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Hercule Poirot: dai romanzi di Agatha Christie al cinema

Hercule Poirot: dai romanzi di Agatha Christie al cinema

Cinema Di Davide Dotto. I tanti interpreti di Hercule Poirot, dai romanzi di Agatha Christie al cinema e alla televisione: Austin Trevor, Albert Finney, Peter Ustinov, David Suchet e Kenneth Branagh.

Poirot è invece un omino con la testa a pera e i baffi impomatati, di un’eleganza discutibilissima, vanitosissimo, metodico, amante dell’ordine e della simmetria, che ha tutta l’apparenza di un buffone e di uno sciocco e invece non solo dimostra la sua genialità investigativa ma anche una cordialissima umanità. Alberto del Monte, Breve storia del romanzo poliziesco (Laterza, 1962 – p. 179-180)
Il ritratto delineato dal saggio di Alberto del Monte rispecchia la descrizione che Agatha Christie ci offre nel romanzo d'esordio, The mysterious affair at Styles (Poirot a Styles Court), pubblicato per la prima volta nel 1920.

A partire dagli anni Trenta diversi attori hanno impersonato Hercule Poirot.

Che fossero di teatro o di cinema, non potevano che incontrarlo da lettori, e quindi tra le pagine dei romanzi di Dame Agatha.
Questo e non altro doveva essere il banco di prova iniziale; solo a seguire tutta una serie di rilevanti questioni: come gestire la fisicità dell'investigatore belga (tra imbottiture, mani, maquillage e marchingegni vari); in che modo portare sulla scena l'immagine più coerente e aderente possibile, senza tradire il personaggio?
Ciascuno, a suo modo, non avrà mancato di far tesoro di precedenti o concomitanti ruoli che, pur differenti, hanno contribuito a preparare o consolidare il terreno. È il caso di Kenneth Branagh e David Suchet, entrambi interpreti shakespeariani salvo essere l'uno un regista di prim'ordine, e il secondo un provetto caratterista: «I want to remain exactly what I had always longed to be – a character actor» – David Suchet, Poirot and me.

Uno dei primi interpreti di Hercule Poirot è stato Austin Trevor (1897-1978).

Nella versione di Lord Edgware dies del 1934, per esempio, Poirot sembra tutt'altro che "un ometto buffo", come in genere lo vede un occhio esterno. Quella di Austin Trevor è una figura longilinea, quasi un damerino, più alto del capitano Hasting. Quest'ultimo ha movimenti scoordinati che tendono alla caricatura (e quindi all'eccesso). Comprensibile che Agatha Christie non ne fosse granché entusiasta.

Albert Finney (1936-2019) ha impersonato Poirot nel 1974 in Assassinio sull'Orient Express, mostrando difficoltà di movimento e sofferenza nell'imbottitura che gli è stata imposta.

Non muove quasi il collo (il capo è sempre inclinato); è riservato, serio e più scorbutico di altre versioni. Ma anche più capriccioso, e però a suo agio nel bel mondo che frequenta e lo include.
Mette soggezione, e solo a distanza – il solito "occhio esterno" – può dire "Che ometto buffo".
Al suo cospetto le cose assumono una diversa piega, come la risposta che Finney-Poirot dà a Mr. Ratchett, più caustica di quella che appare nella lettera del romanzo: «Ho guadagnato abbastanza per soddisfare ogni mio bisogno e capriccio».
Non manca una risata fastidiosa e nervosa, che ha del clownesco, ma non induce a ridere (di lui).

Austin Trevor, Albert Finney, Peter Ustinov, David Suchet e Kenneth Branagh

Per quanto riguarda l'approccio con i personaggi, a parte Mr. Ratchett («Voglia perdonare l'insolenza, ma la sua faccia non mi piace, Monsieur Ratchett»), in genere è diplomatico, perfino premuroso.

Risponde tuttavia in modo diverso a seconda della distanza, il coinvolgimento e l'ambiente. In base al contesto tira la corda fin che può, senza badare alle conseguenze.
«Questa è una domanda maledettamente scorretta.»
«Lo so, ma la faccio lo stesso.»
Alla resa dei conti traspare un'umanità inaspettata  che contribuisce a stemperare la chiusura frettolosa e a tratti spiazzante del romanzo stesso.

Merita un'attenzione particolare la recitazione di Peter Ustinov (1921-2004).

In Assassinio sul Nilo (1978) e Delitto sotto il sole (1982) è una figura tutt'altro che fredda, talvolta buffa: quella di un bambino pestifero e di un vigilante sui generis, al cui sguardo indiscreto nessuno sfugge: «Io sono di quelli che ascoltano dietro le porte».
Affiora una forte e controllata autostima che gli consente di parare i colpi degli altrui pregiudizi. E fa, del suo essere provocatorio, il proprio biglietto da visita, cui non manca un salutare entusiasmo infantile.
«Che maledetto spione francese!»
«Belga. Sarò anche uno spione, ma sono belga. Ci tengo.»
«Non si vergogna di impicciarsi degli affari degli altri?»
«È l’unico difetto che ho.»

David Suchet e Kenneth Branagh.

David Suchet è veramente un caso a parte, avendone vestiti i panni per quasi venticinque anni, in una delle serie più longeve di cui si abbia notizia – Poirot, di cui è possibile vedere le ultime sette stagioni su Prime Video –, recitando in tutte le storie che Dame Agatha gli ha dedicato, e di cui ha dato un prezioso e dettagliato resoconto in Poirot and me (Headline Book Pub Ltd).
Approccio ancora diverso è quello di Kenneth Branagh che abbiamo visto nel 2017 in Assassinio sull'Orient Express.


In Assassinio sul Nilo (2022) Kenneth Branagh apre uno spiraglio inedito sul passato di Hercule Poirot, e su ciò che l'ha reso quel che conosciamo.

Contravviene in ciò al "canone", mostrandocelo giovanile in piena prima guerra mondiale, in trincea.
Il canone lo vorrebbe già anziano nel 1914 (essendo nato tra il 1854 e il 1856, quindi coetaneo di Sherlock Holmes), ex capo della polizia belga, e profugo (The mysterious affair at Styles).
Proprio nel contesto della prima guerra mondiale (1916) Agatha Christie – allora infermiera a Devon – avrebbe conosciuto chi le avrebbe ispirato l'illustre detective.
«Then I rembered our Belgian refugees. We had quite a colony of refugees living in the parish of Tor… Why not make my detective a Belgian?» Anne Hart, Agatha Christie's Poirot: The Life and Time of Hercule Poirot (Harper Collins, 2014)

Assassinio sul Nilo (2022) ha il merito di aver aperto uno spiraglio senza chiuderlo del tutto.

Kenneth Branagh gioca molto sulla vis drammatica, riuscendo a esprimere una spiccata problematicità e un coinvolgimento emotivo più pronunciato di quello avvertibile nella pellicola precedente. Il rischio corso, però –  specie se produrrà altri episodi  – è quello di trasbordare e spingere troppo oltre la rielaborazione del personaggio.
Sullo sfondo non manca un chiaro intento introspettivo, dietro una figura calcolatrice, simmetrica fino alla paranoia, che tende a parlare di sé in terza persona.

Lo sguardo acuto e simmetrico viene portato alle estreme conseguenze da David Suchet, ma anche Kenneth Branagh non scherza: il loro Poirot vede il mondo come deve essere.

La soluzione è sempre lì, a portata di mano, evidente, non il prodotto di un ragionamento tout court.
Insomma: le cellule grigie del detective belga non funzionano in modo diverso dalla mente di Sherlock Holmes.
«Per lunga abitudine il lavoro dei miei pensieri è così rapido, che sono arrivato a quella conclusione senza esser conscio dei passaggi intermedi.» Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso
In Assassinio sull'Orient Express (2017) Branagh-Poirot diceva: «Esiste solo giusto e sbagliato, non c'è via di mezzo». Malgrado ciò, le certezze più granitiche si sgretolano: «Stavolta non vedo la crepa nel muro…» Quasi uno shock, questo, inavvertibile o assente nell'interpretazione di Albert Finney.
Assai più drammatico, in un'altra versione, è lo sfogo del Poirot di David Suchet: «Le norme della legge devono essere tenute alte, se cadono si raccolgono e si portano ancora più in alto».

A nessun occhio esterno verrebbe in mente di apostrofare il Poirot di Branagh: "Che buffo ometto". È una figura più marziale, amletica, quasi austroungarica.

In Assassinio sul Nilo, la tragedia non rimane sullo sfondo ma emerge, e la storia raccontata è lungi dall'assumere i contorni di un "melodramma infantile". Anzi, la tragedia la respirano tutti, non solo Branagh-Poirot che vediamo in più di un momento di fragilità, persino in un crollo psicologico, forse impensabile per un'efficace macchina risolutrice di quiz polizieschi («Mi perdoni, lo champagne libera la memoria e la bocca»).

Assassinio sul Nilo, il film, come il romanzo, è ambientato negli anni Trenta.

Così come, chiaramente, la versione del 1978. Certo, non possono essere gli stessi gli anni Trenta visti con gli occhiali degli anni Settanta, e di nuovo ora con quelli dei nostri anni Venti. Ci sono "i nuovi ricchi" che non trovano nella ricchezza sufficiente sicurezza perché preda di arrampicatori sociali; fortune da preservare e di cui approfittare. Vi è tutto un mondo in controluce e - sotto la lente di ingrandimento - una nobiltà decadente o decaduta, non priva di scheletri negli armadi.
Intensa, feroce e moderna la competizione, coerente con l'epoca, fatta di un forte ricambio generazionale e di fortune, tra chi non ha niente e vuole avere tutto, e chi ha già tutto e troppo e si sente un pesce fuor d'acqua.
Ecco allora anime spezzate, ammalate di una rabbia insidiosa. Non si sa dove fuggire, dove trovare riparo alle proprie debolezze. Ed ecco Gal Gadot, nella parte dell'ereditiera Linnet Ridgeway-Doyle, sbraitare: «Fammi un prezzo, compro tutta la nave, tutto il paese se necessario».

Il Poirot di Branagh è talmente addentro alla storia che le ombre dei personaggi sono anche le sue: si muovono sullo sfondo insieme a quelle dei sospetti. 

E, alla fine, (allontanandosi anni luce dalla versione di Ustinov) non ha più granché del distaccato vigilante provocatore.
Rimane la costruzione rigorosa del dilemma poliziesco, vero cubo di Rubik in cui ogni pezzo è sì alla rinfusa, ma non ne manca nessuno, e ciascuno si lega intrinsecamente all'altro, come si deve in un perfetto incastro.

Questo il merito di Branagh e di David Suchet: il giallo non è solo struttura. La storia è un sentiero già tracciato cui aggiungere un'anima e molto altro.

Cosa che rende interessante vagliare le diverse trasposizioni di uno stesso romanzo di Agatha Christie.
Si giunge quindi - come di consueto - alla resa dei conti che qualche volta scardina un modello e apre nuovi e altri varchi. Come il ritratto di un Poirot molteplice, sempre più e diversamente appassionato (non si può negare che lo sia), la cui irreprensibilità assomiglia a un baluardo, a una protezione.



Davide Dotto


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