Cammina con metodo, la testa china a guardarsi la punta delle scarpe, lo zaino pesante calcato sulle spalle magre, le ginocchia che si flettono con un ritmo regolare. Conta i passi. Serve a distrarla e a non pensare. Non vuole pensare, non vuole che la mente scivoli altrove, dove non è ora. Dove potrebbe decidere di farlo, ancora una volta. Entrare nell’androne di un edificio con il portone aperto, rintanarsi dietro l’angolo tra le scale e le cantine, tirare fuori dalla tasca più nascosta della borsa con i libri quel maledetto arnese che lei ama e odia. E usarlo per sentirsi meglio e peggio.
Raggiunge la fermata del tram con l’andatura automatica, cercando di dominare il senso di soffocamento che la assale sempre più spesso.
Ora la incontrerà, come accade ogni mattina, quella compagna di classe che parla sempre, troppo, e che lei cerca di evitare appostandosi al fondo, accanto alle ultime vetrate del mezzo. Strategia inutile. Jessica la cerca ogni volta, le si avvicina, inizia. Lo fa con tutti, ancora di più con chi parla poco, perché così può riempire ogni spazio per sé, sentirsi al centro: descrivere gli ultimi vestiti che ha comprato all’outlet, raccontare delle sue conquiste, sparare i suoi pettegolezzi, che cosa ha fatto la tale con il tale, perché ha litigato con una del suo giro. Giada finge di stare al gioco. Ogni tanto un sorrisino stirato, un cenno di assenso, qualche monosillabo buttato qua e là.
Per fortuna la scuola è vicina, ad appena trecento metri dalla banchina sulla quale sono scese, sul corso che costeggia il quartiere della Crocetta. Il seppia che predomina sugli altri colori, gli eleganti e bassi edifici in stile liberty, i marciapiedi senza una cartaccia o un mozzicone di sigaretta. È il quartiere dei vip torinesi, dopo il centro e la zona collinare dalla parte di corso Moncalieri, dove vivono i ricchi, in ville circondate da giardini curatissimi, con i gazebo, i tavoli e le sedie in legno massiccio.
Molti si voltano a guardare Jessica. Altissima, tutta gambe. Il suo inguine arriva alla vita di Giada, che pure ha una statura normale. Ha occhi piccoli e mobilissimi, si fermano per pochi istanti su ogni dettaglio, ma Giada pensa che ci passino sopra senza vedere. I capelli rossi di media lunghezza le accarezzano appena le guance rosee del piccolo viso lentigginoso, sproporzionato rispetto al corpo. La frangia sfilata si apre in ordinate e lisce ciocche, tra le quali si intravede una bassa fronte bianca. Jessica è intelligente, ricorda tutto ciò che legge o che vede anche una sola volta. Giada ha lo sguardo fisso, invece, e a scuola non è tra le prime. Si sente mediocre, una che si confonde nella massa, che non ama mettersi in mostra.
L’amica continua a inglobarla con le sue tante parole, insistente, senza mai smettere, ma Giada riesce a coglierne soltanto una piccola parte.
Passano davanti a un’agenzia di viaggi. Dovrebbe entrarci, uno dei prossimi pomeriggi, e chiedere informazioni sugli itinerari sommariamente descritti nei manifesti esposti in vetrina: le Bahamas, le Maldive, Cuba. Oppure potrebbe partire all’avventura, una mattina di un qualsiasi giorno, seguendo soltanto il proprio istinto. Fare l’autostop vicino ai caselli autostradali, andare dove le capita, con il suo sacco a pelo e le scarpe comode per fare chilometri a piedi. O, ancora, soggiornare in un albergo di fronte al mare, con la spiaggia dalla sabbia chiara e fine. Osservare lo specchio d’acqua con i motoscafi e gli yacht dei turisti, le belle donne distese sul ponte che si abbronzano in topless. Senza pudore, con le braccia aperte e gli occhialini neri, la pelle resa lucida dalla crema solare che gli uomini hanno spalmato loro sulla schiena, le risatine di compiacimento.
Il mare. Quanto vorrebbe amarlo, ancora.
Potrebbe fare tante altre cose, per esempio entrare in quella gastronomia take-away di via Po, dove andava ogni tanto con suo padre a comprare i calzoni fritti, gli arancini e le crocchette di patate che a lei piacevano tanto.
Si sfila lo zaino dal dorso, lo sistema su una sola spalla e tocca la tasca nascosta. Il suo amico nemico è lì. E si sente più sicura, mentre la sua compagna, ormai arrivate a scuola, ha finalmente chiuso la bocca.
Il compito in classe è difficile, se lo aspettava. Prenderà quattro, come sempre, e sua madre le dirà che i suoi sacrifici non sono ricompensati, che è un’ingrata, e che lei lavora tutto il giorno per niente. Oppure scoppierà in una di quelle grasse risate sonore e le dirà che è troppo stanca per parlarne. Poi si agghinderà e uscirà con le amiche per le sue borghesi canaste, o andrà in un dancing, ogni volta uno diverso, per ballare la bossa nova, la bachata e, perché no, un valzer con uno sconosciuto.

È un tre, non un quattro, come aveva previsto. Ora dovrà farglielo firmare e sperare che sia di buon umore.
«Giada! Sono tornata!».
«Ciao, mamma» risponde rincuorata dal tono dei giorni buoni.
«Uh, che giornata! Oggi ho venduto un sacco di vestiti, pantaloni e t-shirt. Niente male. E a te come è andata?» chiede da lontano, mentre si libera delle decolleté tacco a spillo e indossa la solita tuta da casa.
«Così. Non tanto bene. Il compito di latino…».
«Andato male, vero?».
«Sì, molto male».
«Quanto?».
«Tre».
«Dai, te lo firmo. Ma prima o poi dovremo fare qualcosa. Domani chiedo alla signora del terzo piano, quella con i capelli nero fumo con cui ogni tanto mi fermo a chiacchierare. Ha un compagno che insegna in un liceo classico. Magari ti dà una mano».
«Sì, mamma» risponde Giada sollevata, anche se l’idea di prendere lezioni private la mette un po’ in agitazione.
È fortunata, è in serata buona. Forse nemmeno si arrabbierà se accende lo stereo per ascoltare Sweet Home Chicago. Può aumentare il volume, lei ha voglia di ridere.
«E vai!» esclama la madre confermando la sua sensazione.
La osserva mentre si sfila le ciabatte lanciandole in un angolo della stanza. Si lascia prendere le mani e strattonare fino al centro del tappeto. Lei si contorce tutta, le mani ondeggiano spostandosi tra la testa e il bacino, si muove con energia sulle note di quella canzone così lontana da lei, dalla sua età. Giada la asseconda e balla con lei, ma si sente fuori posto. Fuori tempo. Fuori logica. E senza capire il motivo dell’ilarità di sua madre, che avrebbe dovuto rimproverarla anziché festeggiare, si lancia anche lei in quella girandola di movimenti. Per stordirsi e non pensare a quel sole scuro che ha cominciato a risucchiarla lentamente, ogni giorno un piccolo vortice in più, da quando suo padre è morto improvvisamente quattro anni fa.


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