Gli scrittori della porta accanto

Vajont, un documentario di Vespucci per ricordare la tragedia

Vajont, un documentario di Vespucci per ricordare la tragedia  © Ph: Gianfranco Moroldo

Di Davide Dotto. 9 ottobre 1963. Tanta terra, tanta acqua: cinquant'anni dopo la tragedia del Vajont, un documentario del 2013 di Vittorio Vespucci ricorda e approfondisce un disastro spesso sottaciuto e abbandonato alle ricorrenze.

Nel cinquantesimo anniversario del disastro del Vajont ho avuto modo di assistere alla proiezione del documentario di Vittorio Vespucci. Era il 13 ottobre 2013 e mi trovavo alla Libreria Lovat di Villorba. Ne avevo tratto degli appunti e  riflessioni che è giusto riproporre.
Si tratta di un evento che è apparso e appare tutt'oggi come qualcosa di inaudito e inimmaginabile: insuperabile lo shock e il senso di smarrimento profondo di chi si è trovato davanti a binari ferroviari intrecciati tra loro, a pozze d'acqua da cui a poco a poco affioravano i cadaveri, senza che vi fosse nessuna traccia del paese, delle strade, delle case: «Longarone dov'è? Ieri sera era qui!»
Scopo delle testimonianze raccolte non è stato solo commemorare, ma raccontare una storia che non conosciamo e forse non conosceremo mai a sufficienza. Troppo spesso il Vajont è ritenuto un luogo della memoria, un modo come un altro di relegarlo in uno spazio angusto, di operare una velata rimozione come mille cose di cui non si discute più.

La stampa inizialmente parlava di disastro naturale. 

Si fanno nomi di Montanelli, Giorgio Bocca, che l’11 ottobre 1963 tra le pagine del Giorno scriveva:
Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c’erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa, nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è fatto dalla natura che non è né buona, né cattiva, ma indifferente. Marco Paolini e Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti 1997
Dino Buzzati, sul Corriere della Sera nello stesso giorno, ricorreva a una metafora:
Un sasso è caduto in un bicchiere pieno d’acqua e l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bicchiere alto centinaia di metri, e giù sulla tovaglia stavano migliaia i creature umane che non potevano difendersi. E non è che si sia rotto il bicchiere; non si può dar della bestia a chi l’ha costruito perché il bicchiere era fatto bene, a regola d’arte…
Per non parlare di taluni che scrivevano o dicevano che «quanto avvenuto al Vajont è stato un misterioso Disegno d'Amore».

Altri ancora disquisivano di  fatalità, di un tributo al progresso. Eppure già prima dell'evento qualcuno denunciava, calcolava, verificava, relazionava sullo stato dei luoghi, sui rischi che nessuno sembrava voler cogliere. 

Sono rimasti gli articoli e l'impegno di Tina Merlin che già aveva messo il dito nella piaga.
All'improvviso ci si è resi conto della presenza di una frattura profonda nel monte Toc, a forma di “emme”, di origine preistorica, a contraddire la scarsità di rischi di eventi franosi. Non ci si poteva fermare. Erano gli anni Sessanta, quelli del boom, di un treno in corsa sul quale salire assolutamente. La diga serviva per incanalare l’acqua per produrre energia elettrica tutto l’anno, senza subire le secche del Piave in estate e le ghiacciate d’inverno.
Il Vajont era perfetto:
[...] nella gola stretta stretta, profonda, un canyon che il torrente Vajont si è scavato per andare a gettarsi nel Piave, progettano di costruire uno sbarramento artificiale alto 200 metri. Marco Paolini e Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti 1997
Solo di recente si è presa maggior coscienza di un dato diffuso ma non metabolizzato: che si è trattato di un disastro procurato dall'uomo, di un progetto tecnologicamente all'avanguardia su un sito geologicamente instabile. L'acqua, il fango, la polvere, i morti erano effetti imputabili non solo a madre natura.

Altra inesattezza da rettificare: vi è chi ritiene che la catastrofe sia stata causata dal crollo della diga, posta al confine tra comuni veneti e friulani. Invero l'orgoglio dell'ingegneria italiana, la più grande nel mondo, è ancora lì, intatta. Ciò che è franato è la punta del monte Toc, caduta sul lago artificiale. 

Da qui il senso del titolo del documentario: Vajont - Tanta terra e tanta acqua per non aver valutato la consistenza e la resistenza delle pareti della valle intorno alle quali la diga era appoggiata, chiamata a caricarsi centinaia e centinaia di milioni di metri cubi d’acqua.
Ne tratta il racconto di Paolini, a proposito di perizie non fatte o tardive, dopo le crepe rivelate nel corso della realizzazione della strada di circonvallazione.
Il discorso iniziato allora non è ancora terminato, coinvolge il nostro tempo chiamato a capire cosa ne sia del Vajont dopo il Vajont (Il Vajont dopo il Vajont (1963-2000) a cura di Maurizio Rebershack,  Marsilio). Tra le tante storie viene ricordata quella di Erto, che a suo modo le riassume tutte, in primis la ricostruzione materiale ma non quella sociale e personale.
Il documentario Vajont - Tanta terra e tanta acqua di Vittorio Vespucci tenta soprattutto di sgombrare il campo da inesattezze che nel corso di cinque decenni hanno rallentato la comprensione degli eventi. Sottolinea informazioni non giunte a destinazione, o semplicemente lasciate cadere. Riaccende i riflettori su una tragedia troppo spesso travisata, sottaciuta e abbandonata alle ricorrenze. Cerca inoltre di divulgare il sentimento, la vita attuale di chi è sopravvissuto e di porre un monito contro le Vajont di domani.




Immagine di copertina di Gianfranco Moroldo

Davide Dotto


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