Gli scrittori della porta accanto

Scrittori si nasce o si diventa?

Scrittori si nasce o si diventa?

Professione scrittore Di Nicolò Maniscalco. Predisposizione alla scrittura: scrittori si nasce o si diventa? Leggere molto è un buon modo per allenare la scrittura, ma da solo non basta. È la creatività innata che fa la differenza. 

La predisposizione è l’essere portati per qualcosa.
I musicisti, con “l’orecchio assoluto”, sono in grado di valutare le frequenze delle diverse note senza l’ausilio del suono di riferimento normalmente utilizzato per accordare uno strumento.  La musica si può imparare ed esercitare con l’abnegazione dovuta ma, se non si è predisposti, difficilmente si raggiungono alti livelli.
Credo che questo valga per molte se non per tutte le attività creative: pittura, scultura, recitazione e, senz’altro, scrittura.
Durante la presentazione di un libro ricorrono spesso le domande: “Come si diventa scrittore?”, “come si comincia a scrivere?” e molte altre dello stesso tenore. Le risposte non sono per niente scontate perché, come già espresso per le altre attività creative, scrittore si nasce. So già che quest’affermazione creerà un certo mugugno (per usare un termine caro alla mia gente), ma essendo convinto della mia affermazione, cercherò di spiegarmi meglio.

Va bene l'esercizio, lo studio, l'allenamento... ma si devono anche avere innate capacità di scrittura.

Come tutte le attività innate, anche la scrittura va allenata per poterla perfezionare, sviluppare, migliorare e il metodo d’allenamento è uno solo: la lettura. Per scrivere bisogna leggere, leggere e ancora leggere.
Secondo me è importante, ma non decisivo, l’oggetto della nostra lettura, purché sia una lettura che permetta la crescita suddetta. Una lettura che guidi e che possa far riflettere lo scrittore in pectore.
Ovviamente lo studio della grammatica, del lessico e della sintassi della lingua nella quale si scrive, è importantissimo ma formata la base, i cosiddetti fondamentali (parafrasando lo sport), occorre allenare la scrittura, appunto.
Tuttavia, tutto questo senza una reale predisposizione alla creatività non “forma” lo scrittore. I sintomi della creatività si avvertono già dallo svolgimento dei primi temi scolastici e solo dopo, leggendo e ancora leggendo, si migliora la scrittura creativa.

Lettera di uno scrittore innato.

Diego Piccardo è un mio amico, anzi è il mio amico di sempre, con lui ho condiviso e condivido vari hobby e attività, tentando anche la scrittura, anche se lui non è costante in quest’attività e, a suo dire, legge poco, ma ha una predisposizione innata per l’espressione creativa. In buona sostanza è uno “scrittore innato” e… non lo sa!
Ora, per meglio comprendere cosa intenda con questo termine, vi trascrivo, senza modificare nulla, un racconto “buttato giù” (come l’ha definito lui) e inviatomi durante un suo viaggio in treno. In realtà si tratta di una lettera un po’ melanconica ma tenerissima, dedicata al nonno.

Non è successo niente di particolare stasera.

Solo il pensiero che va, senza nessun motivo apparente.
Forse è l'inverno, il buio, il freddo o solo un po' di malinconia che arriva improvvidamente e allo stesso modo, va via.
Potrebbe essere il suono del treno ritmico, sempre uguale.
Lo stesso suono che si sentiva fra Ceva e Ormea. Quante volte lo aveva preso quel treno, la nonna. Per più di vent’anni, tutti i venerdì e tutti i lunedì per tornare indietro, a casa, a Genova. Avevano scelto di fare così. Il nonno lassù, al confine fra la collina e la montagna, ma da dove era ancora possibile vedere e farsi abbracciare dal mare e lei a lavorare in città, dove ormai viveva da una vita, dopo aver abbandonato la campagna.
Quelle carrozze avevano percorso milioni di chilometri, trasportando milioni di anime e avrebbero avuto tutta l'intenzione di continuare a farlo ma, molti anni dopo, qualche manager che come obiettivo aveva il guadagno e non la tradizione, aveva deciso che il percorso era troppo costoso da mantenere.

Cosa poteva sapere lui della storia che si respirava sul tragitto della ferrovia?

Avevano viaggiato su quel treno nobili, poveri, soldati, operai, vagabondi, artisti, pastori, poveri diavoli, ladri, puttane e chissà chi altri e tutti avevano ammantato il percorso di odori, parole, immagini e folklore.
Avevano creato senza neppure saperlo, il mito e la storia di quella tratta.
Insieme alla ferrovia era comparso un po' di benessere in quelle terre aspre, abitate da quelle persone ruvide che vivevano di vacche e formaggio, di pesce e di orti, di vino e feste paesane in cui si ballava e si dava qualche pugno, per una parola sbagliata o per una ragazza contesa.
Cosa poteva saperne quel giovane schiavo del soldo?
Niente poteva saperne, ma sarebbe bastato parlare con qualche vecchio seduto all'osteria, indagare nelle pieghe di quei volti e farsi raccontare il perché di quelle rughe, pesanti come i lavori che le loro schiene avevano dovuto affrontare per mettere insieme il pranzo con la cena.
Quegli occhi stanchi ne avevano viste di più di quelle che possono essere raccontate, si erano addormentati nelle casere, svegliandosi il giorno dopo abbagliati dalla neve assolata del Pizzo, avevano guardato quei crucchi bastardi girare le spalle e tornare da dove erano venuti a rovinare la quiete della loro vallata.

Già, perché Ormea era anche terra di partigiani, come mio nonno.

Il suo nome di battaglia era Mauser, "Begna" per gli amici.
Non mi sono mai chiesto come si scrivesse. La scuola mi avrebbe suggerito "Benia" ma preferisco "Begna". Nessun ormeasco si sarebbe piegato al volere dell'accademia della Crusca.
Per me era Begna e sempre sarà così, forse perché lo vedo più adatto ad una persona come lui, rustico e pratico.
Terra di partigiani dicevamo. A 16 anni Mauser era salito sui monti, forse per amor di patria, forse perché era spavaldo, ma il motivo conta poco, più importante è il fatto in sé. Lo aveva fatto. Come lo avevano fatto molti altri compaesani.
Non riesco a immaginare dalla mia adolescenza normale, cosa potesse voler dire dover vivere un'avventura e una missione del genere a quell'età.
Troppo diversi i percorsi e i tempi.
Però una cosa l'ho vista.
Ho visto gli occhi di King Kong. Era un suo compagno di armi.
L'ho visto il giorno del funerale del Begna. Stava lì, con gli occhi rossi e increduli.
Forse quando erano in qualche casa di pietra diroccata a passare la notte, negli anni della guerra, ne avevano parlato.

Avevano immaginato il giorno dell'addio.

Come si può non parlare della morte quando i Tedeschi possono sbucare da un momento all'altro e aprire il fuoco.
"Promettimi che se mi succede qualcosa..." "giura che se mi sparano..." si saranno detti decine di volte mentre condividevano un turno di guardia.
Oppure avranno fatto progetti "quando tutto 'sto schifo sarà finito..." e ancora "alla fine della guerra ci prendiamo una bella macchina" per cercare di convincersi che la normalità era vicina.
Avranno visto cose che per fortuna durante una vita non tutti sono costretti a vedere.
Credo che sia per questo che non ho mai sentito parlare mio nonno della guerra.
Come se quegli anni fossero un segreto talmente terribile da non dover essere tramandato. Aveva sofferto lui per non fare soffrire noi. Credo pensasse questo.
Avevano pagato il prezzo della libertà e la vittoria consisteva nel fatto che noi ce la potessimo godere.
Inutile rinvangare vecchie storie e vecchi dolori.
Non ne parlava nemmeno con King Kong.
Tutti e due avevano un vecchio seccatoio per castagne disperso nel bosco ed era diventato il loro rifugio.

Si erano visti spesso, anche se il suo compagno ormai viveva lontano, ma se si incontravano non parlavano mai di guerra.

Come se ignorarla aiutasse a cancellarla, come se non nominarla potesse tenerla lontana. Mi vengono in mente i bambini che chiudono gli occhi e pensano che nessuno li veda.
L'unica cosa che sapevo è che, al tempo dei partigiani, facevano a gara a chi era più alto. Erano giochi da piccoli uomini in cui il grado, la forza e il coraggio, uniti a qualche buona bevuta, erano un buon modo per sentirsi gagliardi ed andare avanti. Lo sconforto non avrebbe sicuramente portato buoni frutti.
Dopo tanti anni, al funerale, King Kong guardava Mauser che se ne andava.
Immagino pensasse che con tutto quello che avevano passato, sopravvivere alla guerra e godersi la vita per 50 anni, poteva essere anche considerato un successo, ma il distacco era doloroso ugualmente.
Insieme a lui ce n'erano tanti ed io non ne conoscevo nessuno.
Incontravo i loro sguardi che mi davano occhiate sicure e virili. Credo volessero dirmi che dovevo essere orgoglioso di lui, e spero mi volessero dire che lui era orgoglioso di me.
Magari aveva parlato con i suoi amici di quando avevo steso il mio cuginetto con un pugno e all'osteria si erano fatti qualche risata.
A lui piacevano queste cose.
Lui amava di più mio fratello. Lo sapevano tutti e lo sapevo anche io.
Credo non avrei perdonato a nessuno dei miei parenti di fare delle preferenze, ma a lui sì.
A lui si perdonava tutto. Non poteva essere altrimenti.

nonno

Era grande mio nonno, dentro e fuori.

A lui piacevano le macchine vistose, le moto veloci, i cowboys e il far west, amava i polizieschi, amava mia nonna e il suo cane, mia madre e mio padre, amava la vita e amava i treni. Già i treni.
Quelli su cui aveva passato tutta la sua vita.
Aveva cominciato come fuochista e non deve essere stato facile.
Era fiero dei suoi treni. Aveva la foto nel salone di un treno a vapore, chissà, forse era quello di Ormea.
Quello che portava mia nonna tutti i venerdì a Genova, che aveva portato anche me qualche volta in quel viaggio infinito.
Genova, Savona, Ceva, Ormea. I nomi dei piccoli paesi erano diventati familiari Garessio, Nucettto, Eca, Nasagò.
Aveva mani grandi mio nonno e aveva un orologio pesante. Era il suo Bulova.
Quando è morto l'orologio l'ha preso mio padre e lo conserva con orgoglio, ma non lo mette.
Nessuno lo può mettere perché "è l'orologio del nonno".

Aveva un sax mio nonno e ogni tanto lo sentivo suonare, non ricordo se avesse talento, ma aveva allegria.

Aveva amore da dare mio nonno e parlava con il suo cane. Tequila lo ascoltava, ma non dovevano usare parole fra loro. Si guardavano e si capivano e non sbagliavano mai.
Lo vedo ancora cuocere la carne e il riso tutte le sere, mentre Tequila aspetta paziente il suo turno sotto il portico.
Lo stesso portico dove d'estate cantava con mia nonna le canzoni di quando erano giovani.
"Fammi la seconda voce" diceva lui e poi giù a discutere su chi aveva sbagliato canto e controcanto.
Era intonato e simpatico mio nonno.
Poi un giorno tutte quelle cose sono finite.
Non ricordo bene i dettagli della malattia, forse non li voglio neppure ricordare, ma ricordo bene un episodio, qualche giorno prima che se ne andasse. 
Era la prima volta che rimanevo attonito di fronte al dolore. Mi sarebbe successo ancora molte altre volte e le prime volte, di qualsiasi cosa, si ricordano.
Non era più grande, non era più sorridente, non era più spavaldo.
Era debole, sconfitto e indifeso.
Le sue mani erano diventate ossute e il suo sguardo spento.
Avrei voluto che la mia presenza servisse a qualcosa, ma capivo che non poteva essere così. Io lo guardavo e lui guardava me.
Forse anche lui pensava che mi stava facendo male a farsi guardare così, ma credo avesse bisogno di vedermi ancora una volta. Doveva essere così. Io cercavo di non dare fastidio, consapevole che per quante persone ci siano intorno, nella morte si è sempre soli.
Si torna alla terra come al ventre di una madre.
Quanto vorrei che adesso fosse qua, a stringermi la mano, come un uomo. Sentire il rumore del cinghino d'acciaio del Bulova che tintinna, come quando parlando gesticolava.
Potrebbe vedere cosa sono e chissà, essere orgoglioso di me come quando ho steso mio cugino con un pugno.
Ciao Mauser, ciao Begna, ciao Nonno. 

Ecco cosa intendo, per creatività innata.
Nicolò-Maniscalco

Nicolò Maniscalco
L'infinita quantità dei suoi hobbies li rende assolutamente non tutti elencabili, tra questi: l'Agility Dog, che pratica con i suoi amati Border Collie, e la lettura di libri e fumetti.
Dopo anni d’indecisione, inizia a scrivere un po' per gioco un po’ per mettersi alla prova.
Il Labirinto della Memoria, Zerounoundici Edizioni.
Nucleo operativo A5, Selfpublished.


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