Di Elena Genero Santoro. L'11 settembre 2001 un attacco terroristico rase al suolo le Torri Gemelle, trasformando l'area in Ground Zero. Dopo anni, ricordi di una New York che non c'è più.
Sono andata a New York in tempi non sospetti, nell’ottobre 1999, esattamente due anni prima del crollo delle Torri Gemelle, l'11 settembre del 2001.Era un viaggio di istruzione organizzato dal Politecnico di Torino; i corsi ormai li avevo finiti, mi sarei laureata in capo a un anno. In realtà le Torri Gemelle a noi interessavano poco. Eravamo allievi ingegneri, avevamo visitato il museo Guggenheim di Frank Llyod Wright, la Saint Patrick Cathedral e Wall Street, avevamo girato tra i quartieri caratteristici, Chinatown, Little Italy. Avevamo passeggiato per Harlem e ascoltato un coro gospel nero durante una celebrazione domenicale. Ce n’eravamo andati quando il pastore aveva iniziato un sermone molto aggressivo in una lingua di cui non capivamo niente! E poi Broadway, il Rockfeller Center e il Central Park. Ma soprattutto avevamo visitato studi di progettazione e università.
Le Torri Gemelle stavano là, pacifiche, silenti e fungevano da scenografia. Nessuno le metteva in discussione.
Una sera ci siamo spinti fino in cima all’Empire State Building (da lì abbiamo visto New York di notte e constatato quanto fosse piccola e insignificante la Statua della Libertà), ma per mancanza di tempo alle Torri Gemelle non ci eravamo arrivati. Una compagna di corso, che voleva a ogni costo vedere ogni angolo della città, era in piena crisi isterica perché non avremmo potuto farcela. Io e un’altra amica, avevamo cercato di calmarla: «Eddai, non importa, non possiamo vedere tutto, prendiamocela con un po’ più di tranquillità e godiamoci il nostro giro. Niente Torri Gemelle! Sarà per un’altra volta… ».
New York nel ‘99 era una città a suo modo tranquilla. Frenetica, ma senza patemi.
La gente correva ovunque su e giù per andare al lavoro, le impiegate in tailleur indossavano Nike e calzini bianchi per camminare spedite per strada e in metropolitana (avrebbero calzato le chanel una volta in ufficio). Gli impiegati non facevano la pausa pranzo ma in compenso mangiavano in continuazione. I ristoranti italiani erano gestiti da personale, spesso di colore, che non sapeva dire in italiano nemmeno buongiorno e buonasera e serviva lasagne unte e bisunte. Il caffè ovunque si pagava a peso. Nei “Dely and Grocery”, a metà tra una latteria e un self service, si mangiava abbastanza bene e con poco. L’alternativa per le nostre tasche erano i fast food. Intorno a noi, per strada, udivamo tutte le lingue. L’italiano non era infrequente, i turisti erano proprio tanti.Mi aveva impressionato la grande discrepanza tra i quartieri ricchi, dove tutto era bello, meraviglioso e confezionato ad arte, e quelli in cui le case erano talmente grigie e incrostate da mettere depressione e le scale anti incendio pendevano giù arrugginite. Il Bronx era tristissimo e l’avevamo attraversato solo in pullman, per motivi di sicurezza; Harlem invece era già in via di riqualificazione e l'avevamo raggiunta a piedi. A Manhattan giganteschi centri commerciali erano paradisi artificiali che per quattro o cinque piani contenevano un unico brand (ricordo Nike, o Disney). Le signorine vestite di rosa come le Barbie cantavano jingle per attirare i bambini. Roba mai vista da noi. Negli hotel le hall erano luoghi pubblici e pertanto ovunque si poteva accedere ai bagni (e menomale, perché dopo aver bevuto mezzi litri di caffè…).
Tutto era grande, enorme, fuori misura per noi italiani. Dalla gente, generalmente obesa (in più di un ristorante le sedie erano instabili), ai palazzi. Il cambio del dollaro era sfavorevole.
Quando è accaduta la tragedia delle Torri Gemelle, io avevo ancora la città ben presente negli occhi. La mia New York era ormai solo un sogno lontano.
Nel frattempo la mia vita era cambiata. Mi ero laureata, convivevo ad Asti, frequentavo un corso di qualificazione per la sicurezza nei cantieri e lavoravo in uno studio tecnico a Moncalieri per quattro soldi. La mia vita era compressa tra mille impegni, poche soddisfazioni e niente viaggi.Dicono che quando accadono queste tragedie collettive la gente si ricordi cosa stesse facendo quando l’evento nefasto si è verificato.
Voi cosa stavate facendo l’11 settembre 2001?
Io avevo appena terminato di lavorare nello studio tecnico ed ero salita immediatamente sul treno per Asti. Internet nello studio non ce l’avevo e gli smartphone non esistevano. Appresi tutto una volta giunta a destinazione. Me lo raccontò lui, il mio compagno di allora, quello che era stato appena trasmesso in tv. Me lo disse in modo approssimativo e superficiale, mentre camminavamo sotto i portici di corso Alfieri. Non aveva nemmeno idea di che cosa fossero le Torri Gemelle. Io invece sì. Mi parlò del Pentagono, ma non aveva assolutamente colto la portata dell’evento. Forse all’inizio nessuno aveva ben compreso. Dopo poco fu tutto più chiaro…
Da allora le teorie del complotto si sono sprecate.
Se ne sono dette di tutti i colori: Bush l’attentato se l’è fatto da solo; quel mattino non c’erano ebrei; l’hanno fatto in un’ora in cui gli uffici erano ancora mezzi vuoti, solo per colpire determinate persone.Non mi sono mai curata di queste teorie. Sono morte migliaia di persone, questo mi basta. E New York, da allora, non è più stata quella che ho conosciuto io.
Solo recentemente mi sono imbattuta in un articolo che ho trovato interessante e che, a prescindere da chi siano i colpevoli, mette in dubbio la dinamica dell’attentato, ipotizzando che un paio di aerei da soli non avrebbero potuto fare tanti danni. L’ipotesi è che negli edifici fossero presenti le consuete cariche utilizzate per fare implodere gli edifici senza colpire le cose circostanti.
Non sono un’esperta di scienza delle demolizioni (che è una branca dell’ingegneria civile-edile), ma le questioni che questo articolo pone mi paiono sensate, a prescindere dalle conclusioni. La comunità degli ingegneri civili, comunque, rifiuta ufficialmente questa tesi. Una tesi che stuzzica la mia curiosità, ma non cambia certo lo stato delle cose.
Sono morte migliaia di persone. E qualcuno sta ancora morendo, per le conseguenze delle polveri cancerogene (come Lady Dust, una sopravvissuta) e per il trauma psicologico subito.
Non sono più tornata a New York, non ne ho più avuto occasione, ma prima o poi mi piacerebbe farlo. Immagino che la città sia parecchio cambiata da allora, per lo meno nello spirito.
Il vuoto che hanno lasciato la due Torri è sia fisico sia metaforico. E infatti, è stato celebrato con Ground Zero. Con la loro distruzione, sono state annientate tremila vite e, a seimilaquattrocento chilometri di distanza, anche un mio ricordo.
Elena Genero Santoro |
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Lo ricordo bene quel giorno.
RispondiEliminaLavoravo in bar dai miei, servivo al banco. Un vecchietto è entrato mentre tutti, ancora increduli, guardavamo sgomenti la tv, e ha esordito con: "Ah, ma l'ho già visto! Questo FILM l'hanno fatto anche ieri sera!"
E invece di sorridere per l'ingenuità dell'anziano, ho pianto.....
Wilbur Smith. Quel pomeriggio stavo leggendo un libro del famoso scrittore, mi piacevano i suoi romanzi legati all'antico Egitto,la sua scrittura vivace, capace di catapultarti nella trama. Ricordo che un brivido intenso e inaspettato mi percorse la schiena per tutta la sua lunghezza, mentre leggevo un passaggio in cui l'autore si divertiva a disgustare il lettore mettendolo a tu per tu con un mucchio di vermi su delle interiora fetide. Chiusi quel libro nauseata dopo avere letto quella frase rivoltante e mi diressi ad accendere il mio pc, ancora non esistevano gli smarphone come strumento di evasione. La prima immagine che Virgilio mi mostrò, era una torre coperta da una coltre di fumo. A primo impatto non capii, pensai che fosse scoppiata la guerra. I titoli parlavano di attentato. Corsi di sotto e accesi la televisione. Tutte le reti sintonizzate su quelle dolorose immagini. Capii che qualcosa di grosso era appena accaduto, ma rimasi a guardare l'evolversi dei fatti, incollata allo schermo. Pochi minuti dopo, un nuovo aereo si fiondò nella seconda torre. Non credevo ai miei occhi. Ero impietrita, spaventata, sconcertata. Ripensai a Wilbur Smith. Il destino aveva voluto che cogliessi tra le righe di un suo romanzo un segno premonitore, qualcosa di terribile e sconvolgente era appena accaduto, come era accaduto nel suo libro. Ed era talmente grande che avrebbe cambiato la storia. Questo è il riassunto del mio 11 settembre.
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