Oggi è il mio primo giorno di lavoro a Chaaria. Ho paura. Mi sento insicuro. Arrivo dalla Tanzania, dove in sei mesi non ho mai visto un paziente perché il mio compito era “solo” imparare la lingua. Temo soprattutto le malattie tropicali. Le ho studiate tanto sui libri durante un Master a Londra ma non le ho mai realmente affrontate sul campo. Mi preoccupa anche parlare con la gente. Ho cercato di imparare con grande impegno il kiswahili, per poi venire a sapere che qui si parla solo il kimeru, di cui non conosco neanche una parola.
Cercherò di cominciare senza farmi notare troppo. Mi hanno detto che inizierò dal laboratorio di analisi, dovrò intervenire in caso di emergenza. Il laboratorio mi affascina: a Londra mi sono fatto una cultura di parassitologia, ora finalmente posso metterla a frutto. Spero che qualcuno (anzi, Qualcuno) mi assista. Ne ho davvero bisogno.
23 marzo 1998
Ieri ho avuto la mia prima paziente, una donna entrata in coma dopo aver partorito in casa. Le abbiamo fatto l’esame della malaria: positivo, e ad alta densità. Una malaria cerebrale, malattia che colpisce moltissime persone, donne e bambine soprattutto. Il suo piccolo però sta bene. Quando è entrata in ospedale era ricoperta di fango dalla testa ai piedi perché aveva attraversato mezzo mondo per arrivare qua. Sanguinava tutta, la sua situazione era disperata, non sapevo che cosa fare. Credo che in tanti anni di servizio sia stata la volta in cui mi sono sentito più inadeguato. Fratel Maurizio mi ha dato una mano e alla fine abbiamo deciso di portarla al vicino ospedale di Nkubu. Noi posti letto non ne abbiamo.
Appena fuori Chaaria la jeep su cui viaggiavamo è rimasta impantanata nel fango. Bloccata, nulla da fare. Abbiamo cominciato a urlare perché qualcuno ci sentisse. Come in un film, in pochi minuti sono arrivate decine di uomini muniti di badili e zappe. Hanno iniziato a scavare intorno alle ruote e a spingere la macchina. Così, senza dire niente. Sono rimasto colpito, anzi commosso, da tanta solidarietà. Gratuita, sincera. Dopo molti sforzi la jeep è sgusciata fuori dal fango, con la frizione che puzzava di bruciato. Proseguire a quel punto sarebbe stato sciocco: era troppo tardi, avremmo rischiato di far morire la donna lì e molto probabilmente saremmo rimasti bloccati un’altra volta. Siamo ripartiti in direzione Chaaria. Una volta in ospedale, abbiamo fatto l’unica cosa possibile: le abbiamo iniettato in vena un po’ di chinino e ci siamo messi ad aspettare.
Con sorpresa di tutti, la donna, neanche quarantotto ore dopo, è uscita dal coma. Ora sta bene, tra qualche giorno potrà tornare a casa. Abbiamo anche battezzato il suo bambino, l’abbiamo chiamato Pasqualino. Oggi è il Venerdì Santo.
Non so spiegare questa adrenalina che mi prende, improvvisa, fortissima. Fai nascere una vita, ne salvi un’altra. In meno di due giorni cambi la vita di qualcuno. Non puoi solo “fare” il medico, devi “essere” medico, devi sentirlo. È una vocazione. Qui non stacchi quando finisce il turno, perché pensi già a quante persone potrai cambiare il destino domani.
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