Gli scrittori della porta accanto

La presunta trattativa Stato mafia: dagli anni '70 alle indagini delle tre procure

La presunta “trattativa Stato mafia”, dagli anni '70 alle indagini delle tre procure

Di Tamara Marcelli. Le stragi avvenute in Italia tra il 1992 e il 1994 e l’ombra incombente di quella che fu definita la “trattativa Stato mafia” per farle cessare. 

I verbali delle audizioni in Commissione parlamentare antimafia rappresentano un importante mezzo di ricostruzione dei fatti della così detta "trattativa Stato mafia", come definita dalle tre procure interessate dalle indagini.
Interessante l’individuazione di un “prologo agli attentati”, forse poco conosciuto ai più, rappresentato dalla strage del treno Rapido 904 avvenuta il 23 dicembre 1984. Il convoglio, partito da Napoli centrale e diretto a Milano, fu fatto esplodere all’interno della galleria tra Vernio e San Benedetto Val di Sambro. Questa fu la prima risposta di Cosa Nostra all’attività del giudice Giovanni Falcone che aveva da poco emesso numerosi mandati di cattura a seguito delle complesse indagini che anni dopo produssero quello che fu definito il “maxi processo”.

Il periodo storico ed i fatti che determinarono le indagini sulla presunta “trattativa Stato mafia”.

Perché non si può prescindere dal contesto storico per comprendere il fenomeno.
Negli anni ’80 a Palermo si scatena una sanguinosa guerra di mafia (la seconda, mentre la prima era esplosa nei primi anni '60) per il controllo del territorio soprattutto per il traffico di stupefacenti tra i Corleonesi di Riina, Provenzano, Liggio, Giuffré, Spatuzza, Brusca, Calò, Bagarella, Matteo Messina Denaro (latitante), Madonia, Nitto Santapaola e i fratelli Graviano, contro la fazione di Badalamenti-fratelli Bontate con Inzerillo, Ignazio e Nino Salvo, Di Maggio, Di Noto, Pizzuto, Ferlito, Buccellato, Salemi, Calì e Buscetta (scappato poi in Brasile).
Dal 1981 al 1983 vi furono a Palermo circa 600 omicidi. 
La guerra di mafia vide i Corleonesi come vincitori indiscussi vista la loro particolare crudeltà che non risparmiò di recidere anche gli affetti più cari dei nemici.

La mafia uccise anche numerosi uomini delle Istituzioni.

Il segretario provinciale della Dc Reina (9 marzo 1979), il Commissario di Polizia Boris Giuliano (21 luglio 1979), alcuni giornalisti, il Giudice Terranova (25 settembre 1979), il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella (fratello dell’attuale Presidente della Repubblica Italiana, 6 gennaio 1980) il Procuratore Costa (6 agosto 1980), il segretario regionale del Pci Pio La Torre (30 aprile 1982), il Generale Dalla Chiesa (3 settembre 1982),  e molti altri anche tra gli appartenenti alle Forze dell’Ordine. Fu la prima forma di “ricatto” della mafia allo Stato: Riina, forte della sua organizzazione profondamente radicata nel tessuto sociale e con gangli in ogni amministrazione centrale e periferica, ad ogni livello, dichiarò così guerra alle Istituzioni.

In questo scenario si inserisce un gruppo di giudici istruttori, coadiuvati nelle indagini da personale della Polizia di Stato e dei Carabinieri, denominato “Pool Antimafia”.

Si occupò, per la prima volta, esclusivamente di reati di stampo mafioso o connessi in qualche modo alla mafia. Ne fecero parte i giudici Rocco Chinnici (ucciso dalla mafia nel 1983), Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone (ucciso il 23 maggio 1992), Paolo Borsellino (ucciso il 19 luglio 1992), Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello, il Procuratore Giuseppe Ayala, i poliziotti Ninni Cassarà dirigente della squadra mobile di Palermo (ucciso il 6 agosto 1985 dalla mafia in quanto stretto collaboratore di Falcone) e Beppe Montana commissario della squadra mobile di Palermo sezione Catturandi (ucciso dalla mafia il 28 luglio 1985), entrambi medaglia d’oro al valor civile.
A Palermo siamo poco più d'una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà.
Beppe Montana

Nell’ottobre 1983 in Brasile viene arrestato Tommaso Buscetta, latitante dal 1980. 

Il giudice Falcone vola in Brasile per interrogarlo e lo convince a collaborare: cominciarono così ad emergere molte delle dinamiche organizzative di Cosa Nostra, nomi, circostanze, interessi, fiancheggiatori occulti. Si apre così una finestra su un mondo fino ad allora sconosciuto, o solo intuito.
Il 15 luglio 1984 Buscetta viene estradato in Italia e la sua preziosa collaborazione continua anche perché, facendo egli parte della fazione perdente nella guerra di mafia, ha visto uccidere molti dei suoi familiari, tra cui due figli che non si sono mai affiliati a Cosa Nostra.

Anche per questo, oltre che per ottenere tutela personale, Buscetta rivela molti dei segreti che custodisce: questa è la sua vendetta. 

Egli non rivela solo lo schema organizzativo, ma anche i mandanti e gli esecutori materiali di molti omicidi di mafia che hanno insanguinato Palermo. Per mantenere il più possibile riservate le conversazioni tra il mafioso e il magistrato, Buscetta dichiara di voler parlare sempre e solo con Falcone, segnando così, indirettamente, la condanna a morte del rappresentante dello Stato.
Nell’ottobre 1984 il giudice Falcone inizia a raccogliere le dichiarazioni del mafioso Salvatore Contorno, scampato poco prima ad un feroce agguato, a cui la mafia ha ucciso oltre trenta familiari e amici.

A novembre 1985, il giudice Caponnetto emette l’ordinanza denominata “Abbate Giovanni+706” ed è l’inizio di quello che verrà poi denominato “Maxi-processo”.

Il primo processo alla Mafia, riconosciuta come entità criminale stabilmente organizzata. I numeri di tale processo sono indicativi della portata storica e giuridica di un’indagine senza precedenti: 707 indagati (476 rinvii a giudizio, 231 assoluzioni) 25 collaboratori di giustizia tra cui Buscetta, Sinagra, Di Marco, i rapinatori Calzetta, i trafficanti Salek e Salah, ed altri.
Il Maxi-Processo inizia il 10 febbraio 1986, giorno della prima udienza di primo grado e termina il 30 gennaio 1992 con la sentenza di Cassazione.
Il 16 dicembre 1987 termina il primo grado, dopo circa due anni dall’inizio del processo. I Pm sono il giudice Giuseppe Ayala e il giudice Domenico Signorino, il Presidente di Corte d’Assise il giudice Alfonso Giordano e il giudice a latere Pietro Grasso (attualmente Presidente del Senato della Repubblica Italiana). I 475 imputati hanno circa 200 avvocati difensori, il processo si conclude con 19 ergastoli e altre condanne, per un totale di 2665 anni di reclusione.

Per contenere la moltitudine di personaggi che a vario titolo devono partecipare al maxi-processo, vene costruita un’apposita “Aula bunker” di forma ottagonale, di fianco al carcere dell’Ucciardone a Palermo.

Falcone, intuendo che la mafia si sia garantita appoggi in Cassazione, riesce a ottenere che i processi non siano assegnati a una determinata sezione, ma che si adotti un sistema di rotazione. È il 1991 e questo segnale arriva chiaramente a Cosa Nostra. Falcone ha imboccato la strada giusta, Riina non glielo perdona.

L'aula bunker nella quale si è tenuto il maxi-processo alla mafia

L’esito drammatico di questo processo per Cosa Nostra determinò la risposta violenta dell’organizzazione mafiosa e culminò nel settembre 1991 con la decisione del super boss Riina di dare inizio alla cosiddetta “stagione delle stragi”. 

Nel dicembre 1991 durante una riunione tra affiliati alla mafia, lo stesso Riina, capo indiscusso, ordina di colpire i giudici Falcone e Borsellino, i politici della Dc Salvo Lima (poiché Andreotti, vero bersaglio, risultava troppo scortato), il ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno Calogero Mannino, il ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, il ministro della Difesa Salvo Andò, il ministro delle Poste e Telecomunicazioni Carlo Vizzini.
Il 12 marzo 1992, il parlamentare Dc Salvo Lima viene ucciso in un agguato mafioso. L’onorevole Mannino, per paura di essere il bersaglio successivo, contatta il comandante dei Ros Antonio Subranni, attraverso il maresciallo dei carabinieri Guazzelli. Il 4 aprile 1992 il maresciallo Guazzelli viene ucciso in un agguato, sicuramente un segnale.
Il 16 marzo 1992 il Capo della Polizia Parisi comunica al ministro dell’Interno Scotti che vi è la possibilità concreta di gravi attentati mafiosi, ma le sue indicazioni, unitamente a quelle successive del ministro stesso, non vengono tragicamente prese in debita considerazione.
Il 23 maggio 1992 c'è la terribile strage di Capaci in cui perdono la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta: i poliziotti Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. La mafia ha colpito uno dei rappresentanti della lotta alla sua organizzazione, un simbolo di Giustizia e Legalità. Vene addirittura definito “l’attentatuni”, ovvero “il grande attentato” proprio per la portata dell’evento.

La strage di Capaci del 23 maggio 1992

Il successivo 8 giugno 1992, il Consiglio dei Ministri approva definitivamente il Decreto-Legge “Scotti-Martelli” (voluto fortemente da Falcone) che introduce l’art.41 bis, ovvero il “regime di carcere duro” volto ad ostacolare le comunicazioni dei detenuti mafiosi tra loro e all’esterno degli istituti di pena. 

Prevede, tra l’altro, la limitazione dei colloqui, la limitazione della permanenza all’aperto (la cosiddetta “ora d’aria”) e la censura della corrispondenza.
Incardinato nell’Ordinamento penitenziario italiano nella 354/1975 nella parte delle misure privative e limitative della libertà, viene convertito in Legge n.356/1992 (il precedente era la Legge Gozzini n.663/1986), recentemente aggiornato nella Legge n.94/2009. La norma prevede che il Ministro della Giustizia possa sospendere normali regole di trattamento penitenziario e sottoporre determinati detenuti al regime di “carcere duro”: mafiosi, terroristi, sequestratori, soggetti condannati per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope, per contrabbando di tabacchi e lavorati esteri, per rapina, estorsione, violenza sessuale di gruppo, tratta di persone e alienazione di “schiavi”, pornografia minorile, sfruttamento e induzione alla prostituzione, etc. 

Tra l’attentato di Falcone e quello di Borsellino si intersecano alcune vicende che daranno vita a quella che verrà individuata e definita come attività di “negoziazione” tra parti delle Istituzioni e della mafia. 

Non si può prescindere dalla conoscenza di tali vicende, emerse in seguito durante le indagini, per addivenire alla ricostruzione di una “trattativa” presunta o strumentalmente mistificata.
Il capitano dei Carabinieri De Donno prende contatti con il corleonese Vito Ciancimino (che riferiva a Riina mediante il suo medico di fiducia) attraverso il figlio Massimo Ciancimino. Lo fa, dirà poi, per conto del Vice comandante dei Ros Mario Mori che deve riferire al comandante Subranni.
A fine giugno 1992 il capitano De Donno incontra a Fiumicino la dott.ssa Ferraro, vice direttore degli affari penali del Ministero della Giustizia, per chiedere la “copertura politica al rapporto di collaborazione con Ciancimino”. La dott.ssa Ferraro lo invita invece a riferire tutto direttamente al giudice Borsellino. Il 25 giugno 1992, il colonnello Mori e il capitano De Donno incontrarono il giudice Borsellino che, tre giorni dopo, si trova a Roma con la dott.ssa Ferraro.
Intanto Riina mostra al mafioso Salvatore Cancemi un elenco di richieste allo Stato, asserendo che vi sia una “trattativa”, cosa che riferì anche al fedele Giovanni Brusca.
Il 1 luglio 1992 il giudice Borsellino deve recarsi a Roma per interrogare un collaboratore di giustizia, tale Mutolo, ma viene chiamato con urgenza al Viminale dal neo ministro dell’Interno Nicola Mancino, uscendo dall'incontro particolarmente “turbato”. Il collaboratore Salvatore Cancemi riferì, poi, che Riina ordinò nello stesso tempo di accelerare l’uccisione del giudice Borsellino e di eseguirla con “modalità eclatanti”.


Riina informa Brusca che la “trattativa” si è improvvisamente interrotta e che “c’è un muro da superare”, alludendo all’eliminazione del giudice Borsellino.

Il 15 luglio 1992, il giudice Borsellino dice alla moglie che il generale dei Ros Subranni è in qualche modo “vicino” ad ambienti mafiosi, ricollegando questa dichiarazione ad un discorso di qualche giorno prima inerente un “contatto” tra mafia e parti deviate dello Stato (le disse, dichiarò lei stessa anni dopo, di essere convinto che presto lo avrebbero ucciso).
Il 19 luglio 1992, nell’attentato di via d’Amelio a Palermo, morirono il giudice Borsellino e la sua scorta: i poliziotti Emanuela Loi , Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Secondo il Pm Antonino Di Matteo «il giudice Borsellino fu ucciso per proteggere la trattativa dal pericolo che il dott. Borsellino, venutone a conoscenza, ne rivelasse e denunciasse pubblicamente l’esistenza, in tal modo pregiudicandone irreversibilmente l’esito auspicato».

Attentato in via D'Amelio: perdono la vita il giudice Borsellino e la sua scorta

Il 10 agosto 1992, oltre 100 mafiosi vengono trasferiti nel carcere dell’Asinara (SS). 

A settembre 1992 Riina ordina a Brusca di preparare un nuovo attentato poiché la “trattativa” si è interrotta. Il bersaglio è il giudice Grasso che però si salva per problemi tecnici.
In questo periodo, il colonnello Mori incontra l’onorevole Violante che presiede la Commissione parlamentare Antimafia, per invitarlo a discutere alcune questioni con i Ciancimino, ma Violante rifiuta. A dicembre 1992, il colonnello Mori chiede a Vito Ciancimino di segnare su una cartina di Palermo il luogo in cui si nasconde Riina, viene arrestato per residuo di pena, il 19 dicembre 1992, prima di poter consegnare la mappa.

Il 15 gennaio 1993 i Ros di Mori e Delfino arrestano Riina, latitante da oltre vent’anni. 

A seguito di questo arresto, Bernardo Provenzano riesce a evitare nuove stragi in Sicilia solo “deviandole” e sostituendole con attentati nella penisola, molti diretti a colpire il patrimonio artistico italiano, quasi a dimostrare di poter cancellare la Storia d’Italia. Questi attentati hanno lo scopo di terrorizzare la popolazione e di dare un segnale forte allo Stato che non si è piegato al ricatto.
A febbraio 1993, il ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli è costretto a dimettersi a seguito dello scandalo di “tangentopoli”.
Intanto arrivano numerose lettere contenenti minacce gravi a vari rappresentanti dello Stato. Inizia così un nuovo periodo di attentati allo stato:
  • 14-5-1993 attentato fallito in Via Fauro a Roma - Giornalista Maurizio Costanzo
  • 27-5-1993 strage di Via Dei Georgofili a Firenze - Galleria degli Uffizi
  • 27-7-1993 strage di Via Palestro a Milano - Museo Arte Contemporanea
  • 28-7-1993 autobomba Chiesa San Giovanni In Laterano e San Giorgio Al Verbaro a Roma 
  • 31-10-1993 attentato fallito con autobomba allo stadio olimpico di Roma
  • 14-4-1994 attentato fallito al collaboratore di Giustizia Salvatore Contorno a Roma

Nel giugno 1993 il Presidente della Repubblica Scalfaro “invita” il ministro di Giustizia Conso a sostituire il direttore del DAP (dipartimento amministrazione penitenziaria).

Nicolò Amato verrà sostituito con Capriotti, il quale invia una nota al ministro Conso con l’invito a non rinnovare oltre 300 provvedimenti di 41 bis, definendo questa decisione un “segnale positivo di distensione” (audizione del Procuratore Lari in Commissione parlamentare Antimafia). Nonostante questo invito, alcuni provvedimenti su detenuti particolarmente pericolosi vengono rinnovati. Intanto alcune telefonate anonime manifestarono soddisfazione per la sostituzione in favore di Capriotti, mentre altre continuarono a minacciare di morte il ministro dell’Interno Mancino e il Capo della Polizia Parisi.
Il 27 gennaio 1994 i fratelli Graviano vengono arrestati a Milano e da quel momento gli attentati si fermarono.

Nel marzo 2012 la Commissione parlamentare antimafia ripercorre i fatti attraverso le audizioni di alcuni importanti magistrati delle tre procure che indagano sulla presunta "trattativa".

  • Procura di Firenze: il Procuratore Quattrocchi e i sostituti procuratori Crini e Nicolosi; 
  • Procura di Palermo: il Procuratore Messineo e il sostituto procuratore Di Matteo; 
  • Procura di Caltanissetta: il Procuratore Lari, i procuratori aggiunti Bertone e Gozzo, i sostituti procuratori Marino Dodero e Luciani. 
È attraverso le loro voci che veniamo a conoscenza di tanti dettagli di vicende che hanno segnato la nostra storia recente e che ci permettono di ricostruire pezzi di un puzzle complesso, lungo vent’anni.
Per i dettagli, consiglio il saggio Processo alla trattativa Stato-mafia: tre procure, tre verità di Giampaolo Grassi

Tamara Marcelli


Ti siamo davvero riconoscenti per il tempo che ci hai dedicato. Se sei stat* bene in nostra compagnia, che ne dici di iscriverti alla NEWSLETTER SETTIMANALE per restare sempre aggiornat* sui nostri argomenti? Oppure potresti offrirci UN CAFFÈ o sostenerci acquistando i GADGET ispirati ai nostri libri. Te ne saremmo davvero grati!
Oppure potresti lasciarci un commento per farci sapere che ne pensi di questo articolo, il tuo feedback è davvero importante per noi.
NB: Gli autori non sono responsabili per quanto pubblicato dai lettori nei commenti ad ogni post. Tuttavia, verranno cancellati i commenti ritenuti offensivi o lesivi della immagine o della onorabilità di terzi, razzisti, sessisti, spam o che contengano dati personali non conformi al rispetto delle norme sulla Privacy e, in ogni caso, ritenuti inadatti a insindacabile giudizio degli autori stessi.

About Gli Scrittori della Porta Accanto

Il webmagazine degli scrittori indipendenti.
0 commenti

Posta un commento

<< ARTICOLO SUCCESSIVO
Post più recente
ARTICOLO PRECEDENTE >>
Post più vecchio
Home page

Parole chiave


Pubblicità
Abbonamento Audible Amazon




Libri in evidenza