Gli scrittori della porta accanto

La notte delle stelle cadenti, di Valentina Gerini: incipit

La notte delle stelle cadenti, di Valentina Gerini: incipit

Incipit #166 «Spingi, spingi! Come se tu dovessi fare la cacca!» l'improvvisata ostetrica mi esorta ormai da un po' di tempo.


La notte delle stelle cadenti

di Valentina Gerini
Romance | Viaggio
Gli Scrittori della Porta Accanto
ebook 2,99€
cartaceo 7,99€




Io spingo, ma non accade niente, solo tanto dolore.
«Di più, Sara! Spingi di più! T'ho detto che devi spingere come se dovessi fare la cacca!»
«Non so te, ma io la faccio così» rispondo, perché proprio non capisco. Davvero più forte di così non si può. Non so che cacca faccia lei, ma la mia con due di queste spinte era già fuori. E, detto fra noi, credo proprio che un po' ne sia anche uscita. Quello che proprio io non volevo, la cosa che temevo di più in assoluto, quello che volevo assolutamente evitare era farla davanti a dottori, ostetriche e, diciamolo, anche al mio fidanzato! Ci conosciamo alla perfezione, non c'è pudore né vergogna tra di noi ma su una cosa siamo sempre stati categorici: il momento dei bisogni solidi rimane sacro e privato. E così è stato, fino a oggi almeno... Invece qua, l'ho fatta davvero, davanti a tutti. C'è da dire però che non ci sono vere ostetriche e veri ginecologi. Sono di fronte a mia sorella che per l'occasione si è improvvisata ostetrica (avrebbe forse avuto scelta essendosi ritrovata in spiaggia di sera con la sorella che sta per partorire?), il veterinario del paese che è stato convocato in quanto unico medico disponibile in zona, mio cognato che sta rallegrando gli animi e sdrammatizzando la situazione e José. Non so se al momento ci siano anche altri spettatori in disparte. La scena, degna di un film, sono sicura abbia richiamato l'attenzione di molti ma per fortuna nessuno ha avuto il coraggio di avvicinarsi. Io poi non sarei stata per niente contenta di mostrare le mie grazie a gente sconosciuta. Per fortuna mio nipote Andrea, figlio di mia sorella, ha portato la nostra primogenita Sophie a passeggio questa sera in cerca di un gelato alla fragola e in seguito, appresa l’insolita situazione, si è trattenuto in casa a giocare con lei, che ha solo quattro anni ma non vuole mai dormire prima della mezzanotte.
Il termine della gravidanza è scaduto nove giorni fa e proprio domani sarei dovuta andare in ospedale per essere ricoverata e indurre il parto. Ma la mia bambina è un po' impaziente e pare voglia nascere proprio stasera. Il dieci agosto, la sera di San Lorenzo.
Siamo in spiaggia, sdraiati su degli asciugamani col naso all'insù per guardare il cielo. Quel cielo che ogni notte ci regala una distesa di stelle luminose. Abbiamo deciso di passare qui un paio d’ore stasera, alla ricerca di una buona stella. Non ci siamo posti il problema che fosse pericoloso o sconsigliato stare in spiaggia per me, in queste condizioni. Viviamo dall’altra parte della strada, due passi e sarei potuta rientrare in casa, all’evenienza. E poi, domani è previsto il parto programmato, quindi a nessuno è venuto in mente che potesse accadere una cosa simile.
Cerchiamo di vedere una stella cadente, aspettiamo di vederne la scia per esprimere un desiderio, quando ho la prima contrazione. José se ne accorge subito, perché sbatto un pugno per terra, sulla sabbia.
«Non è niente, tranquilli. Solo una contrazione», li rassicuro.
«Vuoi vedere che partorisci qui?», dice quel gufo di mio cognato e subito dopo ho un’altra contrazione. Poi una ancora e un'altra ancora.
Guardo mia sorella e noto che già sta tenendo i tempi osservando l'orologio. «Allora Sara, sono una ogni tre minuti. Secondo me ci siamo, Anya vuole proprio uscire stasera! Bizio ha ragione!».
Mi giro, cercando conforto nello sguardo di José, che, sgomento, scuote la testa silenzioso. Poi prende coraggio e mi dice: «No Sara, stasera no, ora no! Sono ormai le dieci passate, non ci sono più mezzi pubblici in giro, la macchina è dal meccanico e ce la restituiscono non prima di domani sera, se chiamiamo un ambulanza passeranno almeno due ore prima che arrivi, lo sai come funzionano le cose qua in Repubblica Dominicana, taxi in giro non ce ne sono perché Bocelli è in concerto al teatro di Altos de Chavon e saranno tutti fuori… e poi domani hai l’appuntamento in clinica. Insomma, ma che vuoi davvero partorire in spiaggia???».
«Perché abbiamo forse scelta?» risponde mia sorella Giulia mentre io mi contorco a causa di una nuova contrazione, molto più forte delle precedenti. Voglio spingere, non c’è più tempo. Bizio, bianco come un cencio, ascolta attento le indicazioni di mia sorella e parte alla ricerca di un medico, degli asciugamani in più, delle forbici e dell'acqua.
E quindi eccomi qui, dopo nemmeno mezz'ora dalla prima contrazione, a spingere per dare alla luce la mia bambina, sulla spiaggia di Bayahibe, ai Caraibi, a cinque metri dal mare, sotto un cielo stellato senza l'aiuto di un ginecologo. Non era proprio così che avevo immaginato il parto. Quel travaglio di cui tutti parlano, le lunghe ore di sofferenza durante le quali il collo dell'utero si dilata, in cui non si sa che posizione prendere, camminare o stare stese, borsa dell’acqua calda o fredda sulla schiena, quando si grida di dolore e si impreca che finisca presto, tutto questo io non l'ho vissuto. In poco più di mezz’ora sono già pronta per spingere. Per la mia piccola Sophie non ho provato tutto questo. E io mai avrei pensato di ritrovarmi a partorire così. Sembrava tutto così calmo e statico ieri alla visita ginecologica. Tanto calmo che nessuno mi aveva preparata a un parto lampo come invece sta accadendo. Non credevo si potesse partorire in maniera così veloce. Dopo pochissime contrazioni sento già una forte pressione al basso ventre. Devo spingere. La mia bambina ha fretta di uscire, dopo essere stata bella tranquilla per quasi dieci giorni oltre il termine della gravidanza. Sento la sua testa premere per uscire. L'insistenza di questa sensazione mi fa capire che devo rassegnarmi, partorirò in spiaggia, non c'è più tempo.

Ero sul tipico autobus rosso a due piani, diretto a Covent Garden.

Ero sul tipico autobus rosso a due piani, diretto a Covent Garden. Ero arrivata a fatica al piano superiore e avevo finalmente trovato un posto a sedere vicino al finestrino. Adoravo viaggiare in autobus a Londra perché potevo ammirare la bellezza mozzafiato di questa città. Rapita da ciò che vedevo fuori dal finestrino, stavo ascoltando l’album dei miei artisti prediletti del momento: i Motel Connection. Questo loro album, ‘Give me a good reason to weak up’, era uno dei miei preferiti. Non che le loro fossero canzoni di grande significato, semplicemente il loro ritmo un po' cupo e malinconico si sposava perfettamente con il mood di Londra in quel periodo e mi piaceva camminare a tempo di quella musica una volta scesa dal bus. Stavo per arrivare, mancavano due fermate. Stavamo percorrendo la Westminster Bridge Rd, il cielo era di un timido azzurro, completamente privo di nuvole. Un cielo insolito a Londra, caratterizzata prevalentemente da cielo grigio e fastidiosa pioggerellina. Quel giorno il sole splendeva già alto, il suo calore non era ancora molto forte da riscaldare completamente l'aria, ma i 18/20 gradi che il corpo percepiva rendevano piacevole camminare su e giù per la città. Questa temperatura era più che accettabile a Londra.
L'architettura della House of Parliament mi lasciava sempre a bocca aperta, ogni volta che la vedevo. Tutta Londra mi lasciava sempre a bocca aperta. Imponenti costruzioni, decorazioni e illuminazioni impeccabili, differenti stili che convivevano serenamente in una delle città più belle e più vive d'Europa. Al mattino mi ero alzata e mi ero diretta verso il Tower Bridge, uno dei simboli di Londra, presente in tutte le foto e cartoline. Costruzione maestosa, che non mi stancavo mai di ammirare. Da lì avevo deciso di raggiungere la City attraversando il Millennium Bridge, un ponte pedonale costruito in acciaio dall'aspetto innovativo e futuristico. Una volta arrivata nella City, l'area londinese storicamente più antica, avevo respirato a pieni polmoni. Lì, su quelle strade, le stesse dove io stavo camminando, centinaia di anni fa i primi abitanti di Londra davano inconsapevolmente vita a una delle città più importanti del mondo. Mi sembrava di vedere quella antica città dalle strade piastrellate, signori con cappelli passeggiavano distinti, carrozze con cavalli riempivano le strade. E tutt'intorno edifici ben costruiti che sarebbero arrivati fino ai giorni nostri. Visto che mi trovavo nella zona di St. Paul's Catherdral avevo deciso di visitare quella chiesa. Una magnifica cattedrale in pietra bianca con una cupola gigantesca mi si parò difronte agli occhi non appena arrivai in Ludgate Hill. Costruita secondo lo stile barocco inglese, è la seconda chiesa anglicana del paese in ordine di grandezza. Dopo aver osservato la chiesa avevo poi passeggiato lungo il Tamigi approfittando della stupenda giornata, fino a raggiungere una fermata della metro sull'altra sponda del fiume. Volevo arrivare fino a Covent Garden, una delle mie zone preferite della città. Piena di negozi, artisti di strada e un favoloso mercatino coperto. Da lì avrei poi proseguito nuovamente a piedi fino a raggiungere Trafalgar Square e subito dopo sarei tornata indietro verso il mercatino di Covent Garden. Volevo godere a pieno di questa magnifica giornata Londinese, sfruttando le mie conoscenze riguardo a scorciatoie e piccole strade che collegano i vari luoghi più famosi della città.

Immersa nei miei pensieri mi risvegliai perché il bus si fermò bruscamente.

Eravamo quasi di fronte al Big Ben quando salirono non uno, ma ben tre controllori vestiti con un completo blu. Io non mi preoccupai, avevo appena ricaricato il mio abbonamento solo per effettuare qualche ultima corsa, visto che dopo tre giorni sarei tornata a casa, in Italia. La mia consueta vacanza a Londra, quella che annualmente mi concedevo oramai da almeno sei anni, stava per terminare, e sarei ripartita per lavoro, per chissà quale destinazione. Rimasi seduta ad ascoltare la mia musica quando un bellissimo ragazzo di colore in completo blu con capelli rasta raccolti in una specie di chignon mi fece segno di porgergli l'abbonamento. Senza nemmeno togliere le cuffie gli mostrai la mia carta Oyster, uno dei miei tanti cimeli ben conservati di quando avevo abitato a Londra per qualche mese. La passò sul suo lettore di carte e senza battere ciglio mi disse che non avevo pagato il biglietto. Mi tolsi le cuffie, pensando di aver capito male.
«No no» sosteneva lui «non hai passato la carta sul lettore quando sei salita e il viaggio che stai effettuando non risulta pagato».
Cercai di scavare nella mia memoria a breve termine, di ricostruire la mia salita sul bus passaggio per passaggio e fu allora che ricordai. Ero salita e il bus era colmo di gente, avrei dovuto fare a spallate per raggiungere l'obliteratrice e mi ero seduta pensando "Lo farò alla prossima fermata, non ho proprio voglia di giocare a rugby adesso" e alla fine invece non l’avevo più fatto. Sorrisi con gran vergogna e cercai di spiegare, nel mio inglese perfetto, che la carta era carica e che era stata una svista, che il bus era pieno e che avrei provveduto subito a passare la carta sul lettore. Ma lui niente, bello e risoluto mi invitava a scendere alla prossima fermata. Gli spiegai che sarei rimasta a Londra solo altri tre giorni, dopo di che sarei tornata a casa, che avevo sempre pagato i miei viaggi durante tutti i miei soggiorni a Londra, che non era mia intenzione trasgredire le regole né tradire la corona. Iniziai a intontirlo, da tipica italiana chiacchierona, raccontando la mia permanenza in quella metropoli da buona cittadina, assicurandolo che mai e poi mai mi sarebbe passato in mente di non pagare il biglietto, che i servizi di trasporto pubblico a Londra erano impeccabili e io ne ero una grandissima fan, tanto che stavo pensando di dedicare alla metropolitana di Londra il mio prossimo tatuaggio. Lui mi disse, facendo una grande smorfia con la bocca, di non offendere la sua intelligenza, di sapere bene che quelle erano tutte scuse per non pagare e che non aveva molto tempo da dedicare ai miei racconti da turista. Allora decisi di scendere, volevo proprio dimostrargli che veramente avevo sempre pagato e che veramente domenica me ne sarei andata. Guardai un suo rasta che si era staccato dallo chignon e che ora oscillava nell'aria come un pendolo e inciampai nello scalino di discesa ma feci finta di niente.

Eravamo fermi sul marciapiede, lui mi guardava mentre io armeggiavo nervosamente dentro la mia borsa.

Mia sorella mi diceva sempre di comprare borse da ragazza per bene, con cerniere e scompartimenti, ma io ancora mi ostinavo a usare borse fatte a maglia, morbide, senza forma e non riuscivo a trovare il biglietto aereo, che ero sicura fosse nella borsa, per dimostrargli che stavo dicendo la verità. Mi veniva di tutto alle mani, pettine, trucchi, portafoglio, ipod, ma la prenotazione del volo no. Sembrava sparita. Lui era divertito, la sua smorfia si era trasformata in un sorriso, ma nonostante questo mi liquidò con un semplice: «Ok, ti credo, ma la multa per questa infrazione devo fartela». Mi informò gentilmente che avevo due opzioni: pagare venti sterline a lui in quel momento o aspettare che la multa fosse spedita a casa, con una maggiorazione. Immaginai il corteo di soldati giunti a cavallo che consegnavano la multa a casa mia e mi dichiaravano in arresto per tradimento alla corona.
Provai a dire l'ultima stupidaggine che mi passò in mente, per salvarmi in calcio d'angolo, tanto mal che andasse la multa dovevo pagarla lo stesso, e dissi: «Please be kind, close one eye» tentando di tradurre l'espressione italiana ‘chiudi un occhio’ e sbattei gli occhi come fossi una principessina indifesa.
Lui mi guardò perplesso, chiuse un occhio e mi chiese: «E adesso cosa devo fare con l'occhio chiuso?» e scoppiò in una fragorosa risata.
Sbattendomi una mano sulla fronte cercai di spiegargli che in Italia quel modo di dire significa "lascia stare, fai finta di niente per questa volta, lasciami andare" e lui continuò a ridere, ancora più forte. Prese il blocco per fare le multe e iniziò a scrivere. Mi chiese i dati e io mi arresi.
«Sara, mi chiamo Sara» dissi rispondendo alle sue domande. Pagai le venti sterline e presi la mia multa. Quando stavo per andarmene, abbattuta e triste, lo ringraziai giusto perché sono una persona cordiale, e lui mi porse un altro foglio.
«E che ho fatto ancora?!» gridai un po' spazientita, guardando il foglio della seconda multa. Lui alzò lo sguardo dal blocchetto e sorridendo, mi fece segno di aprire il foglio. Solo allora vidi che oltre a essere alto e muscoloso aveva anche un bellissimo sorriso. Dispiegai il foglio e mi accorsi che non era affatto una multa ma un numero di telefono. A quel punto lui si presentò. José Carlos qualcos'altro e mi porse la mano. Troppi nomi e troppi cognomi, non me li sarei mai ricordati. Fu allora che notati uno strano accento spagnolo nel suo inglese e, incuriosita, gli chiesi da dove venisse. Mi disse di essere nato in Repubblica Dominicana e subito dopo mi disse di chiamarlo, adesso doveva tornare a lavoro.

Quarta di copertina
"La notte delle stelle cadenti" di Valentina Gerini, Gli Scrittori della Porta Accanto, 2017 (seconda edizione).

Partorire sotto il cielo di Bayahibe, quando ormai sembrava impossibile.
Un impiego dinamico come quello del controllore turistico, tanti viaggi, una grande delusione amorosa e una gravidanza finita male. Questa è la vita di Sara che, desiderosa di essere madre ma consapevole di non poterlo diventare, dedica anima e corpo al proprio lavoro. A Londra incontra José, un affascinante uomo dalle origini dominicane e ne rimane colpita. Barcellona, Parigi, Miami... In ogni città qualcosa le parla di lui. I due ragazzi sono destinati a ritrovarsi e, una volta insieme, con una meravigliosa Repubblica Dominicana che fa da sfondo alla loro storia, Sara prende in considerazione la possibilità di adottare un bambino. Quando la famiglia sembra ormai essersi consolidata, il destino riserva loro tante altre sorprese! Questa seconda edizione, arricchita con ricette tipiche dominicane, consigli di viaggio e suggerimenti musicali, dà ai lettori la possibilità di entrare nel pieno dell’atmosfera caraibica, conoscerne gli usi e i costumi e, volendo, di organizzare un viaggio seguendo gli spunti dell’autrice.

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

Tutti i nostri incipit:




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