Incipit #145 | Normale. Da bambina, sentivo di rado pronunciare il mio nome: Lucia. Per tutti, ero solo ’a picciridda.
«Picciridda veni cca.»«Picciridda pigghia ’a ferla.»
«Picciridda mància ’a pasta.»
Alla fine, ci avevo fatto l’abitudine.
E mi piaceva pure. Un modo familiare per attirare la mia attenzione.
Abitavo in un paese affacciato sul mare, e mi sentivo la figlia della gallina nera. E non una gallina nera qualunque, ma la nera più nera che si potesse immaginare. Starnazzava tutto il giorno, e non le andava nemmeno di fare le uova.
Le bambine fortunate, invece, quelle a cui era capitato un altro destino, erano figlie delle galline bianche. Ma questa è un’altra storia. E si vedeva da ogni particolare che avevamo ben poco in comune: a parte qualche ora condivisa a scuola, le domeniche mattine a messa e il tempo che dedicavamo alle lezioni di ricamo all’oratorio, solo d’estate.
In virtù di quella mia innocente consapevolezza, cercai più volte di evadere dalla galera impiumata nella quale mi trovavo, dove l’afa imprigionava ogni pensiero, ma niente da fare. Dopo quei pochi umilianti tentativi, facevo ritorno alla base. E sotto ai miei occhi – a mo’ di rimprovero – comparivano le due solite ciotole che servivano per le mie più ordinarie necessità. Nella prima, ci trovavo misere manciate di turisco, canigghia, o lattuga sminuzzata, e nell’altra era contenuta dell’acqua, destinata miseramente a bollire sotto al sole. Oltre all’acqua, ahimè, qualche volta, comparivano anche mollichine di pane. Era un castigo, per me, doverle eliminare una dopo l’altra.
Mi lamentavo con Dio della sua distrazione. Non c’era mai quando avevo bisogno di Lui.
Insomma, occorreva rassegnarsi al pollaio, e alle sue pareti grigliate. Piccoli fori esagonali di ferro arrugginito davanti ai quali il mio sguardo rimaneva intrappolato e deluso come non mai.
Tenta ancora picciridda, sarai più fortunata! Giro nuovo, speranze nuove! Quando andavo alle giostre, il signore che mi porgeva il fucile per sparare ai peluche, mi diceva così. E io ci credevo.
Un forte scossone mi arrivò abbastanza presto.
A occhi chiusi, e brancolando nel buio, feci il possibile per non farmi troppo male. Non fui io a decidere, per esempio, che appena adolescente venissi consegnata come un pacco nelle mani di mia nonna. E nessuno si era preoccupato di domandarmi in anticipo: «Sei d’accordo picciridda? Ti va bene così?». Prova del fatto che ciò che pensavo contasse meno di zero in famiglia.
Da quel momento, fui costretta a dare avvio a una nuova fase della mia esistenza, comportandomi come un soldatino alla guerra.
Questo è il primo tassello di un mosaico che ho ricomposto a fatica negli anni: il mio mosaico esistenziale. Frammenti di ricordi che vanno dalle tonalità pastello fino alla tinta nero pece. Il colore che rappresenta le sventure più tragiche.
Anche se non potrò mai scordare il blu del cielo di certe serate in riva al mare a Leto. Quel blu cobalto che obbligava a riprendere fiato, tanto spingeva al turbamento. La sfumatura di ogni segreto nascosto nell’anima; della trepidante attesa della notte, e di ogni brivido acceso dopo un bacio pericoloso.
Superstiti
Il suo primo marito era deceduto in guerra. Da lui aveva avuto un figlio, nato e morto nello stesso giorno. Ma io pensavo, forse commettendo un errore, che i bambini che morivano dopo poche ore dal primo vagito era come se non fossero mai venuti al mondo. Quindi non capivo perché lei si ostinasse a ripetere che aveva avuto un figlio da quel primo marito. Comunque, io la vedevo sicura dei suoi principi, mentre mi elencava la lista con i nomi dei suoi affetti più cari.
Invece, dal secondo marito, che si chiamava Salvatore ed era morto di diabete, di figli ne aveva avuti tre.
Il primogenito, lo zio Santo, era partito per non si sapeva dove, dopo che la moglie lo aveva lasciato per un capriccio, e la nonna viveva sempre nella speranza che presto o tardi l’avrebbe riabbracciato.
In tanti anni, però, Santo non l’aveva degnata nemmeno di uno squillo al telefono, e per donne come lei, piene d’orgoglio e personalità, questo rappresentava una grossa vergogna. E pure un dolore per l’anima.
Poi c’era stata la secondogenita, Giovanna, scomparsa giovanissima. Aveva vent’anni quando una malattia sconosciuta, che si era presentata a colpi di tosse secca e sputi di sangue, le aveva offerto un biglietto di sola andata per il Paese della Luce Eterna. Da allora non avevamo mai smesso di tenere accesi due lumini davanti alle fotografie dei nostri cari estinti.
E infine, si arrivava a mio padre, Giuseppe, che era partito assieme a mia madre, Cettina, per la Germania, sperando di riuscire a combinare qualcosa di buono, in modo da poterci offrire in futuro una vita più dignitosa.
In quattro non si poteva emigrare, però. Troppe spese. E così, facendo una scelta poco democratica, fu deciso che fossi io il capro espiatorio da lasciare in Sicilia. Mio fratello Pietro, che aveva otto anni, salì sullo stesso treno dei miei genitori in un giorno di settembre del 1961.
Jurij Gagarin era partito da qualche mese per un giro nello spazio. E dopo toccò alla mia famiglia. Chissà cosa avrebbero visto i loro occhi lontano da noi. I miei si erano già riempiti di lacrime, come era prevedibile.
La partenza
Tutti lì, in un tardo pomeriggio di fine estate, troppo triste per essere settembre.
Nell’aria si avvertiva la malinconia che caratterizza certi giorni più scuri di altri, nei quali, anche senza un motivo apparente, ti senti afflitto e inquieto, e ne subisci le conseguenze. A me succedeva puntualmente a ogni festa dei Morti. La ricorrenza più mesta di tutto l’anno. E se non fosse stato per l’attesa dei giocattoli che trovavo sotto al letto, lasciati la notte prima dai nostri gentili defunti (così venivano giustificati quei doni tanto agognati), avrei pianto di continuo.
In quell’occasione, per le strade di Leto, si sentiva ovunque l’odore dei crisantemi e della cannella, e i bambini mangiavano biscotti dal sapore amarognolo. Dolci dalle forme tutte diverse, che nell’intento dei nostri pasticcieri volevano ricordare le sagome – vere o presunte – delle ossa di coloro che erano morti per davvero, e che se non stavi attento, ti scheggiavano pure i denti, visto che erano molto duri. Si chiamavano proprio così: l’ossa ’i mottu.
«Ma come fanno a sapere come sono fatte le ossa dei morti, se non si possono vedere?» mi domandavo con un po’ di curiosità e molto impaurita.
Eppure, di quei dolci ne mangiavo a bizzeffe. E mi chiedevo allo stesso tempo perché fosse così importante dedicare tante attenzioni ai nostri defunti, e che cosa rimanesse a noi dei tanti momenti vissuti insieme.
Il rimpianto e la nostalgia, penso adesso. La consistenza dell’amore, che prosegue fedele e non si ferma nemmeno davanti alla negazione di una presenza.
Il giorno in cui i miei partirono, io non mangiavo ossa di morto, ma sentii piombarmi addosso una tristezza troppo assurda per chiedere a me stessa di sopportarla.
Avevo come la sensazione che la terra mi si stesse aprendo sotto ai piedi. E né la nonna, né i miei, né tantomeno la zia Franca e suo marito se ne stavano accorgendo. Ferma a guardare, diventavo sempre più simile a una mummia, perché sapevo che stava per avvicinarsi l’odioso rito dei saluti definitivi. E, concentrata, cercavo di imprimermi negli occhi ogni gesto dei miei genitori, per non pentirmi poi di non averlo fatto.
Odiavo già la Germania, compresa quella lingua incomprensibile che la rappresentava. Le poche parole che avevo sentito qua e là, pronunciate dai turisti tedeschi sulla spiaggia o sul lungomare, mi erano arrivate ostili e dure all’orecchio. E sempre la Germania era stata teatro della morte ingiusta di una ragazzina di nome Anna Frank. Di lei, avevo letto un libro molto commovente: il suo Diario, prestatomi da un’amica della zia Franca, che mi aveva appassionata sin dalle prime pagine. In quelle righe, scritte con minuzioso impegno, avevo scoperto soprattutto la brutale realtà delle deportazioni.
Dunque, la mia famiglia si stava dirigendo verso un destino cupo, un mondo sconosciuto fatto di ja e nein, ma forse più nein che ja.
Quel pomeriggio riuscii a dire poco. Le parole venivano fuori con uno sforzo enorme, compresse dal peso della mia pena. Solo i miei occhi continuavano a girare inseguendo i movimenti di loro tre, che da lì a un soffio avrei salutato per sempre.
Quando si hanno undici anni, quasi tutto è per sempre. Se poi la tua famiglia sta per emigrare in un paese straniero, e siete ai saluti su un binario della stazione, per sempre è l’unico concetto possibile.
Il tempo aiuta ad accettare molti distacchi, ma non garantisce risultati certi. Semmai, prova a illuderci, facendo acquietare la nostra smania di ritornare indietro. Sarei stata beneficiata anche io da quel miracolo desiderabile?
Quarta di copertina
"Picciridda" di Catena Fiorello, Giunti, 2017.
Cosa può mai accadere a una picciridda che nei primi anni Sessanta vive in un minuscolo villaggio di pescatori, Leto, lungo la costa tra Messina e Catania? Può accadere, ad esempio, che i genitori si trovino costretti a emigrare in Germania in cerca di fortuna e che decidano di portare con sé solo il più piccolo dei due figli, affidando "la grande", pur sempre picciridda, alla nonna paterna. È quello che accade a Lucia, l'irriverente protagonista di questo romanzo, che vive la sua condizione di figlia di emigrati sentendosela addosso come un marchio negativo. È consapevole, Lucia, che per lei - e per tutti coloro che non hanno fortuna, che sono "figli della gallina nera" - la necessità implica sacrificio e rinunce. Lo sa bene. Lo dicono tutti. Lo ripete la nonna, così burbera e austera. Ma col passare dei mesi, tra feste di paese e pomeriggi in riva al mare, l'esistenza di Lucia si popola di persone e di affetti: le zitelle Emilia e Nora, la professoressa Aida, la compagna di classe Rita. Ci sono anche gli uomini, misteriosi e taciturni, un mondo da cui stare alla larga (come dice sempre la nonna) o tutto da scoprire (come sente Lucia). E proprio uno di quegli uomini nasconde un terribile segreto a cui Lucia si avvicina sempre più, ignara di ciò a cui andrà incontro...
★★★★★
Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
Tutti i nostri incipit:
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