Gli scrittori della porta accanto

Viaggio sentimentale nella fotografia di Elio Ciol

Viaggio sentimentale nella fotografia di Elio Ciol

FotografiA Di Argyros Singh. Respiri di viaggio: la fotografia di Elio Ciol in mostra a Casarsa della Delizia fino al 26 settembre, tra il colore emozionante e il b/n sentimentale dei suoi scatti in giro per il mondo.

Casarsa della Delizia non è solo la città dove Pasolini ha vissuto gli anni giovanili; altre figure l’hanno animata nel corso del Novecento, per arrivare fino a oggi. In questi mesi, il fotografo Elio Ciol, nato nel 1929, espone nella sua città natale la mostra intitolata Respiri di viaggio, inaugurata il 3 marzo 2021 e prorogata fino al 26 settembre 2021.
Ciol aveva cominciato da giovanissimo a lavorare nel laboratorio fotografico del padre; nel decennio 1955-65 si era dedicato anche ai film documentari ed era stato fotografo di scena ne Gli ultimi di Vito Pandolfi e padre David Maria Turoldo.

Durante la sua attività Elio Ciol ha collaborato a numerosi cataloghi d’arte e ha prodotto diversi libri fotografici.

Le esposizioni sono molteplici, a livello italiano e internazionale, tra cui una mostra a New York (Immagini d’Italia) e una a Parigi (L’incanto della visione), entrambe del 2000. Tra i vari riconoscimenti, legati non solo alla sua terra d’origine, Ciol ha ricevuto un’attenzione particolare in àmbito russo: vale la pena segnalare la mostra antologica alla Classic Gallery di Mosca (2011-12) e la retrospettiva del 2019, che gli dedicò il MAMM (Multimedia Art Museum) di Mosca, diretto da Olga Sviblova, con 161 scatti del periodo 1950-90.
Con all’attivo circa trecento mostre, tra personali e collettive, e fotografie pubblicate in più di duecento libri, le opere di Elio Ciol hanno avuto fortuna internazionale, venendo acquisite da istituzioni quali il Metropolitan Museum of Art di New York, il Victoria & Albert Museum di Londra e il Museo Puškin di Mosca.
Sempre legato alla sua città, nel 2016 ha donato oltre settecento opere al Comune di Casarsa della Delizia, che ha organizzato la mostra che ora andremo a scoprire.

Respiri di viaggio

Le fotografie non sono suddivise in ordine cronologico, ma per area geografica, e la mostra è stata curata, insieme al catalogo, dallo storico dell’arte Fulvio Dell’Agnese.
Il b/n delle prime foto si alterna presto ai colori vivaci degli arabeschi e degli affreschi nelle chiese ortodosse. Uno dei tratti distintivi di questi scatti risiede nella pulizia geometrica operata dal Ciol, che rimarca i chiaroscuri e, soprattutto nel b/n, sembra spingere il piano alla profondità tipica di un bassorilievo. Sottile anche il gioco tra geometrie naturali e artificiali, quest’ultime connesse in particolare alle architetture.

Un modello: le foto spagnole

L’Alhambra di Granada - La moschea di Cordoba - La cattedrale di Siviglia - Il Guggenheim Museum a Bilbao

L’Alhambra di Granada e la cattedrale di Siviglia

Il primo gruppo di foto rappresenta l’Alhambra, a Granada. Qui i vivaci colori arabi si annullano nel b/n e rimane la pura forma: il succedersi di gallerie, archi e colonne, ripetuto in maniera quasi ossessiva, trasforma l’ambiente umano in un antro naturale, benché l’evolversi della materia sia guidata dalla mano dell’uomo. Nella prospettiva del fotografo, ogni arco appare l’introduzione al successivo, in un effetto matrioska che è possibile suggerire, a livello fotografico, all’infinito, ben al di fuori della cornice. In altri casi, la successione si esaurisce verso l’esterno, dove un cielo bianchissimo è pura luce, fonte essenziale nel riverberare le curve e le pieghe degli arabeschi.
Al contrario, la foto rappresentante la Porta del perdono è l’introduzione a un altro luogo di culto, la cattedrale di Siviglia, ma è un passaggio buio, reso ancora più oscuro dallo sguardo severo di san Pietro, dall’alto in basso. Nell’intreccio di queste opere, l’anima spagnola, intrisa della cultura mussulmana, dialoga nel silenzio della luce e dell’ombra, e se il luccichio dei pinnacoli e delle guglie è rassicurante, il nero delle vetrate e del rosone pone quasi in soggezione. Sembra quindi che il valore della luce sia apprezzabile a pieno solo dagli interni, laddove portali e vetrate nutrono l’edificio di una forza spirituale, sebbene dall’esterno questa energia appaia contenuta in uno scrigno minaccioso.

La Casa di Pilato, a Siviglia

Il punto di equilibrio si trova nella Casa di Pilato, a Siviglia, in cui Elio Ciol fotografa tre elementi all’apparenza indipendenti l’uno dall’altro. A un’attenta analisi, si rivela una delle fotografie più singolari della mostra. In alto, a parete, un insieme di armi, scudi e armature abbandonati in disordine, a coprire ogni spazio libero, come a suggerire l’esito nefasto di una battaglia. Al di sotto, la scultura che ritrae una donna dormiente; non una Venere, quanto una figura umana naturalmente spossata. Infine, a sinistra, una colonna regge un busto dall’espressione sconsolata, che potremmo immaginare insoddisfatta, se unita alle altre due forme. Nel complesso, gli elementi restituiscono un’impressione di stanchezza e di ordine forzato; l’eroismo è lontano e dormiente: non restano che pose dimesse e frammenti di storia che cercano di essere ricostituiti.

La moschea di Cordoba

Le fotografie della moschea di Cordoba, invece, mettono in risalto quell’interesse per i pattern tipico dell’arte araba e mussulmana. Il doppio ordine di archi sembra non avere fine e la visuale dal basso, tutta umana, schiaccerebbe l’osservatore, se non fosse per il bianco del soffitto che suggerisce, ancora una volta, un’apertura luminosa verso il cielo. Qui più che mai l’architettura è disegnata dal fotografo per suggerire una verticalità prodotta da elementi costruiti l’uno sull’altro, come in un alveare o in un castello di sabbia bagnata.

Il Guggenheim Museum a Bilbao

Le ultime foto spagnole sono invece legate all’arte contemporanea e rappresentano l’esterno del Guggenheim Museum, a Bilbao. In un primo scatto, un enorme aracnide domina il paesaggio e cattura gli avventori, ma – negli scatti che seguono – l’edificio realizzato da Frank O. Gehry si rivela un mostro ben più imponente e minaccioso, che ridicolizza la grandezza della bestia. Nella sua informità, imprigiona le luci in un modo non diverso dai luoghi che ho citato: il b/n rende lucide le pareti, glaciali, ma sono le zone d’ombra a incutere un timore reverenziale, in particolare a uno degli accessi. Sommessa, una linea di persone vestite di bianco funge da definitivo metro di misura tra l’uomo e la sua progenie.

Rovine e testimoni della storia

L’attenzione maggiore a questo gruppo di foto è un modo per parlare di alcune caratteristiche della fotografia di Elio Ciol: dall’impiego diffuso del chiaroscuro all’isolamento di alcuni pattern naturali o architettonici, dal gioco di proporzioni dettato dalla prospettiva all’interazione umana con i luoghi attraversati.
Quando poi l’umanità viene meno, restano le rovine di un passato glorioso.

Torri di tufo in Cappadocia - La Sfinge - La Casa di Pilato a Siviglia - Le rovine di Gerasa

Egitto, Libia e Giordania

L’Egitto ne è un esempio, con la sfinge in primo piano a rubare la scena e le proporzioni alle piramidi. E così, negli scatti libici di Leptis Magna, troviamo colonne distese, capitelli capovolti, un volto scolpito che guarda il cielo a bocca aperta, invocando l’attenzione dall’alto, mentre intorno crescono le erbacce, pronte a riappropriarsi dell’ambiente. Al contempo, un edificio a tholos, sfumato, è lasciato sullo sfondo con una luce sottile, quasi onirica, a circondarlo. Le rovine cercano di mantenere una loro dignità formale, una geometria e un ordine, ma si perdono in frammenti sconnessi di architettura.
Qualcosa di simile accade con le rovine di Gerasa, in Giordania, ma alcuni colonnati sopravvivono alla distruzione e ancora più potente è la loro immagine in un Medio Oriente attraversato da conflitti millenari. Addentrandosi nel deserto giordano, si ritrovano, racchiusi nell’arenaria, i monumenti funebri del regno nabateo, il cui stato di conservazione permette di apprezzarne le forme compiute. Nate da quella stessa roccia, le architetture rievocano la poesia di Michelangelo Buonarroti, per il quale nella pietra grezza si celava già il principio di ciò che sarebbe emerso.
Il cammino tra le rovine prosegue a ritroso nel tempo: di nuovo in Libia, a Mathendush Wadi, le rocce sono solcate da graffiti rupestri di origine prevalentemente neolitica, ritraenti animali quali giraffe e coccodrilli, unici testimoni di un luogo arido, un tempo solcato dalle acque.

Mongolia e Turchia

Diverse, invece, le figure che abitano il monastero buddhista di Erdene Zuu, in Mongolia, tra animali leggendari e reali, mentre un uomo in carne e ossa passa tra di loro a cavallo, lentamente: i resti non sembrano accettare l’accezione di “rovine” e continuano la loro guardia imperturbabili. Un esercito di nuvole li sovrasta e le volute del cielo si uniscono alle pieghe che modellano il volto di un drago. In un altro monastero, quello di Gandan a Ulan Bator, sempre in Mongolia, Elio Ciol mostra gli esseri demoniaci e leggendari appollaiati su tetti che sembrano onde o morbide correnti d’aria. Di nuovo, queste creature controllano il sito, indifferenti sotto il cielo nuvoloso che li opprime: esse possono ancora raccontare la loro storia, mentre le analoghe nubi delle foto in Armenia, a Zorats Karer, coprono alcune nude rocce disposte così almeno settemila anni fa. I menhir lasciano supporre l’ordine che li aveva caratterizzati, ma di loro non restano che schegge giganti ricoperte di muffe e prossime a disfarsi nei millenni a venire.
In Cappadocia, alcune torri di tufo, dette Camini delle fate, mescolano la mano dell’uomo a quella della natura. Si tratta di rocce lavorate dagli agenti atmosferici e in seguito da coloro che vollero ricavarne dei rifugi. In questo caso, Ciol gioca sulle proporzioni, al modo dell’aracnide di Bilbao, e siamo indecisi se le torri siano l’antro di piccoli esseri o grattacieli naturali.

Luoghi dello spirito

Nelle fotografie di Mathendush Wadi, di Zorats Karer e della Cappadocia riusciamo a percepire, grazie alle inquadrature del fotografo, un’anima antichissima, forse l’ultima traccia di un’impronta umana, o qualcosa di ancora più elevato.

La Madrasa di Mir-i-Arab - Il monastero di Zagorsk - Varanasi - Il Palazzo di pietra di Khiva - Shah-i-Zinda

Cina

Vi è un filone spirituale nelle fotografie di Elio Ciol che parte dalla preistoria e prosegue nei millenni. Ho già accennato ai templi della Mongolia, in paziente attesa di un avvenire ignoto.
Anche in Cina troviamo un particolare genere di spiritualità, connessa al sentimento comune di un popolo. I turisti che visitano la Grande Muraglia o la Città proibita imperiale, a Pechino, vivificano quei luoghi, così come i visitatori e i fedeli che camminano tra i rilievi scolpiti nella roccia della Collina Fubo, a Guilin. Nel ritratto dell’antica Cina compiuto da Ciol, tornano al centro le persone che, se affiancate ai soldati dell’Esercito di terracotta, a Xian, continuano ad assistere, con fiducioso rigore, alla grandezza di un impero che sembra destinato a risorgere.

Russia e Uzbekistan

Una potenza in decadenza è invece quella sovietica, ritratta da Elio Ciol nel 1985, nell’allora Leningrado (San Pietroburgo), durante una commemorazione per la vittoria del 1945, in cui si perpetua una propaganda del popolo a cui i pochi civili ritratti sembrano ormai estranei. Anonimi nelle loro divise scure, i soldati marciano come formiche guidate da una mano invisibile.
Più simili tra loro le rappresentazioni della spiritualità cristiana, mussulmana e indù. Ciol isola in alcuni scatti gli arabeschi, assolutizzandoli, ma altrove, per gli stessi ambienti, ci offre una visuale di più ampio respiro, che include i fedeli e gli edifici geometrici.

La Madrasa di Mir-i-Arab, a Bukhara, in Uzbekistan

Alla Madrasa di Mir-i-Arab, a Bukhara (Uzbekistan), un gruppo di donne del luogo è vestita con i colori dei mosaici e degli affreschi, a partire dal turchese e dalle tonalità del blu: l’insieme è reso omogeneo da un cielo dall’azzurro molto chiaro, sfumato ulteriormente da nuvole bianche che, sporgendo dall’orizzonte, sembrano vapori paradisiaci. Vi è anche un aneddoto del fotografo dietro a uno di questi scatti: egli si trovava in visita alla madrasa con un gruppo turistico, ma l’affollamento non aveva permesso di fare una fotografia che – a detta di Ciol – potesse esprimere quello che sentiva. Attese dunque il passaggio del gruppo e, a quel punto, le donne mussulmane attraversarono lo spazio, venendo immortalate. I retroscena non finiscono, perché in una foto possiamo osservare la presenza della moglie del fotografo, in fondo a destra, a braccia conserte in attesa del marito. Nelle sue fotografie, dunque, si trovano sia soggetti in posa che posti in modo casuale: l’interesse di Ciol consiste comunque nell’offrire all’osservatore un’immagine credibile.
Anche al monastero di Zagorsk, in Russia, ritroviamo il turchese e i colori vivaci dell’arte araba, in una commistione con l’arte classica nell’architettura. Il cielo è qui grigio, offuscato, ma nello scatto che ritrae le tre fedeli si trasforma in un bianco nitidissimo, destinato a proseguire nelle linee delle mura del santuario. Ancora una volta, l’accesso è oscuro, sebbene sia qui accompagnato dagli affreschi, che spingono l’avventore a raccogliersi in se stesso, come sembra fare una delle donne con il segno della croce.
Un altro momento di raccoglimento è quello attuato dallo stesso fotografo, che in uno scatto ritrae un artista di strada nell’atto di dipingere, e l’oggetto di interesse è lì, sul fondo, pronto per essere tradotto in una pellicola o su carta, a seconda delle sensibilità.

Bulgaria e India

Nel monastero di Rila, in Bulgaria, ritroviamo il grigiore di Zagorsk e persino le poche persone presenti sembrano inglobate nella pietra. A parlare, qui, sono le creature angeliche e infernali rappresentate sugli affreschi: mostri tratti da antiche civiltà e catapultati nell’universo cristiano, dove non dominano più e risultano invece umiliati. Unica, la Morte a cavallo, ha ancora la forza di imbrigliare i corpi e le anime nella bocca dell’Inferno.
Un religioso cammina tra queste immagini, con le mani incrociate dietro la schiena e l’espressione concentrata. La sua severità e compostezza richiamano alla mente quella di un altro fedele, questa volta indù, a Varanasi, in India. L’uomo cammina scalzo; è serio e guarda verso il basso, avvolto in se stesso. Lui e una vacca, considerata sacra, sono le uniche figure messe a fuoco: immortalate in una posa statuaria, portano equilibrio in una scena le cui architetture sembrano precipitare al suolo.

Affreschi, incisioni sulla roccia, edifici. Non sono gli unici soggetti che Elio Ciol fa parlare: più sottile è il dialogo intrattenuto dagli elementi essenziali, ovvero le linee, le curve, le geometrie intrecciate.

In Uzbekistan, il Palazzo di pietra di Khiva (Tosh-Hovli), la Casa dell’ambasciatore a Tashkent e Shah-i-Zinda, a Samarcanda, mostrano un tripudio di colori prodotto su maioliche, pietra e legno intagliato che appare roccia levigata. I motivi ornamentali diventano il vero soggetto su cui concentrare il proprio spirito. In particolare, gli schemi geometrici sono ammorbiditi dalla grafia araba e il bianco, l’azzurro e il blu emanano un senso di pace che cancella i limiti fisici della struttura, con i suoi volumi, e accompagna l’anima verso l’ascesi.
Non solo colori, però. Le mura di Khiva, rappresentate in b/n, si distendono come un tappeto nero che sfiora i piedi dei passanti; si direbbero dune di morbida sabbia, ma sono tradite dai merli che cingono le torri. E allora sono le ombre, scurissime, a celare la mano dell’uomo, restituendo la pura forma. Una statua, certamente di un saggio, è piegata a osservare che cosa accade a valle: le pareti che lo accerchiano ritornano onde di sabbia, pronte a migrare insieme al pensiero che trasmettono.

Questo desiderio di essere trasportati in altri lidi, questo flusso continuo che muove l’uomo e la natura è una costante.

In Nepal, i terrazzamenti sulla strada per Dhulikhel, a est di Katmandu, raccontano una natura rigogliosa, incompatibile con le poche risorse mostrate ai bordi dei laghetti di Chapgaun, dove i bambini cercano di ingegnarsi per vivere meglio. I terrazzamenti appaiono in pieno moto, pronti a trasformarsi nei soldati sovietici in marcia, a Leningrado, o viceversa.

In tutto questo, l’acqua è ovunque.

Nella vegetazione rigogliosa, in un laghetto ristagnante, nelle nubi grigie. È, ancora, nelle rocce di Petra, mescolata agli altri elementi per creare l’arte primigenia della Natura, o nella sacralità del fiume Gange, dopo un lungo viaggio durato oltre 2.500 chilometri, a partire dalle vette dell’Himalaya. Infine, l’acqua è nell’essenza delle fotografie di Santorini, in Grecia: è nel mar Mediterraneo, nel cielo e nelle cupole, inframmezzato al bianco delle nuvole, delle case e della schiuma. È la pace dell’Occidente, che aspira a un ritorno alla Natura, attraverso una nuova porta d’accesso verso l’origine.

Credits: www.themammothreflex.com

Argyros Singh


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