Settembre 2003. Seduta alla scrivania della camera da letto, Alice era distratta dai rumori prodotti da John che girava come una trottola per le stanze del pianterreno.
Doveva finire la revisione di un articolo per il «Journal of Cognitive Psychology» prima del suo volo, e aveva appena riletto per la terza volta la medesima frase senza capirla. Erano le 7.30 secondo la sveglia, che a occhio andava avanti di dieci minuti. A giudicare dall’ora approssimativa e dal volume crescente dei suoi andirivieni, si capiva che John era sul punto di uscire, ma doveva aver dimenticato qualcosa che non riusciva a trovare. Alice picchiettò la penna rossa contro il labbro inferiore continuando a osservare le cifre digitali sull’orologio, in attesa di quello che sapeva sarebbe successo.
«Ali?»
Gettò la penna sulla scrivania e sospirò. Al pianterreno lo trovò inginocchiato in salotto, che tastava sotto i cuscini del divano.
«Chiavi?» gli chiese.
«Occhiali. Niente prediche, per favore. Sono in ritardo.»
Seguì il suo sguardo disperato verso la mensola del camino dove l’antico orologio Waltham, apprezzato per la sua precisione, proclamava le 8.00 in punto. John avrebbe dovuto saperlo che non c’era da fidarsi. Raramente gli orologi di casa loro sapevano che ora fosse davvero. Alice si era fatta fregare anche troppo spesso dai loro quadranti apparentemente sinceri e da molto tempo aveva imparato a fidarsi solo del suo orologio da polso. Come si aspettava, tornò indietro nel tempo entrando in cucina, dove il microonde insisteva che fossero solo le 6.52.
Scrutò il piano di lavoro di granito liscio e sgombro ed eccoli, gli occhiali, vicino alla ciotola a forma di fungo che traboccava di posta ancora da aprire. Non sotto qualcosa, non dietro qualcosa, non nascosti alla vista in alcun modo. Come faceva uno come lui, uno scienziato così intelligente, a non vedere quello che aveva davanti al naso?
Certo, anche diverse cose di Alice avevano preso a nascondersi in posticini infidi, ma non l’avrebbe mai ammesso con lui, e neppure lo coinvolgeva nelle ricerche. Proprio il giorno prima, con John beatamente ignaro, aveva passato una mattinata alla folle ricerca, prima in casa e poi in ufficio, del caricabatterie del suo BlackBerry. Alla fine si era arresa, perplessa, ed era andata a comprarsene un altro, solo per ritrovare quello vecchio la sera stessa, infilato nella presa dalla sua parte del letto, dove sarebbe stato ovvio cercarlo. Per entrambi si poteva probabilmente invocare la scusa dei troppi impegni e delle troppe cose da fare tutte insieme. E poi stavano invecchiando.
«Mi infilerò una delle tue sottane. Ali, scusa, sono davvero in ritardo.»
«Secondo il microonde hai un sacco di tempo» disse lei porgendoglieli.
«Grazie.»
Li afferrò come uno staffettista che prende il testimone e schizzò verso la porta.
«Ti trovo qui sabato quando torno?» chiese alle sue spalle seguendolo nell’ingresso.
«Non lo so, sabato sarà una giornataccia in laboratorio.» Raccolse valigetta, telefono e chiavi dal tavolino dell’ingresso.
«Fai buon viaggio, abbraccia Lydia e dalle un bacio per me. E cerca di non litigare troppo con lei» disse John.
Alice colse il loro riflesso nello specchio dell’entrata: un uomo alto e distinto con capelli castani brizzolati e occhiali; una donna snella con i capelli ricci, le braccia conserte sul petto, entrambi pronti a tuffarsi nella solita discussione infinita. Strinse i denti e deglutì, decidendo di non reagire.
«Ultimamente non ci siamo visti molto. Almeno ci proverai a essere a casa?» gli chiese.
«Lo so, ci proverò.»
Le diede un bacio e, per quanto impaziente di andare, indugiò per un impercettibile istante. Se non lo avesse conosciuto meglio, avrebbe attribuito un senso romantico a quell’esitazione. Avrebbe potuto goderselo considerandolo un modo per dirle: Ti amo, mi mancherai. Ma mentre lo guardava affrettarsi da solo lungo la strada ebbe la pressoché totale certezza che le avesse appena detto: Ti amo, ma ti prego non arrabbiarti se sabato non mi troverai a casa.
Ma ormai da qualche tempo raggiungevano separatamente Harvard. Alice aveva trascorso quasi tutta l’estate con la valigia in mano per seguire congressi di psicologia a Roma, New Orleans e Miami e come membro di commissione per la discussione di una tesi a Princeton. La primavera precedente, le colture cellulari di John avevano avuto bisogno di qualcosa di simile a dei lavaggi a orari oscenamente antelucani, e lui non si fidava della puntualità di nessuno dei suoi studenti. Così ci andava di persona. Alice non ricordava quale fosse stato il motivo ancora precedente, ma sapeva per certo che erano sembrati tutti ragionevoli e soltanto temporanei.
Era tornata al saggio in attesa sulla scrivania, ancora distratta, ma questa volta per il mancato litigio con John a proposito della loro figlia minore, Lydia. Cos’era, temeva forse di cascare in terra stecchito se per una volta avesse dato ragione a lei? Dedicò al resto del documento un’attenzione superficiale, non certo il suo solito standard di eccellenza, ma bisognava accontentarsi, considerata la concentrazione frammentaria e la mancanza di tempo. Completati i commenti e i suggerimenti per la revisione, imbustò e sigillò il documento, colpevolmente conscia che poteva aver tralasciato un errore nella struttura o nelle conclusioni del saggio, e maledicendo John per aver compromesso l’integrità del suo lavoro.
Finì di preparare la valigia, che non aveva neppure svuotato dopo l’ultimo viaggio. Nei mesi a venire prevedeva meno trasferte. Erano solo una manciata le conferenze programmate nel secondo semestre, e le aveva fissate tutte di venerdì, quando non aveva lezione. Come il giorno successivo. L’avevano invitata come oratrice ospite per inaugurare la sessione autunnale dei seminari di psicologia cognitiva a Stanford. E dopo sarebbe andata a trovare Lydia. Cercando di non litigare con lei, ma non poteva prometterlo.
Quarta di copertina
C’è una cosa su cui Alice Howland ha sempre contato: la propria mente. E infatti oggi, a quasi cinquant’anni, è una scienziata di successo, invitata a convegni in tutto il mondo, che ha studiato per anni il cervello umano in tutto il suo mistero.
Per questo, quando a una importantissima conferenza, mentre parla davanti a un pubblico internazionale di studiosi come lei, Alice perde una parola – una parola semplice, di cui conosce benissimo il significato – e non riesce più a ritrovarla nel magazzino apparentemente infinito della sua memoria, sa che qualcosa non va. E che nella sua testa sta succedendo qualcosa che nemmeno lei può capire. O fermare. La diagnosi, inimmaginabile fino a un momento prima, è di Alzheimer precoce.
Da allora, Alice, perderà molte altre parole. Perderà pian piano i nomi – per primi, quelli delle persone che ama, suo marito, i tre figli ormai adulti. Perderà i ricordi, ciò che ha studiato, ciò che ha fatto di lei la persona che è. In questo viaggio terribile la accompagnerà la sua famiglia: il cui compito straziante sarà di starle vicino, di gioire con lei dei rari momenti, luminosi e fugaci, in cui Alice torna a essere Alice. E, soprattutto, di imparare ad amarla in un altro modo.
Bestseller internazionale, Still Alice è la storia straordinariamente toccante di una donna che lotta per non perdere se stessa, e ha già conquistato il cuore di milioni di lettori.
«Ali?»
Gettò la penna sulla scrivania e sospirò. Al pianterreno lo trovò inginocchiato in salotto, che tastava sotto i cuscini del divano.
«Chiavi?» gli chiese.
«Occhiali. Niente prediche, per favore. Sono in ritardo.»
Seguì il suo sguardo disperato verso la mensola del camino dove l’antico orologio Waltham, apprezzato per la sua precisione, proclamava le 8.00 in punto. John avrebbe dovuto saperlo che non c’era da fidarsi. Raramente gli orologi di casa loro sapevano che ora fosse davvero. Alice si era fatta fregare anche troppo spesso dai loro quadranti apparentemente sinceri e da molto tempo aveva imparato a fidarsi solo del suo orologio da polso. Come si aspettava, tornò indietro nel tempo entrando in cucina, dove il microonde insisteva che fossero solo le 6.52.
Scrutò il piano di lavoro di granito liscio e sgombro ed eccoli, gli occhiali, vicino alla ciotola a forma di fungo che traboccava di posta ancora da aprire. Non sotto qualcosa, non dietro qualcosa, non nascosti alla vista in alcun modo. Come faceva uno come lui, uno scienziato così intelligente, a non vedere quello che aveva davanti al naso?
Certo, anche diverse cose di Alice avevano preso a nascondersi in posticini infidi, ma non l’avrebbe mai ammesso con lui, e neppure lo coinvolgeva nelle ricerche. Proprio il giorno prima, con John beatamente ignaro, aveva passato una mattinata alla folle ricerca, prima in casa e poi in ufficio, del caricabatterie del suo BlackBerry. Alla fine si era arresa, perplessa, ed era andata a comprarsene un altro, solo per ritrovare quello vecchio la sera stessa, infilato nella presa dalla sua parte del letto, dove sarebbe stato ovvio cercarlo. Per entrambi si poteva probabilmente invocare la scusa dei troppi impegni e delle troppe cose da fare tutte insieme. E poi stavano invecchiando.
John era sulla soglia, non guardava Alice ma gli occhiali che lei aveva in mano.
«La prossima volta fingi di essere una donna, quando li cerchi» gli disse Alice sorridendo.«Mi infilerò una delle tue sottane. Ali, scusa, sono davvero in ritardo.»
«Secondo il microonde hai un sacco di tempo» disse lei porgendoglieli.
«Grazie.»
Li afferrò come uno staffettista che prende il testimone e schizzò verso la porta.
«Ti trovo qui sabato quando torno?» chiese alle sue spalle seguendolo nell’ingresso.
«Non lo so, sabato sarà una giornataccia in laboratorio.» Raccolse valigetta, telefono e chiavi dal tavolino dell’ingresso.
«Fai buon viaggio, abbraccia Lydia e dalle un bacio per me. E cerca di non litigare troppo con lei» disse John.
Alice colse il loro riflesso nello specchio dell’entrata: un uomo alto e distinto con capelli castani brizzolati e occhiali; una donna snella con i capelli ricci, le braccia conserte sul petto, entrambi pronti a tuffarsi nella solita discussione infinita. Strinse i denti e deglutì, decidendo di non reagire.
«Ultimamente non ci siamo visti molto. Almeno ci proverai a essere a casa?» gli chiese.
«Lo so, ci proverò.»
Le diede un bacio e, per quanto impaziente di andare, indugiò per un impercettibile istante. Se non lo avesse conosciuto meglio, avrebbe attribuito un senso romantico a quell’esitazione. Avrebbe potuto goderselo considerandolo un modo per dirle: Ti amo, mi mancherai. Ma mentre lo guardava affrettarsi da solo lungo la strada ebbe la pressoché totale certezza che le avesse appena detto: Ti amo, ma ti prego non arrabbiarti se sabato non mi troverai a casa.
Normalmente attraversavano insieme Harvard Yard tutte le mattine.
Tra i tanti risvolti piacevoli del lavorare a poco più di un chilometro da casa e nella stessa università, il tragitto insieme era quello che amava di più. Si fermavano sempre da Jerri’s – un caffè nero per lui, un tè al limone per lei, caldo o freddo secondo la stagione – e proseguivano per Harvard Yard chiacchierando delle rispettive ricerche e delle loro lezioni, dei problemi dei rispettivi dipartimenti, dei figli, o dei programmi per la serata. I primi tempi del loro matrimonio si tenevano anche per mano. Aveva assaporato l’intimità rilassata di quelle passeggiate mattutine con lui, prima che le esigenze quotidiane dei rispettivi impegni e delle ambizioni rendessero entrambi stanchi e stressati.Ma ormai da qualche tempo raggiungevano separatamente Harvard. Alice aveva trascorso quasi tutta l’estate con la valigia in mano per seguire congressi di psicologia a Roma, New Orleans e Miami e come membro di commissione per la discussione di una tesi a Princeton. La primavera precedente, le colture cellulari di John avevano avuto bisogno di qualcosa di simile a dei lavaggi a orari oscenamente antelucani, e lui non si fidava della puntualità di nessuno dei suoi studenti. Così ci andava di persona. Alice non ricordava quale fosse stato il motivo ancora precedente, ma sapeva per certo che erano sembrati tutti ragionevoli e soltanto temporanei.
Era tornata al saggio in attesa sulla scrivania, ancora distratta, ma questa volta per il mancato litigio con John a proposito della loro figlia minore, Lydia. Cos’era, temeva forse di cascare in terra stecchito se per una volta avesse dato ragione a lei? Dedicò al resto del documento un’attenzione superficiale, non certo il suo solito standard di eccellenza, ma bisognava accontentarsi, considerata la concentrazione frammentaria e la mancanza di tempo. Completati i commenti e i suggerimenti per la revisione, imbustò e sigillò il documento, colpevolmente conscia che poteva aver tralasciato un errore nella struttura o nelle conclusioni del saggio, e maledicendo John per aver compromesso l’integrità del suo lavoro.
Finì di preparare la valigia, che non aveva neppure svuotato dopo l’ultimo viaggio. Nei mesi a venire prevedeva meno trasferte. Erano solo una manciata le conferenze programmate nel secondo semestre, e le aveva fissate tutte di venerdì, quando non aveva lezione. Come il giorno successivo. L’avevano invitata come oratrice ospite per inaugurare la sessione autunnale dei seminari di psicologia cognitiva a Stanford. E dopo sarebbe andata a trovare Lydia. Cercando di non litigare con lei, ma non poteva prometterlo.
Quarta di copertina
"Still Alice" di Lisa Genova, Piemme, 2015.
C’è una cosa su cui Alice Howland ha sempre contato: la propria mente. E infatti oggi, a quasi cinquant’anni, è una scienziata di successo, invitata a convegni in tutto il mondo, che ha studiato per anni il cervello umano in tutto il suo mistero.Per questo, quando a una importantissima conferenza, mentre parla davanti a un pubblico internazionale di studiosi come lei, Alice perde una parola – una parola semplice, di cui conosce benissimo il significato – e non riesce più a ritrovarla nel magazzino apparentemente infinito della sua memoria, sa che qualcosa non va. E che nella sua testa sta succedendo qualcosa che nemmeno lei può capire. O fermare. La diagnosi, inimmaginabile fino a un momento prima, è di Alzheimer precoce.
Da allora, Alice, perderà molte altre parole. Perderà pian piano i nomi – per primi, quelli delle persone che ama, suo marito, i tre figli ormai adulti. Perderà i ricordi, ciò che ha studiato, ciò che ha fatto di lei la persona che è. In questo viaggio terribile la accompagnerà la sua famiglia: il cui compito straziante sarà di starle vicino, di gioire con lei dei rari momenti, luminosi e fugaci, in cui Alice torna a essere Alice. E, soprattutto, di imparare ad amarla in un altro modo.
Bestseller internazionale, Still Alice è la storia straordinariamente toccante di una donna che lotta per non perdere se stessa, e ha già conquistato il cuore di milioni di lettori.
★★★★★
Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
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