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The week: focus sugli eventi tra il 6 e il 12 giugno

The week: focus sugli eventi tra il 6 e il 12 giugno

The week Di Argyros Singh. Cosa è successo nel mondo tra il 6 e il 12 giugno? La Nigeria, le dichiarazioni di Dmitry Medvedev, la questione del grano ucraino, il dibattito italiano su libertà d'espressione e propaganda filorussa, e il vertice delle Americhe.

Gli argomenti trattati questa settimana sono essenzialmente tre: la situazione sociale in Nigeria; il dibattito italiano scatenato dal documento consegnato al Copasir; il vertice delle Americhe.


I conflitti interni in Nigeria e gli sviluppi della guerra del grano.


  1. La settimana scorsa si è aperta con la tragica notizia di una strage in Nigeria.

    Un gruppo armato ha fatto irruzione in una chiesa di Owo, nello Stato di Ondo (la Nigeria è una federazione di Stati), provocando la morte di decine di persone: sulla cifra esatta, anche le agenzie non sono precise, ma il numero minimo di vittime è attestato a ventuno, tra cui molti bambini. Erano in corso le celebrazioni pentecostali. Gli assassini non sono ancora stati identificati, ma si pensa alle milizie di Boko Haram, oppure all’Iswap (lo Stato islamico della provincia dell’Africa occidentale) o infine ai Fulani, pastori nomadi di religione islamica, distribuiti in diversi Stati dell’Africa occidentale. Parole di cordoglio e di vicinanza sono arrivate soprattutto dal presidente della CEI, il cardinale Matteo Zuppi, e il presidente nigeriano Muhammadu Buhari ha parlato del dolore eterno che attende gli assalitori in terra e nell’aldilà.
    Da almeno due decenni, cristiani e mussulmani moderati subiscono attacchi e rappresaglie da parte dei gruppi terroristici: due settimane prima di Owo, a Katsina, due preti cattolici erano stati rapiti, e risultano ancora in ostaggio; pochi giorni dopo il rapimento, era toccato al capo di una chiesa metodista e ad altri due fedeli.

    Un grave fenomeno collegato è quello dei linciaggi.

    Il 12 maggio scorso, a Sokoto, decine di ragazzi dell’Istituto Shehu Shagari hanno ucciso la coetanea Deborah Samuel per blasfemia: la giovane aveva postato su WhatsApp un commento ritenuto offensivo nei confronti di Maometto. Erano seguiti due arresti e una protesta di piazza, ma a difesa degli arrestati. A nulla erano valse le parole dello stesso sultano di Sokoto, Muhammad Saad Abubakar, contestato dalla folla per aver chiesto che i colpevoli fossero arrestati. Nel frattempo, era circolato il video dell’esecuzione: Deborah Samuel, dopo essere stata frustata e presa a sassate, giaceva morta, a faccia in giù sulla terra.
    La scia di sangue non si ferma qui. In questi giorni, nella capitale Abuja, un’altra persona è stata assassinata dalla folla: Ahmad Usman è stato dato alle fiamme dopo aver avuto una discussione con un religioso mussulmano, che lo accusava di blasfemia.

    La Nigeria, popolata da oltre duecento milioni di cittadini, è divisa al suo interno: in generale, si può parlare di un nord a prevalenza mussulmana e di un sud a prevalenza cristiano.

    Proprio nella Nigeria settentrionale, dodici Stati adottano la Shari’a e, nonostante diverse sentenze di condanna a morte, non ci sono ancora state esecuzioni. Non solo la blasfemia tra i reati, ma anche l’ateismo e l’omosessualità. Ad aprile scorso, per esempio, Mubarak Bala, presidente ateo della Humanist Association of Nigeria, è stato condannato a ventiquattro anni di prigione nello Stato settentrionale di Kano, con diciotto accuse a carico.
    Proprio il fatto di affidarsi a due codici penali diversi, uno moderno e uno islamico, porta i cittadini a non avere fiducia nel sistema di giustizia penale. D’altra parte, le azioni violente sono incentivate dal fatto che le forze di polizia non siano in grado di mantenere l’ordine e di far rispettare la legge. Sebbene non sembra esistere una strategia mirata per sterminare i cristiani del Paese, è chiaro che la Nigeria sia spaccata almeno in due parti, con la motivazione (o il pretesto) della fede.

    L’odio religioso in Nigeria è inoltre lo strumento più utilizzato sui social per diffondere disinformazione in questa delicata parte del mondo, come ha raccontato il Disinformation Team della BBC.

    Tuttavia, oltre ai contrasti per motivi di fede, i nigeriani sono in conflitto per il controllo della terra, tra gruppi nomadi e sedentari e per altre divisioni sociali. Inoltre, la pressione dei pastori a sud deriverebbe dalla progressiva desertificazione delle terre settentrionali, al confine con l’area del Sahel, per non parlare del repentino prosciugamento del lago Ciad, ormai ridotto al fantasma di se stesso. Che cosa potrebbe accadere, dunque, con il venir meno del grano ucraino?
    Sulla strage in Nigeria — rainews.it e avvenire.it | Sulle condanne ed esecuzioni sommarie – repubblica.it, vaticannews.va, bbc.com e bbc.com | Sulla disinformazione in Nigeria – bbc.com | Sulla situazione nigeriana – ohga.it e dire.it

  2. Il negoziato per permettere l’uscita del grano ucraino dai porti non è ancora giunto a un esito soddisfacente.

    Kyïv ha accusato la Russia di razziare i cereali e di tentare di rivenderli a suo discapito; inoltre, la scarsa fiducia reciproca impedisce all’Ucraina di poter prendere sul serio le rassicurazioni di Mosca su un’eventuale sminamento del porto di Odessa, che lascerebbe scoperto il fronte sul Mar Nero.
    In settimana, la Turchia ha tentato una nuova mediazione, facendosi garante del passaggio dei mercantili fino alle acque internazionali, ma la strada per un’intesa appare ancora lunga e prevede inevitabilmente un’apertura alle pretese russe, legate a una riduzione delle sanzioni. I Paesi più sulle spine, essendo importatori per oltre il 60% del grano russo e ucraino, sono Iran, Bangladesh, Egitto e Tunisia, i martoriati Yemen e Libano, la stessa Turchia.

    Mentre si tratta sul tema, l’esercito invasore avanza sul terreno, benché senza grandi stravolgimenti rispetto alla settimana scorsa.

    Ciò che ha fatto più discutere sono state le pesanti dichiarazioni di Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza nazionale russo, riferendosi agli occidentali: «Mi chiedono spesso perché i miei post su Telegram sono così duri. La risposta è che li odio. Sono bastardi e degenerati. Vogliono la morte per noi, per la Russia. E finché sarò vivo farò il possibile perché spariscano.»
    Più che commentare queste frasi, che parlano da sé, esse dovrebbero fungere da monito a chi continua a ripetere che sia l’Occidente a non voler trovare un compromesso e, anzi, a desiderare lo scontro. Le parole di Medvedev sono piuttosto dirette, ma qualora non fossero sufficienti, basterebbe integrarle con l’articolo Se riesplode la Cecenia (Limes, n.4/2022), in cui Mauro De Bonis ricorda che a voler prolungare la guerra ci sono anche le truppe guidate da Ramzan Kadyrov, che sta approfittando del conflitto per fare pulizia dei molti dissidenti ceceni, schierati nelle fila ucraine. Sulla guerra del grano – adnkronos.com, agi.it, analisidifesa.it e difesaonline.it | Sulla mediazione turca – ispionline.it | Sulle parole di Medvedev ilsole24ore.com

Italia: tra intelligence e fronte interno.

La scorsa settimana sono accaduti diversi fatti nel nostro Paese. Mi concentrerò sulla disputa nata intorno allo studio del Copasir. Tengo fuori altri discorsi, perché penso che avranno sviluppi interessanti nelle settimane a venire: mi riferisco in particolare alle molestie avvenute nella zona di Peschiera del Garda e dell’apertura del dibattito sul salario minimo.
Ha fatto molto parlare la diffusione del cosiddetto Bollettino ibrido, curato dal Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza (DIS), che si occupa di coordinare i servizi d’intelligence. Il documento analizza in sette pagine il fenomeno della disinformazione in merito al conflitto in Ucraina, nel periodo tra il 15 aprile e il 15 maggio. In questa fonte però – declassificata dal sottosegretario con delega alla Sicurezza, Franco Gabrielli – non compaiono gli undici nomi indicati nell’articolo scritto da Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini, pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo La rete di Putin in Italia: chi sono influencer e opinionisti che fanno propaganda per Mosca (5 giugno 2022), che ha scatenato il dibattito sulla libertà di opinione. Nell’articolo, oltre ai nominativi, si afferma che, a ogni passaggio politicamente decisivo per il governo, la propaganda filo-putiniana avrebbe aumentato la propria azione anti-governativa. Canali prediletti, tra quelli più noti: Telegram, con gruppi da decine di migliaia di persone, in continuità con i gruppi anti-sistema sviluppatasi negli ultimi due anni; Twitter, impiegato soprattutto come cassa di risonanza.

Secondo le dichiarazioni di Gabrielli, in Italia non ci sarebbe alcuna volontà di schedare le persone e il report del DIS servirebbe solo a fare chiarezza su una cosiddetta “minaccia ibrida”: prova ne sarebbe che non compaiono quei nomi citati dal Corriere.

Rimane dunque incerta la fonte effettiva di quest’ultimo, dato che la stessa co-autrice dell’articolo, Sarzanini, non ha voluto svelarla.
Non entrerò nel merito della polemica, per la quale ritengo che ognuno possa valutare, secondo la propria sensibilità, se sia stato corretto far reperire al Copasir questo report dell’intelligence, posto comunque che non sia stata stilata una lista se non dal Corriere. Mi limito a riprendere le parole del giornalista Federico Rampini, che in un recente intervento su La7, ha affermato di essere preoccupato dal fatto che l’Italia sembri essere «l’anello debole dell’alleanza occidentale». L’affermazione sembra rafforzare l’idea che più il vittimismo russo aumenti, più l’Occidente tenda a colpevolizzarsi, in un loop masochistico. Al di là del sensazionalismo scatenato dalla lista del Corriere, le agenzie d’intelligence si occupano, fuori dai media, della difesa della nazione, per cui il problema non è tanto avere posizioni filorusse, quanto assicurarsi che tali posizioni non passino da libere opinioni a tentativi di sedizione. Se i servizi segreti non individuano con prove una catena cospirativa, il fatto non sussiste; in caso contrario, sono comunque le istituzioni a dover prendere provvedimenti. È, in fondo, la linea di confine tra la difesa dello Stato e un’emotiva caccia alle streghe.

A proposito di auto-sabotaggi occidentali, chiudo questa parte con il consiglio di lettura della settimana: Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale di Vittorio Emanuele Parsi (Il Mulino, 2022).

La tesi proposta dall’Autore è che «la crisi dell’ordine internazionale liberale risulti dalla rottura dell’equilibrio tra democrazia ed economia di mercato. [...] Di conseguenza, sostengo, un nuovo progetto politico illiberale sta emergendo e si sta insinuando all’interno delle istituzioni democratiche. La mia tesi è che a partire dagli anni Ottanta l’ordine internazionale liberale sia stato progressivamente sostituito dall’ordine globale neoliberale.»
L’analisi della condizione preoccupante delle democrazie e del liberalismo è molto acuta e occupa gran parte del testo. Ne emerge un Occidente malato, attaccato su più fronti, anche interni, con la Cina sempre più protagonista internazionale. Con questo saggio, Parsi aggiorna un suo precedente scritto, alla luce delle ultime novità globali, a partire dalla pandemia, che vede come l’occasione per un positivo reset per l’Occidente. A partire da una maggiore coerenza tra economia, princìpi liberali e scelte politiche. Sul dibattito – wired.it, agi.it e ilfatto.quotidiano.it

E gli Stati Uniti?

Dopo aver avviato una serie di incontri diplomatici in Europa e aver partecipato in Oriente agli incontri del QUAD (ne parlavo nel post della scorsa settimana), il presidente Joe Biden ha dato il via, a Los Angeles, al nono summit delle Americhe, evento che si svolge ogni tre anni con i trentacinque leader del continente. Obiettivo: sancire l’unità di intenti delle Americhe e avviare nuove intese socio-economiche. Biden ha inoltre colto l’occasione per prendere le distanze da tre Stati ritenuti liberticidi, per cui non sono stati invitati i rappresentanti di Cuba, Nicaragua e Venezuela. Il presidente del Messico, Andrés Manuel Lopez Obrador, ha scelto così di non partecipare: un’assenza pesante, che mina la collaborazione nordamericana su temi come il commercio, la lotta al narcotraffico e le migrazioni. Altri assenti sono stati i leader di Guatemala, Honduras ed El Salvador, noti come il “Triangolo del Nord”, segnato da miseria e corruzione, che hanno inviato solo delegazioni minori. Paesi con cui gli USA vorrebbero condividere investimenti per lo sviluppo delle aziende locali e per il rifornimento di materie prime.

Dunque, in generale, un clima non tanto di sfiducia, quanto di scontento.

Dopotutto, negli anni scorsi, l’ex presidente Donald Trump aveva rinunciato al summit delle Americhe e, in parallelo, stavano crescendo gli investimenti cinesi nel continente. L’incontro proposto da Biden non poteva quindi portare a una svolta significativa nel rilancio dei rapporti tra Stati americani. Il documento finale del summit, la Dichiarazione di Los Angeles, testimonia comunque la volontà di proseguire il dialogo. Tra i temi inclusi: la gestione regolare dei flussi migratori; opportunità di lavoro per i cittadini delle nazioni più povere (lavori stagionali, etc.); finanziamenti alle banche che investono in programmi di sviluppo; la lotta al cambiamento climatico. Su quest’ultimo punto, però, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha rimarcato ancora di non voler accettare interventi esterni sulla delicata questione amazzonica, ritenuta di esclusivo interesse nazionale. Segno che di strada da fare ne rimane molta. Sul summit edition.cnn.com, startmag.it e tempi.it | Sulla dichiarazione finale whitehouse.com



Argyros Singh


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