Gli scrittori della porta accanto

Una piccola fedeltà, di Luca Saltini: incipit

Una piccola fedeltà, di Luca Saltini: incipit

Incipit #153 | Sul davanzale della finestra c’è un vaso di gerani.


Una piccola fedeltà

di Luca Saltini
Narrativa
Giunti
ebook 9,99€
cartaceo 15,30€



Ci ho affondato le dita per sentire ancora una volta l’odore della terra, per vedere le mani sporcarsi di nero, anche sotto le unghie. Ho frantumato il terriccio sul palmo e l’ho avvicinato al naso tenendo gli occhi chiusi. Lei è arrivata subito. È entrata nella stanza senza fare rumore, sfiorando appena il pavimento con i piedi nudi. Guardava i palazzi fuori dalla finestra, come se vedesse ancora i campi dietro la casa. Nella trasparenza dei suoi occhi li ho rivisti anche io, in leggera pendenza, lungo la costa della collina, con l’erba alta mossa dal vento e l’orto dove per la prima volta avevo affondato le mani nella terra. Ho sentito anche il vento, quando i suoi capelli lunghi si sono sollevati sulle spalle. Forse avrei persino potuto toccarla se solo avessi avuto il coraggio di allungare il braccio per sfiorarle le dita. Ma non ho osato farlo perché non so se ho ancora il diritto di trattenerla accanto a me. Eppure quella sua presenza diafana dentro la stanza mi è apparsa come la cosa più concreta che riuscivo a vedere dopo tanto tempo.
Ogni giorno diverse persone vengono a trovarmi, stanno qui, si interessano delle mie condizioni, ma appaiono lontane, quasi non esistessero e fossero soltanto proiezioni della mente. Lei invece era davvero accanto a me. Tornava con la sua bellezza irraggiungibile, concreta e mia, ancora una volta. Forse il tempo può essere piegato. Se la nostra volontà è abbastanza forte, se con tutto il nostro animo siamo in grado di desiderare davvero di cambiare le cose, diventa in qualche modo possibile tornare indietro. Così io questa mattina ero ancora l’uomo che ero quando l’ho incontrata la prima volta. Sul suo volto però è apparsa subito un’ombra e un’improvvisa stretta al cuore me l’ha portata via. Mi sono ricordato chi sono. Ho sentito di nuovo la dimensione del tempo, la sua forza che impedisce di mutare gli eventi del passato, ma ha il potere di proiettarli comunque sulle nostre coscienze. Mi sono chiesto perché fosse tornata proprio adesso, ora che le mie mani sono capaci di stringere soltanto un’ombra. Eppure il mio sentimento per lei è integro, furibondo come lo fu allora, disperato, quasi i decenni abbiano fiaccato soltanto il corpo, non l’anima, immune, ferma a quel passato orribile e gioioso, dove non si è giocata soltanto la nostra storia, ma tutta la mia vita.
Mi sono sollevato sulla sedia, con grande affanno. Ho rimesso il terriccio nel vaso di gerani. Quando ho riaperto gli occhi, lei se n’era andata. Sentivo ancora la sua presenza, ma anche l’odore acre del petrolio e la forza violenta che l’istinto per gli affari continua ad esercitare su di me. Un richiamo cui non posso sfuggire, nemmeno con la sua voce nelle orecchie come la cera in quelle di Ulisse. Troppo forte il grido di quelle sirene. Anche adesso che sono malato. Cerco di concentrarmi per cacciare il pensiero di lei, ma non posso farlo.
Oltre la finestra, il sole sta diventando bianco. Lo immagino, in realtà, perché vedo solo le facciate dei palazzi e, in alto, il cielo che si colora, come quando lo osservavo da ragazzo. La luce si distende sulle cose esattamente come faceva sulla terrazza della mia giovinezza. Brilla allo stesso modo, con la stessa insistenza e non le importa se colpisce il volto giovane di un ragazzo seduto su un balcone o quello di un vecchio signore che può permettersi il lusso di crepare in una clinica del centro di Milano, un posto esclusivo di pareti chiare, personale silenzioso, posate d’argento. Il sole non fa differenza. La sua luce d’oro filtra da quella tapparella e corre sul pavimento come una pennellata.

Berrei volentieri dell’acqua. Ma non so se riesco ad alzarmi.

Anche da ragazzo rimanevo bloccato in una stanza, davanti a mio padre che parlava a lungo a me e mio fratello. Noi lo guardavamo coi nostri occhi di adolescenti svogliati, mentre respiravamo di nascosto il profumo degli alberi fioriti oltre le finestre. Nostro padre se ne accorgeva, ma faceva finta di niente. Preferiva restare concentrato sulla sua missione educativa, insistere sulla necessità per noi di farci una cultura il più possibile completa, elevata, libera da arcaismi e pregiudizi. Tutto quanto era accaduto all’Italia – la dittatura, la guerra – tutto dipendeva dalla mancanza di coscienza, dall’assenza di senso critico. Noi invece l’avremmo avuto grazie alla sua costante lotta ideale, volta a ricordarci il nostro dovere verso il bene comune, verso il ruolo che avremmo dovuto assumere una volta diventati adulti.
Mio padre parlava, sapendo di non essere ascoltato, sempre più indispettito per i nostri occhi lanciati oltre il balcone dove cadeva un po’ di sole, in fuga verso un parco da cui sentivamo salire i colpi sordi di un pallone preso a calci. Io sapevo però che, nonostante facessi di tutto per impedirlo, quella pedagogia scavava dentro di me in modo implacabile, riempiendomi del suo dannato senso del dovere. Mi obbligava a un lavoro costante, allo studio, all’impegno, a non mollare mai, come se davvero avessi un obbligo verso questa società, verso questo paese, prima ancora che verso me stesso. Era riuscito a farmi crescere dentro un continuo rimorso che bruciava soprattutto quando le cose mi andavano bene, come se un buon risultato ottenuto fosse una colpa, qualcosa di cui non ero degno.
In autunno mio padre ci portava in una sartoria da uomo. Ci faceva confezionare un paio di abiti grigi, seri, da portare con scarpe lucide, perché la consapevolezza verso la nostra missione sociale passava anche dall’abbigliamento, dal modo in cui ci ponevamo nei confronti di noi stessi e degli altri. Dovevamo stare vestiti così anche in casa, anche quando studiavamo la domenica pomeriggio.
Mio padre usciva, andava a visitare i malati di alcune famiglie indigenti. Non perché gli importasse di loro, ma perché quel gesto serviva a compiere il suo ideale di società giusta. Io e mio fratello rimanevamo in casa a leggere, a studiare il greco antico, mentre nostra madre stava lì, conciliante e determinata, a guardare il sole allungarsi sul tavolo del terrazzo.
Il fascio di luce che taglia la tapparella adesso si è ingrossato. È largo almeno mezzo metro. Ha perso i riflessi dorati. È scivolato sul bianco, un’uniformità chiara. Investe gli oggetti, li avvolge di un’intensità fastidiosa che li rende inguardabili, come tanti specchi che deviano i raggi del sole dentro il mio sguardo. Mi pare di vederla anche sul soffitto, quasi un doppio meno potente, la traccia di un serpente nella sabbia. Mi dà fastidio tutta questa luce.

Quarta di copertina
"Una piccola fedeltà" di Luca Saltini, Giunti, 2018.

Una piccola fedeltà di Luca Saltini è un romanzo appassionante, di ampio respiro, che narra il dissolversi di una limpida storia d’amore nella irrefrenabile bramosia di ricchezza di un uomo negli anni della dittatura di Ceau­sescu. Achilina è una donna molto forte: Vive in Romania ed è costretta a subire la passione di un funzionario del regime, Viktor Janku, venditore del petrolio di Stato, corrotto, ricattatore.
Achilina è una donna molto forte e non può sottrarsi, ma lo disprezza senza nasconderglielo, e Janku trova il modo di riscattare il proprio orgoglio esibendola come un trofeo e allo stesso tempo umiliandola alla presenza di uno straniero con il quale fa affari. Si tratta del trader italiano Augusto Castiglioni, determinato ad arricchirsi e a sfruttare tutte le possibilità offerte dal petrolio rumeno. L’uomo accetta la situazione per opportunismo e perché lui stesso subisce il ricatto di Janku e, pur essendone disgustato, non riesce a uscire da questo gioco perverso. Anzi, il fascino doloroso, ma fiero e indomito, di Achilina non può che bruciare anche lui, rendendo il gioco anche terribilmente pericoloso.
È Castiglioni a raccontare la storia, a distanza di anni, ormai anziano e recluso in una clinica di lusso nella quale sta aspettando di scoprire quale sia la natura della misteriosa malattia che lo ha colpito e lo sta paralizzando.
Una distanza non solo temporale e geografica da una dittatura che non c’è più e da un’epoca profondamente mutata. Oggi Castiglioni è prigioniero di un letto come allora lo fu di un mondo, ma i suoi fantasmi tornano a visitarlo, a chiedergli ragione delle sue scelte e a rivelargli quanto ancora non sa o non ha compreso, perché il senso profondo della nostra vita a volte fa lunghi giri prima di illuminarsi all’improvviso.
Popolato di personaggi memorabili e complessi, a volte sinistri e a volte degni di pietà, questo romanzo scuote e commuove. I grandi amori, i grandi gesti impegnano, turbano, devastano, ma qualche volta la salvezza arriva da dove proprio uno non se l’aspetta, da una piccola fedeltà.

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

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