Gli scrittori della porta accanto

L'Abruzzo luminoso e aspro di Donatella Di Pietrantonio

L'Abruzzo luminoso e aspro di Donatella Di Pietrantonio

I luoghi dei libri | Di Ilaria Biondi. L'Appennino abruzzese e la campagna alle sue pendici, fra ulivi e vigne, in Mia madre è un fiume, di Donatella Di Pietrantonio.

Nel cuore del tempo immobile e antico dell’Appennino abruzzese si muovono le note lievi e aspre della storia di Esperia Viola, detta Esperina, il cui nome evoca la figura silvestre di una carbonaia dalla chioma zingara che rubava cuore e ardore dei maschi di famiglia.
Il breve appeso con cautela al suo piccolo collo di neonata l’ha preservata dal morso ingordo delle streghe, ma non ha salvato la misura della sua memoria anziana, che si discioglie ogni giorno sotto i guasti di una malattia avida e ingrata.
Esperina negli anni lascia le erbe, i fiori, le cortecce ruvide e il vento bruno della sua montagna, per andare a vivere a valle insieme alla sua nuova famiglia. Ma l’odore caldo dei campi e delle stalle, il soffio luminoso della pietra, la traccia silenziosa della zolla magra sono aggrappate alle sue vene. Il suo pensiero consapevole si smarrisce in rivoli di pulviscolo confuso, ma il suo sangue stringe fra le braccia il fieno, il grano, i fossi, le ragnatele e la farfalla carabiniera che hanno accompagnato le sue ore di bambina prima e di fanciulla poi, coraggiosa, povera e sempre affaccendata ad accudire le sorelle più piccole.
Nella sua pelle è impresso il guizzo soleggiato delle fragoline di bosco e delle more dal sapore turgido e lucido, giù per la gola.
Stavi dove nasce il vento, un posto luminoso e aspro, con le montagne a fare da quinta. Era aspra anche la gente.

Giorni scanditi dalla fatica del prendersi cura di campi magri e avari. 

Giorni scanditi dal tempo lento, sempre uguale e sempre nuovo della natura e delle sue creature. Lavare i panni al fiume. Lavare le pecore. Mondare il grano. Ammazzare il maiale: giorno lieto d’abbondanza, annerito dalle lacrime mute e dal lamento angosciato dell’animale.
Quei sentieri di campagna, dove l’acqua pudica del torrente serpeggia accanto al boschetto di faggi, accolgono gli incontri furtivi tra Esperina e il suo giovane futuro sposo Cesare, nell’equilibrio sospeso delle stagioni.
Un vestito semplice, un cappottino bianco, il corredo infiocchettato, alcuni agnelli e polli vivi, la chiesa di Santa Sinforosa profumata d’incenso. Una raggiante Esperina, pronta a incamminarsi sul sentiero della sua nuova vita, insieme al suo Cesare. Pronta a solcare nuovi terreni, non meno ruvidi di quelli ai quali ha regalato le proprie ore giovani.
Terra povera, ancora, fatta di campi scoscesi, alcuni molto lontani fra loro.
Una terra misera, che esige sudore, tenacia e coraggio. Ma una terra che non tradisce, scoglio fermo nel quale affondano le radici dell’anima.
La precisione dei solchi tracciati da altri, l’immobilità rassicurante della terra.

Mia madre è un fiume

Mia madre è un fiume

di Donatella Di Pietrantonio
Elliot
ISBN 978-8861925663
Cartaceo 10,62€ | Ebook 2,49€

Terra che accompagna anche i passi della figlia di Esperina e Cesare, la sua scoperta del mondo. 

Le camminate mattutine attraverso il bosco di querce e faggi, sbirciando la presenza di funghi, la comparsa furtiva delle volpi, il tappeto morbido del muschio e i colori tenuamente sgargianti di primule e ciclamini
I pomeriggi al pascolo con le pecore, a sorvegliare le bestie ghiotte di trifoglio novello e di dispetti e a nascondere le lacrime tra i cespugli di rosa canina, quando Esperina la rimbrotta (un legame dolente e “storto” il loro, che percorre le strade impervie dell’incomprensione, dell’affetto inseguito, dell’amore affamato e concesso con dolente parsimonia).
Le serate trascorse dai vicini e il ritorno chiassoso a casa, sfiorando la voce silente degli alberi.
Si tornava a piedi, disturbando il sonno del bosco con commenti e canzoni subito ricanticchiate.
Un’esistenza, quella della figlia di Esperina (la voce narrante del romanzo, che presta alla madre malata i pezzi vividi e accesi della propria memoria), che scorre con semplicità spartana, ricalcando quella delle proprie antenate. Donne forti e indomite, che hanno assorbito nell’anima e nella pelle l’austera ritrosia e la tenace capacità di resistere delle montagne in cui sono nate e cresciute. 
Un’esistenza che, nei primi anni di vita, si divide tra la casa dove manca l’acqua corrente e la piccola scuola, che fronteggia i rigori dell’inverno con una grande stufa di terracotta.

Poi, il trasferimento in una casa colonica nel comune di Atri. L’abbandono della montagna. 

Il sogno del marito di Esperina di vivere in una campagna dalle curve morbide e dolci, fra ulivi e vigne, a coltivare la terra grassa e generosa delle colline. Un nuovo percorso, meno faticoso, non più in groppa a quelle pietre ruvide, ma accoccolati ai loro piedi. Quelle pietre che però, seppur più lontane, continuano con il loro abbraccio discreto a vegliare sui loro pensieri e i loro sogni.
Le stesse montagne per orizzonte, con il profilo del Gigante che Dorme o Bella Addormentata, dipende dai gusti, le cui lunghe chiome rocciose digradano verso l’ascolano. Erano un po’ più distanti adesso, da poter guardare meglio il tramonto invece che farselo accadere sopra la testa.
E da quelle montagne di tanto in tanto sfugge un vento ardito che scompiglia, capriccioso e impertinente, le chiome degli alberi laggiù in campagna, dove matura un’uva appiccicosa che carezza la bocca col suo sapore dolcemente carnoso.
Soffia il vento. […] Durerà poco, è un vento giallo e senza speranze, scappato per caso da una porta della montagna. Già il bosco madre lo risucchia dentro, come un bambino disubbidiente. Mi piace quando smette, la campagna tira un sospiro di sollievo e si riprende piano dalla spossatezza. Le piante spettinate si raddrizzano nella postura abituale, le foglie sottosopra ruotano attorno al picciolo, verso il sole.

Quel soffio impetuoso che scende dal ventre delle rocce sembra voler ricordare a Esperina e alla sua famiglia che la montagna è sempre là, muta presenza indocile e fiera che custodisce segreti arcani e una forza selvaggia e ribelle.

Montagna alla quale appartengono anche gli animali, con la loro insopprimibile voglia di libertà: le placide mucche, finite in “ergastolo nella stalla” e private dei campi in fiore, regalano ora un latte insapore, e le capre cocciute, tristi e incapaci di rassegnarsi a vivere lontano dal selvatico e dalle spine di latte ne fanno poco, pochissimo.
La capra non bela, canta. E loro non cantavano più.
Montagna alla quale il cuore della figlia di Esperina resta appeso, anche dopo tanti anni di lontananza. Montagna alla quale la giovane donna ritorna, insieme al suo bambino, per constatare con pungente malinconia lo stato di rovina della vecchia abitazione.
Quella casa dalla quale, insieme al nonno paterno, spiava attenta e curiosa gli orli delle nuvole e la mappa misteriosa della volta celeste.
Mi ha insegnato il nonno Rocco. A leggere le nuvole, il vento. Gli andavo vicino sul terrazzo e lui interpretava ad alta voce il cielo del tramonto per me, prevedeva il tempo del giorno dopo. All’oscuro dei punti cardinali, usava come riferimenti le montagne e le colline.

La Natura, che riprende vigorosa i suoi spazi, protegge con il proprio manto aggrovigliato il respiro segreto della casa e di chi ha vissuto fra quelle pareti.

C’è un silenzio lì adesso, senza di noi. Solo folate di aria, uccelli, ronzio d’insetti.
È lì, tra le pietre scoscese bagnate di affanno e genuina allegria e nel cuore graffiato della figlia di Esperina, che la memoria smarrita della donna si annida e si nasconde, composta e impaurita.
È nelle parole salde e nel profumo tenace delle viole che la sua memoria tremolante torna a vivere, ogni giorno. Trasportata dalla carezza del vento e dal bagliore caparbio delle lucciole…
Vuoi che ti racconti tutto dal principio, adesso. Comincio subito, mi trovo qui per questo. Tu sei Esperina Viola, mia madre. Come una viola sei nata il venticinque marzo millenovecentoquarantadue, in una casa al confine tra i due piccoli comuni di Colledara e Tossicia.

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Ilaria Biondi
Laurea in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Bologna. Durante il Dottorato di Ricerca in Letterature Comparate vive per lunghi periodi in Francia. Si occupa di traduzione letteraria e critica della traduzione, di letteratura francese e belga (in lingua francese) e letteratura tedesca dell’Ottocento. È appassionata di letteratura fantastica , science-fiction, letteratura al femminile, di viaggio, per l’infanzia e poesia.
Raymond Radiguet. Giovinezza perduta, eterna giovinezza, Delta Editrice.
In canti di versi, Il papavero.


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