Gli scrittori della porta accanto

Il venditore di metafore, di Salvatore Niffoi

Il venditore di metafore, di Salvatore Niffoi - Gli scrittori della porta accanto

Incipit #140 | Chi fosse in realtà il contastorie di Thilipirches, nessuno in Barbagia lo ha mai saputo veramente.

Il venditore di metafore, Salvatore Niffoi - Gli scrittori della porta accanto

Il venditore di metafore

di Salvatore Niffoi
Giunti
ebook 9,99€
cartaceo 15,30€



Sulle sue origini tutti se ne inventavano una ma di cento non ne valeva nessuna. L’unica che forse aveva trovato il filo che legava le bugie al bozzolo della verità era mannai Nicolosa Longhitta. Lei diceva di aver saputo, da fonte sicura in punto di morte, che un’anima buona lo aveva battezzato di nascosto nella vecchia chiesa sconsacrata di San Sebastiano, e gli aveva dato il nome di Agapitu.
Lo avevano chiamato così per via di don Pippiajolu Vasoleddu e Nannedda Peditorta, nostri antenati che avevano sangue spagnolo nelle vene e che erano sempre vissuti nel peccato. I due amanti, uno prete, noto Conca ’e melone, per quella sua testa allungata a forma di melone invernale, e l’altra una domestica di Dio, nonostante l’età non si erano ancora rassegnati ad abbandonare questo mondo senza lasciare traccia del loro seme. Ogni notte, dopo le carezze, quando si davano l’ultimo bacio prima di addormentarsi, don Pippiajolu le grattava il ventre gonfio come un’ostia ripiena con la punta delle unghie indurite e le diceva:
«Nannedda mea, speriamo che sia un bel maschietto con i riccioli castagnini, che così lo chiamiamo Agapitu, come l’angelo custode del nostro amore segreto».
Mannai Nicolosa Longhitta, che non era femmina abituata a raccontare bugie, lasciava intendere che il contastorie fosse proprio figlio di quel prete e di Nannedda.
A Thilipirches, paese attaccato al culo della montagna come una cavalletta e che per questo si chiamava così, se la carità era un atto di dolore che costava fame e privazione, un nome e una famiglia non si negava a nessuno: per i figli fatti a burdinu, un padre e una madre si trovavano in ogni gargara di muro a secco. Per questo in paese e nelle case sparse tra le campagne tutti giocavano a cercafamiglia, in una morra dove la fantasia rubava sempre il punto alla realtà, scatenando un prurito generale di lingua e testa.

La signorina Beneatta Deaberu, invece, la raccontava alla sua maniera. Un mattino all’alba bussò al portone della caserma dei carabinieri:
«Sveglia, sveglia, che ho bisogno di parlare con il brigadiere Ippolito!».
Il brigadiere, consapevole del fatto che l’amore non corrisposto verso una femmina trasforma la passione in perdiscione, saltò giù dal letto e si mise a bestemmiare in napoletano:
«Mannaggia a’ capa do ciuccio, n’ata vota ’sta granda figlia ’e bucchina!».
«Signor brigadie’, questa notte, mentre guardavo le stelle dalla terrazza, ho visto una palla di fuoco che si è staccata dal cielo ed è caduta sul Monte Pintau, poi è rotolata giù fino alla piana di Sos Tazeris e lì si è fermata e spenta. Vinta dalla curiosità di scoprire se quella era la stella del mio desiderio, mi sono avvicinata, e indovini cosa ho trovato?»
Il brigadiere Ciro Ippolito aprì le braccia e sollevò il mento in un gesto di supplica:
«Mi dica, dica in fretta cosa ha scoperto questa volta, che oggi qui abbiamo un bel da fare!».
«Ho trovato una pietra fumante, liscia come l’ossidiana, che si è sfreddata e ha dato forma a un bambino in carne e ossa. Un bambino in divisa, signor brigadiere, tale e quale a lei, con il suo naso a zufolo, e tre grossi nei come quelli che ho io sulla guancia sinistra. Ha detto di chiamarsi Agapitu, poi, senza aggiungere altro, si è chiuso nel silenzio. Ogni tanto aveva dei palpiti ringhiosi, strani, come se gli mancasse la lingua! L’ho nascosto in una grotta e sono venuta subito da lei, per farle cosa gradita, che magari dopo questa scoperta le aumentano pure i gradi. Vuole venire con me per identificarlo, cosa ne dice?»
«Dico, siente Benea’, mo’ c’hai rutto veramente ’o cazzo, vattenne!»
Di quella segnalazione e di quella grotta si è persa memoria, e la signorina Beneatta Deaberu continua a guardarsi allo specchio cercando di cancellare i suoi tre nei con la cipria nella speranza di attirare l’attenzione del brigadiere Ciro Ippolito.

Quel bambino misterioso, secondo la confessione ricevuta da mannai Nicolosa Longhitta, nacque in un lividoso pomeriggio d’aprile, quando il vento sapeva di rabbia e di sale e tirava calci alle porte, graffiando i vetri con artigli d’astore.

Aveva la testa allungata come un grosso melone
invernale, il naso a zufolo leggermente aggobbato tra la sella e la fronte e, sulla guancia sinistra, tre grossi nei che sembravano disegnati a sfregio dal destino. Quella povera creatura, frutto occasionale dell’umana debolezza che cede alla forza della passione, in paese ciascuno poteva chiamarla come voleva, che tanto il padre, sconosciuto o abigeatario di mutande in cotonina, non si offendeva, e se è per quello neanche la madre, meschinetta, che di sicuro, se non era morta di parto, aveva altro da pensare per camparsi.
A Thilipirches, dove le gelide notti invernali costringevano la gente a dormire sotto tre coperte di lana grezza fino all’arrivo nel calendario di san Giuseppe Lavoratore, gli scemi del paese, i musconazzi, i cantori a battorinas e tutte le vittime scarognate della sfortuna potevano anche concedersi il lusso di nascere senza nome, che tanto il male di vivere ci pensava da sé ad accorciare le distanze tra la terra e le stelle portandoseli via prima del tempo. Ma gli altri, quelli come Agapitu, Pauleddu di Orpische o Cadirina di Melagravida, potevano esistere e non esistere, erano comunque nessuno. Perché a Thilipirches, i burdos, i bastardi veri, un nome dovevano averlo per forza, a costo di comprarselo
o rubarlo da una lapide in camposanto. Agapitu, Sirvone, Crapolu, Merdazzu, Coperciu, Padedda, Cingheddu, Cordiolu, Limbudu, Letranca, Pudesciu: il mercato dei nomi usati e di quelli da inventare era infinito. Dove non bastavano quelli dei santi si prendeva un erbario o un libro degli
animali e il gioco dell’anagrafe era fatto. L’unica certezza era che chi si dava uno di quei nomi lo portava per sempre come una camicia di forza fino alla bara.
Tziu Pascale Fraighinas litigava sempre con mannai Nicolosa Longhitta su questa storia dei nomi, perché secondo lui, a quel bambino con la testa allungata e le orecchie a sfoglia di pane lentu, invece che Agapitu, gli avrebbero dovuto dare il nome di un animale, tipo Muvrone o Crapolu. E tziu Pascale Fraighinas, che era l’uomo più vecchio di Thilipirches – talmente vecchio che, non ricordandosela lui, l’età gliela misurava la gente contando i cerchi rugosi che gli salivano dallo sterno alla gola come tanti collier dorati –, contava più del sindaco, del dottore e del prete messi insieme. Gli bastava però un’occhiata di mannai Nicolosa Longhitta per cucirgli le labbra e fargli chinare la testa.
Oggi, il contastorie con il naso a zufolo e i tre punti neri tutti lo ricordano solo con il soprannome di Matoforu, a conferma che il padre e la madre erano stati in seguito cancellati anche dal registro della parrocchia e chissà quale peste se li era portati via. Si racconta ancora che quando Antioco, il banditore del paese, andò a elemosinare presso la diocesi un nome da dare a quella creatura per conto di Gonaria Rujola, cugina di Nannedda Peditorta, la voce femminina del vescovo Larentu Muschitta, un piscialetto senza cuore che si era nascosto dietro il tabernacolo, rispose:
«Non fa, non fa, caro Antioco! Non fa a questo a dargli un nome e battezzarlo così alla trallalero, sa cosa non caminata, neanche se ne parla!».
La creatura a lungo cercata da don Pippiajolu Vasoleddu e Nannedda Peditorta, in buon mondo siano, anche contro la volontà del vescovo Larentu Muschitta, aveva invece in vita sua molto da camminare e da parlare, anche se qualcuno, un giorno o l’altro, avrebbe voluto tappargli la bocca.
Non a caso Marianna Tumbariola, una femmina con la testa a forma di tabernacolo che passava più tempo in parrocchia che ad aprire le cosce al marito, citando a modo suo san Giovanni Crisostomo, giurava di aver visto, in un calvario sulla collina di San Francesco, tre altari, dove si
consumavano tre grandi sacrifici: uno era il corpo di Gesù, l’altro il cuore di Maria, l’ultimo la lingua mozzata di Agapitu. In udienza privata al vescovo di Noroddile, aveva raccontato come spiritata:
«Qualcuno sapeva che quello doveva diventare un poeta, per questo lo hanno crastato in bocca!».

Quarta di copertina
"Il venditore di metafore" di Salvatore Niffoi, Giunti, 2017.

Ormai viviamo in un mondo di storie, di racconti, di fiction o, come si dice sempre più spesso, di narrazione. Viviamo in un mondo in cui tutto è narrazione. Ma se tutto è narrazione significa che, in fondo, non lo è più niente. Questa idea di narrazione continua e pervasiva ha qualcosa di finto, di artificiale.
Se vogliamo ritornare a sentire il gusto autentico del racconto, il sapore incantato di quando le storie non erano come un’aria diffusa ma, veramente, servivano ad alleviare un peso insostenibile, quello della fatica di vivere, vale la pena raccogliere l’invito di Agapitu Vasoleddu, noto Matoforu, il "venditore di metafore", e lasciarsi guidare dalla sua voce. Eccolo che è arrivato in piazza e promette avventure: "storie per grandi e piccini, mille storie in una sola, tutto il mondo in punta di parola!".
Eccolo che si toglie la berritta, si fa il segno della croce, sale su uno scrannetto di sughero e comincia a raccontare.
E quali storie ci racconta Agapitu Vasoleddu, noto Matoforu?
Quella di un becchino che sta per andare in pensione e il suo ultimo lavoro è il completamento del suo primo: dopo quarant’anni deve sfossare i corpi di due vecchi sposi che si erano molto amati ed erano morti insieme, abbracciati. Scava, scava ma non li trova…
E quella di Juvanna Gravegliu, fiore del fango con la paura dei topi, e di Tziu Ascanio Imbonora, che da contadino volle farsi pastore, e di Aloino Conca ‘e Tavedda, inventore della “macchina cancellapeccati”…
“Fame e lacrime, riso e vino nero per tutti!
Avvicinatevi! Avvicinatevi, prego, non perdete questa occasione per ubriacarvi di parole!”: in questo invito che suona arcaico ma contiene interi modernissimi universi e, soprattutto, mantiene ciò che promette, c’è il senso profondo del raccontare di Niffoi. Storie in cui si alternano la beffa di sapore boccaccesco e il racconto fantastico, il realismo magico e l’horror, il sesso più ferino e l’amore più disincarnato, la bestemmia e la preghiera. Basta leggere le pagine sull’invasione delle cavallette, esemplari, da antologia, per trovarsi di fronte uno degli esiti più alti della narrativa contemporanea.
Non si può negare che la Sardegna di Niffoi sia una terra amata, odiata, indagata e restituita in una sontuosa mescolanza linguistica. Allo stesso tempo non si può negare che l’isola sia, per lui, un microcosmo, un laboratorio dell’intera umanità, nel quale, come mosto, le passioni e le parole fermentano, ribollono e rendono ebbri. Per capire fin dove si possono spingere il bene e il male. Per smemorarsi. E per trovare la forza di continuare a vivere.

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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