Gli scrittori della porta accanto

Intervista ad Andrea Cabassi, da manager a viaggiatore e life coah

Intervista ad Andrea Cabassi, da manager a viaggiatore e life coah

People A cura di Andrea Pistoia. Intervista ad Andrea Cabassi, autore di Non so se mi spiego: da manager a Dubai a viaggiatore in Sudamerica a life coach.

Andrea Cabassi, era manager di multinazionale con esperienza specifica in Project Management. È tecnologo alimentare e da sempre viaggi, cambiamento e curiosità lo appassionano. Ha recitato a teatro, suonato, creato oggetti d’arredamento, fotografato, scritto.
Dal 1998 soffre di rettocolite ulcerosa, malattia autoimmune cronica intestinale catalogata tra le cosiddette “invalidità invisibili”.
Nel 2015, a 40 anni, con una carriera ben avviata e una vita che rientrava nei parametri di una felice normalità, ha scelto di salire su un aereo e seguire l'istinto, trasferendosi a Dubai, come racconta nel suo primo libro Permettimi d’insistere.
Dopo un periodo di lavoro ha preso la decisione di mollare tutto e, con i risparmi accumulati, viaggiare in Sudamerica, interamente attraversata da Nord a Sud in 299 giorni a piedi, in autostop e con i mezzi pubblici, come racconta nel suo secondo libero Non so se mi spiego.
Ora vive in Portogallo e, dopo aver frequentato una scuola di coaching, è ora life project manager.

Ciao Andrea.

Ciao a te, Andrea. 😊

Innanzitutto, dopo il tuo libro Permettimi d’insistere hai deciso di cimentarti in questa nuova prova letteraria. Cosa ti ha spinto a farlo?

Nel mio percorso di cambiamento ho acquisito una visione più moderna della vita, in linea con le mie nuove, stravolte, priorità e incentrata sulla vera ricchezza del terzo millennio: il mio tempo. È stato difficile ed entusiasmante. Pura vida!
Lungo il percorso mi sono sempre sentito sulla strada giusta e ho deciso di condividerlo in Non so se mi spiego perché, per il mio modo di essere, ciò che ho vissuto è stato strepitoso. Mi piace pensare che, farlo, possa spingere altri a mettere in discussione loro stessi e il sistema che controlla le nostre vite.
Ti invito di nuovo a cena per raccontarti anche questa storia dato che, come il mio precedente libro, anche Non so se mi spiego è scritto sotto forma di un invito a cena, in cui ogni portata rappresenta una fase della mia storia.


Perché hai intitolato il tuo romanzo Non so se mi spiego?

Non so se mi spiego è la citazione di una frase ricorrente – divenuta tormentone tra noi studenti – di Giancarlo Stevani, mio professore d’italiano nei primi anni delle superiori. Insegnante vecchio stampo e assai pittoresco che durante le temutissime interrogazioni, partendo da otto, sottraeva un punto per ogni risposta sbagliata. Tre errori e arrivava l’insufficienza. Al tempo lo consideravo un grattacapo, oggi è un affettuoso ricordo.
E poi, oltre a essere stilisticamente coerente con Permettimi d’insistere, fa coppia col sottotitolo Da manager a Dubai a viaggiatore in Sudamerica. Come dire a un amico per tirarmela un po’: “Marco, non so se mi spiego, sono passato da manager a Dubai a viaggiatore in Sudamerica!”.
Non so se mi spiego

Non so se mi spiego
Da manager a Dubai a viaggiatore in Sudamerica

di Andrea Cabassi Autopubblicato
Narrativa di viaggio | Memoir
ISBN 979-1220044332
Cartaceo 17,90€
Ebook 8,99€

Veniamo adesso alla tua esperienza on the road: perché hai scelto proprio l’America Latina e non l’Africa o l’Asia?

Perché il Sudamerica è una terra che da sempre mi attraeva. Da un lato per il fatto di avere parenti in Argentina – come la maggior parte degli italiani del resto – dall’altro per i colori, la musica e, non ultimo, la lingua. Parlando fluentemente spagnolo, immaginavo – i fatti l’hanno confermato – che sarebbe stato più facile entrare in relazione con gli autoctoni rispetto ad altre zone di mondo.
E poi, dal punto di vista turistico, ero particolarmente attratto dalla Patagonia.

Qual è stato l’ostacolo maggiore che hai dovuto superare quando hai deciso di mollare la tua vecchia vita da manager per gettarti in questa avventura?

Dal punto di vista interiore, quello di cambiare la mia identità, passare da manager a viaggiatore prima, quindi autore e coach in seguito. Dal punto di vista pratico invece, gestire il fatto e l’emotività di non avere, per un certo periodo, uno stipendio certo alla fine di ogni mese.

E durante il viaggio?

Non ci sono stati ostacoli particolari durante il viaggio, a parte una serie di imprevisti che però ho sempre considerato parte dell’avventura. Senza dubbio sono stato facilitato dal possedere un passaporto italiano, uno dei più potenti che esistono, visto che permette di entrare nella maggioranza dei Paesi senza bisogno di chiedere un visto e, laddove ne serve uno, normalmente ci viene concesso senza diventare matti.
È stato quindi per me faticoso digerire il fatto che, per altri viaggiatori dal passaporto meno gradito (es. giordani, siriani, pakistani, …), attraversare confini fosse un vortice burocratico se non addirittura proibito. Se il Covid ci ha tolto parecchie libertà, non è comunque che prima fossimo messi benissimo. Pochi se ne accorgono…

Parlando di problemi, dal 1998 vivi con una malattia difficile da gestire: la rettocolite ulcerosa… Quali sono state le problematiche maggiori, riscontrate in quei paesi, con un “compagno di viaggio” simile?

Ho avuto una sospetta recidiva quando mi trovavo in Argentina, per gestire la quale ho dovuto trovare un gastroenterologo. È stato semplice e ho ricevuto l’assistenza di cui avevo bisogno. Per il resto, tutto è filato più o meno liscio, tra alti e bassi, normale amministrazione per un intestino bisbetico come il mio.

Qual è stato il luogo che ti ha dato più emozioni, nel bene e nel male?

Dal punto di vista paesaggistico, la Patagonia – sia quella argentina che quella cilena – mi ha stregato con i suoi ghiacciai, vulcani, laghi, fiordi, corsi d’acqua, boschi, montagne. Una tempesta di colori – complice l’autunno australe – e luoghi piuttosto remoti, dove il turismo di massa per fortuna non è ancora arrivato. Percorrere con mezzi pubblici e autostop gran parte dei 1.200 km della carretera Austral – strada cilena perlopiù sterrata che corre da Villa O’Higgins a Puerto Montt – è stata una benedizione.
Dal punto di vista umano invece, argentini e colombiani mi sono entrati nel cuore. I quartieri difficili di Bogotá e Medellin, visitati sotto la guida – e la protezione – di ex gangster, mi hanno messo di fronte a una triste realtà che in Europa non conosciamo.

E l’esperienza più sconvolgente?

Indubbiamente la cerimonia sciamanica dell’ayahuasca, alla quale ho partecipato nell’Amazzonia peruviana. Letteralmente “liana degli spiriti” o “liana dei morti” in lingua quechua, trattasi di un infuso psichedelico in grado di indurre un effetto visionario e purgante in chi lo assume. Faccenda seria insomma, non da prendere a mero scopo ricreativo. Partecipai al rito perché in Amazzonia è qualcosa di sacro, tant’è che nel mio caso avvenne in un ospedale sciamanico.
Secondo le spiegazioni che ricevetti, scavando nel mio inconscio l’ayahuasca mi avrebbe mandato le sue risposte attraverso visioni, emozioni, sensazioni e intuizioni. Uno a uno, lo sciamano, ci convocò al suo cospetto e, con un solenne rituale simile a una benedizione, ci somministrò un bicchierino di pozione.
Mezz’ora più tardi si manifestò la più incredibile esperienza della mia vita. Per raccontartela dovrei dilungarmi troppo. All’interno di Non so se mi spiego ho descritto tutto nei minimi dettagli, sia emotivi che fisici.

In questo tuo anno sabbatico hai incontrato molte persone. C’è stata qualcuna che ti ha colpito in particolar modo?

Janis McDavid, giovane viaggiatore tedesco senza braccia e senza gambe conosciuto nell’Amazzonia peruviana. Una coppia di amici lo portavano a scoprire il mondo, accompagnandolo a fare bisogni, trasportandolo all’interno di uno zaino durante i trekking e su una sedia a rotelle negli spostamenti su asfalto. Rimasi senza parole. Mi venne da “ridere” dei miei stravolgimenti intestinali, una barzelletta in confronto a quel desueto terzetto.
Trascorremmo quattro giorni insieme, conversammo a lungo del senso della vita. Ero stupefatto dalla sorprendente agilità con la quale scriveva con invidiabile grafia, si nutriva e perfino riusciva a effettuare brevi spostamenti. Una storia strepitosa, un inno alla forza di volontà, un calcio in culo ai limiti, che per davvero sono quasi sempre solo all’interno della nostra testa. Il fatto che si trovasse lì perché qualcuno ce l’aveva portato non lo rendeva meno straordinario. Ovvio che non poteva arrivarci da solo. Quel che conta è che, invalido al 100%, come noi esplorava la giungla amazzonica su sentieri creati dalla nostra guida a colpi di machete. Dormiva come noi sotto una zanzariera a proteggerci da vedove nere, scarafaggi e chissà quali altri mostri. Non aveva mica scelto un resort a quattro stelle di Gabicce Mare.
Anche di questo incontro si trovano molti più dettagli all’interno del secondo libro. In ogni caso, da quel giorno, quando desidero fare qualcosa ma penso di non essere in grado, penso a Janis e mi faccio su le maniche.

Dopo l’America Latina sei stato in Asia. Stai già pensando di scrivere un libro a riguardo o hai altri progetti letterari per il futuro? Ci puoi dare un’anticipazione?

I 9 mesi e mezzo in Asia, interrotti dall’avvento del Covid, il successivo lockdown in Portogallo, quindi il cammino di Santiago de Compostela di fine 2020 sarebbero contenuti perfetti per un terzo libro. Al momento mi godo i primi due, ci penserò a tempo debito.

Attualmente sei un life coach. Parlaci un po’ di questa tua nuova attività.

Combino project management e intelligenza emotiva per aiutare i visionari a far succedere le cose che desiderano.
Il coaching (o affiancamento e guida) è una metodologia di crescita personale nella quale una guida (detta coach) supporta una persona (detta coachee) nell’individuare e raggiungere uno specifico obiettivo personale, professionale o sportivo. Non è un servizio psicologico, tanto meno una terapia.
In pratica, nel mio caso, si tratta di una sequenza di incontri 1-a-1 online – generalmente un massimo di 10 – su Zoom, durante i quali si lavora concretamente verso il raggiungimento di ciò che desideri ottenere. Sia durante le sessioni che tra una sessione e la successiva, ci fanno anche esercizi pratici.
In tutti i casi quindi il punto di partenza è rappresentato dalla definizione dell’obiettivo del percorso di coaching.

Cosa consiglieresti a chi vorrebbe seguire le tue orme, ovvero mollare tutto e girare il mondo (o, più in generale, seguire i propri sogni)?

Due cose.
La prima. Prendere atto che tutto dipende da noi, nel bene e nel male. Se da un lato ciò significa che dobbiamo proattivamente fare ciò che serve per andarci a prendere ciò che desideriamo – dato che difficilmente qualcuno ce lo regalerà – dall’altro nessuno, se non la nostra mente, ce lo può impedire. Ovviamente c’è qualche eccezione, a conferma della regola.
La seconda. Sognare con metodo. Fare le necessarie valutazioni – finanziarie e non – per evitare di fare il passo più lungo della gamba.

Grazie dell’intervista. Vuoi lasciare un saluto speciale a tutti i nostri lettori?

La pandemia Covid, prima ancora di dividere tra pro e contro le decisioni dei governanti, ha da subito distinto l’umanità occidentale – mi riferisco ai Paesi ricchi come il nostro per intenderci – tra chi si è messo in attesa che qualcuno trovasse una soluzione per “tornare a vivere” e chi ha colto l’opportunità per fermarsi, guardarsi dentro, e mettersi al lavoro per cambiare il necessario della propria vita. Auguro a tutti di far parte del secondo gruppo.
Un abbraccio e buona vita.

Andrea Pistoia


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