Gli scrittori della porta accanto

Adua, di Igiaba Scego: incipit

Adua, di Igiaba Scego: incipit

Incipit #172 Sono Adua, figlia di Zoppe.


Adua

di Igiaba Scego
Narrativa
Giunti
cartaceo 11,05€
ebook 4,99€


Oggi ho ritrovato l’atto di proprietà di Laabo dhegah, la nostra casa a Magalo, nella Somalia meridionale. Era nascosto in una vecchia valigia di peltro che tenevo in magazzino, era in quel posto da secoli e io non me ne ero mai accorta.
Ora sono in regola. Ora se voglio posso tornare anch’io in Somalia.
Ho una casa e soprattutto un documento ufficiale dove c’è scritto che è appartenuta a mio padre Mohamed Ali Zoppe, quindi è mia.
Finalmente potrò sgomberare gli abusivi che l’hanno occupata in questi tristi anni di guerra.
Laabo dhegah, significa due pietre in italiano. Uno strano nome per una casa, forse non tanto di buon auspicio. Ma non me la sentirei di cambiarlo ora. Non avrebbe proprio senso cambiarlo. Con quel nome è nata e con quel nome è destinata a esistere.
La leggenda vuole che mio padre, Mohamed Ali Zoppe, abbia detto: «Queste sono le due pietre, i laabo dhegah, su cui costruirò il mio avvenire».
Chissà se l’ha detta veramente quella frase. Suona un po’ biblica.
Sta di fatto che ormai la leggenda si è impiantata nei nostri cuori e, anche se a scapito della verità, devo dire che le siamo affezionati in famiglia ormai.
Ogni notte prima di addormentarmi mi chiedo se potrò pure io, come mio padre, costruire nella nostra terra il poco di avvenire che mi è rimasto.
Ho detto a Lul se ci buttava un occhio a Laabo dhegah visto che sarebbe partita subito da Roma.
Le ho detto: «Ti prego. Conto su di te, abaayo, per conoscere ogni minimo dettaglio della mia casa che fu».
Era una giornata ventosa, i nostri foulard ballavano sull’architettura di Roma Capitale.
Io l’ho abbracciata e le ho detto: «Non ti scordare di Laabo dhegah, non ti scordare di me, sorella».
Non ha fatto promesse solenni.
Lul è stata la prima delle mie amiche a tornare. Mi ha chiamato dopo una settimana che stava a Mogadiscio, e mi ha detto «l’aria odora di cipolla». Non mi ha detto molto altro. Io le ho fatto domande su domande. Volevo sapere se era davvero cambiato tanto il nostro paese e se noi che da più di trent’anni viviamo fuori avremmo potuto legarci di nuovo alla nuova, nuovissima Somalia della pace.
«Ci crollerà il sogno?» le chiedevo. «Ce la faremo a viverci?» la incalzavo.
Lul però non ha risposto. Al telefono ripeteva «business», «money». Continuava a dirmi che il tempo di fare affari era ora, non domani. Ora il tempo dei denari. Ora il tempo dei guadagni.
«È la pace, bellezza,» ha sogghignato «se ci tieni alle tue due pietre, vieni.»
La pace. Prima di agosto credevo che la parola “pace” fosse una parola bella.
Nessuno mi aveva detto che “pace” è, di fatto, una parola ambigua.
Nel 1991 è scoppiata la guerra civile nel mio paese. Nel 2013 sta scoppiando la pace.
Hip hip hurrà!
Business è diventata l’idea fissa di tutti i somali.
Di Lul…

Ma io sono ancora a Roma e da qui mi sembra tutto così strano.

Mi piace Roma d’estate, soprattutto la sua luce di sera, sul far del tramonto, è calda, e anche i gabbiani diventano più buoni e viene voglia di abbracciarli. Sono i padroni delle piazze, ma qui ci sei tu, elefantino mio, e loro non si azzardano. Via, state lontano da piazza Santa Maria sopra Minerva! Mi sento protetta vicino a te. Qui sono a Magalo, a casa. Anche mio padre aveva le orecchie grandi, ma lui non mi ha mai saputo ascoltare, né io sono mai riuscita a parlarci. Con te è diverso. Per questo ringrazio Bernini di averti creato. Un piccolo elefante di marmo che sostiene l’obelisco più piccolo del mondo. Uno stuzzicadenti. Non offenderti se ti dico questo. Lo sai, io ho bisogno di te.
Lul è partita e non so ancora se la ritroverò. Ma tu me la ricordi. Sai ascoltare. Ho bisogno di essere ascoltata, altrimenti le parole si sciolgono e si perdono.
«Guarda la negra, parla da sola» dicono i passanti e ci indicano. Ma noi non badiamo a loro. Ci intendiamo a meraviglia io e te, dopotutto veniamo dall’Oceano Indiano. Il nostro oceano di magia e profumi. Oceano di separazioni e ricongiungimenti. Sei un errabondo, come me.
Ora è Lul a respirare il tanfo di tonno del nostro oceano.
A bere shai addes. A dare ordini trattando in malo modo le persone pensando che tutti siano i suoi adon.
La conosco Lul, è una brava ragazza e proprio per questo è la più perfida delle streghe.
Lul è in cima ai miei pensieri. Che starà facendo ora la mia amica in Somalia? In quale business si è ficcata alla fine?
E se la raggiungessi davvero? La valigia è pronta, non l’ho mai disfatta.
È pronta dal 1976. Dovrei prenderla e poi caricare il mio stanco corpo su un aereo per Ankara e da lì volare dritta dritta verso Mogadiscio.
Ma sto sognando a occhi aperti.
Ieri ho incontrato sul tram una ragazza. Era nera, rasata e con le cosce grosse. Eravamo sul 14, allo svincolo per Porta Maggiore. Mi fissava fin dalla stazione Termini. Ero infastidita dal suo sguardo puntuto. Avrei voluto voltarmi e dirle «Basta». Mischiare la lingua madre all’italiano di Dante e fare una di quelle belle scenate che vivacizzano il viaggiare sui mezzi pubblici a Roma. Avrei voluto essere volgare e debordante. Mi andava una bella scenata, così non avrei più pensato a Lul, a Laabo dhegah, alla strana pace somala. Ma poi la ragazza è stata furba. Mi si è avvicinata lentamente e senza quasi preavviso mi ha sparato la sua domanda: «Sei Adua, vero? L’attrice? Io l’ho visto il tuo film». E poi dopo una pausa di quelle studiate ha aggiunto: «Lo sai che fai impressione?».
Ero sgomenta.
Il mio film? C’era davvero qualcuno che si ricordava ancora di quel film?

Stai composta, Adua.

Togli quei gomiti dal tavolo. E asciugati quella bocca sudicia. La schiena dritta, per Dio. Perché te ne stai tutta floscia? Hai le mani zozze, lavatele subito, se no ti bastono. È questo il modo di guardare tuo padre, Zoppe, screanzata? Sei come tua madre, Asha la Temeraria, quella poco di buono. Tua madre, quella troia, che è morta lasciandomi qui solo con il mio amore. Come si è permessa di morire? Eh? Come si è permessa? Maledetta femmina! E tu? Morirai pure tu? Hai gli stessi occhi suoi, non li sopporto! Ma vedi come ti aggiusto io. Con me non si scherza, si riga dritto, ragazza. Ora la musica è cambiata, non è come nella boscaglia, dove ti viziavano. E, se non ubbidisci, lo sai cosa ti succede, sì? Ecco, allora stai dritta con quella schiena e per carità non piagnucolare. Mi urti i timpani. Zitta. Ecco, stai zitta!

Quarta di copertina
Adua, di Igiaba Scego, Giunti, 2018.

Igiaba Scego nel suo romanzo ci racconta la storia di una donna matura, Adua, che vive a Roma da quando ha diciassette anni. Adua è una Vecchia Lira, così i nuovi immigrati chiamano le donne giunte nel nostro paese durante la diaspora somala degli anni Settanta. Ha da poco sposato un giovane immigrato sbarcato a Lampedusa e ha con lui un rapporto ambiguo, fatto di tenerezze e rabbie improvvise. Adua è a un bivio della sua vita: medita di tornare in Somalia, paese che non ha più visto dallo scoppio della guerra civile. Ormai è sola Roma (la sua amica Lul è già rientrata in patria), per questo confida i suoi tormenti alla statua dell’elefantino del Bernini che regge l’obelisco in piazza Santa Maria sopra Minerva. Piano piano racconta a questo amico di marmo la sua storia: suo padre Zoppe, ultimo discendente di una famiglia di indovini, lavorava come interprete durante il regime fascista e negli anni Trenta baratta involontariamente la sua libertà con la libertà del suo popolo. Adua, fuggita dai rigori paterni e dalla dittatura comunista, approda a Roma inseguendo il miraggio del cinema.
Romanzo a due voci, quella di un padre e di una figlia, Adua indaga il loro rapporto impossibile e ci racconta il sogno di libertà che ha consumato in modi e tempi diversi le vite di entrambi.

★★★★★

Il buon giorno si vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?

Tutti i nostri incipit:




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