Alzo il volume della radio.
Hey babe, your hair’s alright
Hey babe, let’s go out tonight
You like me, and I like it all
We like dancing and we look divine
Provo a cantare per mandare via il pianto, ma vengono fuori le lacrime, più facili della voce. Vengono facili come la pioggia che batte sul vetro, che scroscia più forte e inonda il parabrezza. Aumento la velocità dei tergicristalli.
Sempre così, ogni volta la stessa storia. Alzo la radio. Incrocio un’auto, lampeggia con i fari, ho gli abbaglianti accesi. Maledizione a queste strade senza luci.
Sempre così, ogni volta la stessa storia. Allungo una mano sul sedile del passeggero, cerco la borsa. Frugo dentro, ci deve essere il pacchetto di Marlboro che non ho avuto il coraggio di buttare quando due settimane fa ho deciso di smettere.
Suona il telefono. Se è lui non rispondo. Guardo il display. È la redazione. Non rispondo lo stesso. C’è anche un messaggio. Lo leggo? Non leggo. Alzo il volume.
Rebel Rebel, you’ve torn your dress
Rebel Rebel, your face is a mess
Rebel Rebel, how could they know?
Dove si sono cacciate, devo fumare. Fazzoletti, burrocacao. Frugo. Un altro mi fa i fari. Tolgo gli abbaglianti, li rimetto. Il block notes, i fazzoletti, una manciata di biro… Questa strada tutta curve mi mette ansia.
Non posso credere che lo abbia fatto ancora. Ecco il pacchetto. Infilo le dita sotto la stagnola. Odore di tabacco. Mi scivola giù, sotto al sedile accanto. Provo a prenderlo allungandomi verso il basso ma l’auto sbanda sulla strada scivolosa. Tra il volante e il cruscotto, i tergicristalli impazziti sotto la pioggia torrenziale e una sagoma scura che viene troppo veloce verso di me.
Una sagoma scura che viene verso di me. Troppo veloce.
Una sagoma scura.
Sdraiata sulla spiaggia a pancia in su, mi sento inghiottire da una moltitudine di stelle. O forse sono le luci di una nave smisurata che buca la nebbia e con ostinata lentezza si fa più vicina a ogni istante. È a pochi passi da me quando arrivano le prime voci sussurrate e io mi domando quanto siano lontane, da quale distanza siderale debbano essere partite per raggiungermi adesso qui.
Non ho tempo di formulare questo pensiero che i bagliori intravisti si fanno tremolanti e più fastidiosi, e al brusio di onde e parole in chissà quale lingua si sostituisce un ronzio insistente e ritmico. Martellante.
«Argea!»
Scompare la notte e tutte le stelle, sbiancata da una luce al neon riflessa da muri chiari.
«Argea!»
Socchiudo gli occhi e da cinque bocche o sei la voce di Gualtiero pronuncia il mio nome.
Capisco che è il mio nome perché almeno una decina di occhi mi fissano.
Capisco che è la bocca di Gualtiero perché la riconoscerei tra mille.
Torno alla nave, alle mie stelle. A occhi chiusi le vedo più vicine.
Ci sono altre luci al neon e poi nuovi imbarchi. Voci in dissolvenza.
Istintivamente mi tasto il corpo attraverso il lenzuolo. Seguo il perimetro dei miei fianchi fin dove riesco ad arrivare, per accertarmi d’essere intera. La gamba sinistra è immobilizzata.
«Finalmente amore, sei sveglia… Mi senti? Come stai?»
Nella stanza in penombra Gualtiero si avvicina al letto. Metto a fuoco lui, la sedia su cui era seduto, qualche dettaglio della notte precedente. Solo poche cose: io che guido di notte, la pioggia, la musica alta. E dopo? Fuori dalla finestra intravedo muri e finestre accese e, dietro, il profilo cedevole delle colline torinesi. Piove ancora e il cielo è scuro.
«Dove sono? Cosa è successo?»
Gualtiero cerca la mia mano sotto il lenzuolo, mi dice che siamo all’ospedale Molinette, da ieri, dopo l’incidente. Poi racconta di mia madre, ha chiamato mille volte, dei medici che non hanno dubbi, un paio di settimane, forse poco di più, e sarò nuova. E altre cose, che non sento, perché la mia mente è rimasta a trafficare e a impigliarsi intorno a una parola sola: incidente. Ripasso quello che già so: la notte, la pioggia, la musica alta. Si aggiungono frammenti, arrivano alla spicciolata e si portano dietro un senso di ineluttabile per qualcosa che è accaduto e che la memoria si rifiuta di restituirmi intero. La mia mente inciampa, avvicina e allontana i dettagli come lo zoom di una macchina fotografica che non trova il fuoco.
Non riesco a concentrarmi, forse è paura di ricordare. Forse è il calore della mano di Gualtiero che mi riporta al presente. Paura e amore occupano lo stesso posto, tra stomaco e pancia: ci penso adesso per la prima volta. Devono avere un modo strano di dividersi gli spazi, visto che spesso li sento crescere insieme.
«Da quando sei qui?» domando, forzando la voce.
«Sono partito appena mi hanno avvertito. Eri in stato di incoscienza e un’infermiera mi ha rintracciato attraverso le tue ultime chiamate sul telefonino.»
Vorrei sapere che cosa è successo di preciso, cosa mi sono fatta. A parte un dolore sopportabile alla gamba e alla testa e una stanchezza impossibile, mi sembra di stare benino.
Invece, per un ricordo improvviso, domando: «Ma non dovevi lavorare?».
Gualtiero sorride: «Vieni prima tu».
Non è quello che mi ha detto l’ultima volta che ci siamo sentiti, quando mi ha dato l’ennesima buca. Ma preferisco fermarmi al sorriso. E per non farlo scivolar via, chiudo gli occhi.
«Dormi» mi dice piano. «Io vado in corridoio e chiamo tua madre.» Mi passa una mano sulla fronte ed esce dalla stanza, ma si riaffaccia subito dopo: «Ah, le dico di non venire. A tua madre. Ha l’influenza, meglio che si curi, prima». Si chiude la porta alle spalle.
Non so se siano classificabili come sogni o ricordi, quelli che seguono. Tra gli occhi e le palpebre chiuse si infilano le immagini del primo incontro con Gualtiero. Mi capita spesso.
In giro per Torino, mi sentivo il boscaiolo di latta del Mago di Oz, rigido e con il cuore già in petto che rimbalza a ogni passo, come sassi in un barattolo vuoto. Non vedevo le strade trafficate che si animano nella luce di maggio, non vedevo i passeggeri annoiati in tram, cuffie sulle orecchie e occhi fissi agli smartphone. Ripassavo a mente le cose da dire, le risposte alle possibili domande. Cercavo di controllare il respiro, di dominare l’ansia: avevo esperienza da vendere e non ero certo più una ragazzina. Avrei fatto tenerezza, se lo fossi stata. Ma sulla soglia dei quarant’anni l’ingenuità non è un asso nella manica.
Mi era capitato spesso di parlare davanti a molta gente, faccio la giornalista dai tempi dell’università. Però questa era la prima volta che mi misuravo con un vero pubblico dopo l’uscita del mio primo romanzo. In piedi in un vagone della linea 4, una mano sull’asta di ferro e una alla borsa con la copia del volume, mi lasciavo portare al Salone del Libro.
Due ragazzi seduti poco più in là mi stavano guardando; mi succede spesso, soprattutto quando porto i tacchi e mi vesto con attenzione ai dettagli. Ma forse il fatto è che stavo parlando da sola. Ho controllato il trucco nello specchietto da borsa, il rossetto era a posto. La voce metallica ha recitato Prossima fermata Lingotto Fiere e sono scesa.
Ancora una volta, il Salone. Ho attraversato i padiglioni seguendo le lettere appese al soffitto, aiutandomi con la mappa che mi hanno consegnato all’ingresso e schivando la grande quantità di persone che si attardavano intorno a distese di volumi. Ripetevo mentalmente un mantra utile per restare centrata, perché il caos intorno non intaccasse un residuo di quiete interiore che mi ero guadagnata con anni di pratica e lavoro su me stessa. Intanto marciavo spedita e guardavo tutto come fossi ancora sul tram, diretta alla meta: lo stand del mio editore, che mi aspettava per la presentazione.
Di quello che è venuto dopo ho ricordi parziali. Due pile di Insegui la tua luce sopra un tavolo di formica bianca, più gente di quanta mi aspettassi, un microfono che funziona a singhiozzo. Ricordo qualche risata liberatoria e vagamente isterica, il mio gesticolare eccessivo, la sedia scomoda, sete, mani sudate. Le dita che giocherellano nervosamente con una biro-amuleto recuperata in borsa. Ritmicamente e ossessivamente metto e tolgo il tappo, mentre cerco di articolare risposte sensate.
Ricordo la erre pizzicata di una donna con la mano ossuta levata a mezz’aria: «Perché ha deciso di scrivere un romanzo che ha per protagonista l’allievo di un guru spirituale?». Che domanda è, ho pensato. Poi ho provato a spiegare che tutto era nato un paio d’anni prima a seguito di un’intervista a un seguace di Paramahansa Yogananda. E che mai avrei potuto immaginare che un reportage sullo yoga mi avrebbe portato tanto lontano, tra i sentieri lussureggianti del Bengala, sulle strade contorte del karma.
Hey babe, let’s go out tonight
You like me, and I like it all
We like dancing and we look divine
Provo a cantare per mandare via il pianto, ma vengono fuori le lacrime, più facili della voce. Vengono facili come la pioggia che batte sul vetro, che scroscia più forte e inonda il parabrezza. Aumento la velocità dei tergicristalli.
Sempre così, ogni volta la stessa storia. Alzo la radio. Incrocio un’auto, lampeggia con i fari, ho gli abbaglianti accesi. Maledizione a queste strade senza luci.
Sempre così, ogni volta la stessa storia. Allungo una mano sul sedile del passeggero, cerco la borsa. Frugo dentro, ci deve essere il pacchetto di Marlboro che non ho avuto il coraggio di buttare quando due settimane fa ho deciso di smettere.
Suona il telefono. Se è lui non rispondo. Guardo il display. È la redazione. Non rispondo lo stesso. C’è anche un messaggio. Lo leggo? Non leggo. Alzo il volume.
Rebel Rebel, you’ve torn your dress
Rebel Rebel, your face is a mess
Rebel Rebel, how could they know?
Dove si sono cacciate, devo fumare. Fazzoletti, burrocacao. Frugo. Un altro mi fa i fari. Tolgo gli abbaglianti, li rimetto. Il block notes, i fazzoletti, una manciata di biro… Questa strada tutta curve mi mette ansia.
Non posso credere che lo abbia fatto ancora. Ecco il pacchetto. Infilo le dita sotto la stagnola. Odore di tabacco. Mi scivola giù, sotto al sedile accanto. Provo a prenderlo allungandomi verso il basso ma l’auto sbanda sulla strada scivolosa. Tra il volante e il cruscotto, i tergicristalli impazziti sotto la pioggia torrenziale e una sagoma scura che viene troppo veloce verso di me.
Una sagoma scura che viene verso di me. Troppo veloce.
Una sagoma scura.
Sdraiata sulla spiaggia a pancia in su, mi sento inghiottire da una moltitudine di stelle. O forse sono le luci di una nave smisurata che buca la nebbia e con ostinata lentezza si fa più vicina a ogni istante. È a pochi passi da me quando arrivano le prime voci sussurrate e io mi domando quanto siano lontane, da quale distanza siderale debbano essere partite per raggiungermi adesso qui.
Non ho tempo di formulare questo pensiero che i bagliori intravisti si fanno tremolanti e più fastidiosi, e al brusio di onde e parole in chissà quale lingua si sostituisce un ronzio insistente e ritmico. Martellante.
«Argea!»
Scompare la notte e tutte le stelle, sbiancata da una luce al neon riflessa da muri chiari.
«Argea!»
Socchiudo gli occhi e da cinque bocche o sei la voce di Gualtiero pronuncia il mio nome.
Capisco che è il mio nome perché almeno una decina di occhi mi fissano.
Capisco che è la bocca di Gualtiero perché la riconoscerei tra mille.
Torno alla nave, alle mie stelle. A occhi chiusi le vedo più vicine.
Ci sono altre luci al neon e poi nuovi imbarchi. Voci in dissolvenza.
Quando mi sveglio sento un indolenzimento diffuso.
«Finalmente amore, sei sveglia… Mi senti? Come stai?»
Nella stanza in penombra Gualtiero si avvicina al letto. Metto a fuoco lui, la sedia su cui era seduto, qualche dettaglio della notte precedente. Solo poche cose: io che guido di notte, la pioggia, la musica alta. E dopo? Fuori dalla finestra intravedo muri e finestre accese e, dietro, il profilo cedevole delle colline torinesi. Piove ancora e il cielo è scuro.
«Dove sono? Cosa è successo?»
Gualtiero cerca la mia mano sotto il lenzuolo, mi dice che siamo all’ospedale Molinette, da ieri, dopo l’incidente. Poi racconta di mia madre, ha chiamato mille volte, dei medici che non hanno dubbi, un paio di settimane, forse poco di più, e sarò nuova. E altre cose, che non sento, perché la mia mente è rimasta a trafficare e a impigliarsi intorno a una parola sola: incidente. Ripasso quello che già so: la notte, la pioggia, la musica alta. Si aggiungono frammenti, arrivano alla spicciolata e si portano dietro un senso di ineluttabile per qualcosa che è accaduto e che la memoria si rifiuta di restituirmi intero. La mia mente inciampa, avvicina e allontana i dettagli come lo zoom di una macchina fotografica che non trova il fuoco.
Non riesco a concentrarmi, forse è paura di ricordare. Forse è il calore della mano di Gualtiero che mi riporta al presente. Paura e amore occupano lo stesso posto, tra stomaco e pancia: ci penso adesso per la prima volta. Devono avere un modo strano di dividersi gli spazi, visto che spesso li sento crescere insieme.
«Da quando sei qui?» domando, forzando la voce.
«Sono partito appena mi hanno avvertito. Eri in stato di incoscienza e un’infermiera mi ha rintracciato attraverso le tue ultime chiamate sul telefonino.»
Vorrei sapere che cosa è successo di preciso, cosa mi sono fatta. A parte un dolore sopportabile alla gamba e alla testa e una stanchezza impossibile, mi sembra di stare benino.
Invece, per un ricordo improvviso, domando: «Ma non dovevi lavorare?».
Gualtiero sorride: «Vieni prima tu».
Non è quello che mi ha detto l’ultima volta che ci siamo sentiti, quando mi ha dato l’ennesima buca. Ma preferisco fermarmi al sorriso. E per non farlo scivolar via, chiudo gli occhi.
«Dormi» mi dice piano. «Io vado in corridoio e chiamo tua madre.» Mi passa una mano sulla fronte ed esce dalla stanza, ma si riaffaccia subito dopo: «Ah, le dico di non venire. A tua madre. Ha l’influenza, meglio che si curi, prima». Si chiude la porta alle spalle.
Non so se siano classificabili come sogni o ricordi, quelli che seguono. Tra gli occhi e le palpebre chiuse si infilano le immagini del primo incontro con Gualtiero. Mi capita spesso.
Sono passati più di quattro anni da quel giorno.
Mi era capitato spesso di parlare davanti a molta gente, faccio la giornalista dai tempi dell’università. Però questa era la prima volta che mi misuravo con un vero pubblico dopo l’uscita del mio primo romanzo. In piedi in un vagone della linea 4, una mano sull’asta di ferro e una alla borsa con la copia del volume, mi lasciavo portare al Salone del Libro.
Due ragazzi seduti poco più in là mi stavano guardando; mi succede spesso, soprattutto quando porto i tacchi e mi vesto con attenzione ai dettagli. Ma forse il fatto è che stavo parlando da sola. Ho controllato il trucco nello specchietto da borsa, il rossetto era a posto. La voce metallica ha recitato Prossima fermata Lingotto Fiere e sono scesa.
Ancora una volta, il Salone. Ho attraversato i padiglioni seguendo le lettere appese al soffitto, aiutandomi con la mappa che mi hanno consegnato all’ingresso e schivando la grande quantità di persone che si attardavano intorno a distese di volumi. Ripetevo mentalmente un mantra utile per restare centrata, perché il caos intorno non intaccasse un residuo di quiete interiore che mi ero guadagnata con anni di pratica e lavoro su me stessa. Intanto marciavo spedita e guardavo tutto come fossi ancora sul tram, diretta alla meta: lo stand del mio editore, che mi aspettava per la presentazione.
Di quello che è venuto dopo ho ricordi parziali. Due pile di Insegui la tua luce sopra un tavolo di formica bianca, più gente di quanta mi aspettassi, un microfono che funziona a singhiozzo. Ricordo qualche risata liberatoria e vagamente isterica, il mio gesticolare eccessivo, la sedia scomoda, sete, mani sudate. Le dita che giocherellano nervosamente con una biro-amuleto recuperata in borsa. Ritmicamente e ossessivamente metto e tolgo il tappo, mentre cerco di articolare risposte sensate.
Ricordo la erre pizzicata di una donna con la mano ossuta levata a mezz’aria: «Perché ha deciso di scrivere un romanzo che ha per protagonista l’allievo di un guru spirituale?». Che domanda è, ho pensato. Poi ho provato a spiegare che tutto era nato un paio d’anni prima a seguito di un’intervista a un seguace di Paramahansa Yogananda. E che mai avrei potuto immaginare che un reportage sullo yoga mi avrebbe portato tanto lontano, tra i sentieri lussureggianti del Bengala, sulle strade contorte del karma.
Quarta di copertina
"Un luogo a cui tornare" di Fioly Bocca, Giunti, 2017.
Con il suo stile poetico e delicato, Fioly Bocca ci regala un romanzo, "Un luogo a cui tornare", di profonda umanità sul coraggio di scegliere di amare, nonostante tutto.
''Sempre così, ogni volta la stessa storia'' pensa con rabbia Argea mentre guida veloce per le strade battute da una pioggia torrenziale. Le lacrime che le offuscano la vista, la musica alta, il movimento ipnotico dei tergicristalli.
Poi, all'improvviso, una sagoma scura le si para davanti.
Argea si risveglia in ospedale, accanto a lei c'è Gualtiero, il suo fidanzato, lo stesso che quella sera le ha dato buca per l'ennesima volta. Via via che la mente si snebbia, si fanno largo i sensi di colpa: ha investito un passante? Lo ha travolto con la sua auto?
Solo qualche stanza più in là, nel reparto di terapia intensiva, Zeligo è in coma. Le uniche cose che ha con sé sono una carta di identità scaduta e la foto di un bambino. L'ispettore dice che si tratta di un rifugiato bosniaco, un senzatetto, probabilmente ubriaco. Nessuno viene mai a trovarlo.
Spinta dai rimorsi e dall'inquietudine per una vita che non la soddisfa del tutto, Argea comincia a fare visita a Zeligo e, quando l'uomo finalmente si risveglia, scopre la sua straziante storia.
E' così che viene a contatto con un mondo sommerso, doloroso ma anche libero da ogni vincolo, che la attrae e la spaventa al tempo stesso.
Determinata ad aiutare Zeligo, Argea non sa ancora che, proprio come hanno predetto i tarocchi, grazie a questo incontro tutto nella sua vita è destinato a cambiare.
''Sempre così, ogni volta la stessa storia'' pensa con rabbia Argea mentre guida veloce per le strade battute da una pioggia torrenziale. Le lacrime che le offuscano la vista, la musica alta, il movimento ipnotico dei tergicristalli.
Poi, all'improvviso, una sagoma scura le si para davanti.
Argea si risveglia in ospedale, accanto a lei c'è Gualtiero, il suo fidanzato, lo stesso che quella sera le ha dato buca per l'ennesima volta. Via via che la mente si snebbia, si fanno largo i sensi di colpa: ha investito un passante? Lo ha travolto con la sua auto?
Solo qualche stanza più in là, nel reparto di terapia intensiva, Zeligo è in coma. Le uniche cose che ha con sé sono una carta di identità scaduta e la foto di un bambino. L'ispettore dice che si tratta di un rifugiato bosniaco, un senzatetto, probabilmente ubriaco. Nessuno viene mai a trovarlo.
Spinta dai rimorsi e dall'inquietudine per una vita che non la soddisfa del tutto, Argea comincia a fare visita a Zeligo e, quando l'uomo finalmente si risveglia, scopre la sua straziante storia.
E' così che viene a contatto con un mondo sommerso, doloroso ma anche libero da ogni vincolo, che la attrae e la spaventa al tempo stesso.
Determinata ad aiutare Zeligo, Argea non sa ancora che, proprio come hanno predetto i tarocchi, grazie a questo incontro tutto nella sua vita è destinato a cambiare.
★★★★★
Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
Tutti i nostri incipit:
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