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Speciale The Week: Laos, Thailandia e Birmania

Speciale The Week: Laos, Thailandia e Birmania

The week Di Argyros Singh. Il reportage sugli eventi che hanno segnato la geopolitica e l'attualità del Sudest asiatico nell'ultimo anno: Laos, Thailandia e Birmania.

Questo speciale di The Week si concentrerà sull’importanza del Sudest asiatico nella contesa USA-Cina, ma verranno citate situazioni importanti nella più vasta area dell’Indo-pacifico, utili a evidenziare alcuni punti chiave. Le fonti specifiche sono citate alla fine di ogni capitolo, ma per l’impostazione generale mi sono affidato al saggio di Sebastian Strangio, All’ombra del dragone. Il Sudest asiatico nel secolo cinese, Add, Torino, 2022.

  1. Laos
  2. Thailandia
  3. Birmania


Laos

Il Laos è una terra di mezzo: manca di uno sbocco sul mare ed è attraversato da montagne, a esclusione di una sottile linea fertile lungo il Mekong. Storicamente, il Laos è sempre stato schiacciato dai vicini: Cina a Nord, Vietnam a Est, Siam e Birmania a Ovest.
Negli anni Novanta dell’Ottocento, i francesi “idearono” questo Paese, pensandolo come un cuscinetto tra i territori di loro interesse (Vietnam) e quelli di interesse britannico (Siam, Birmania). Oggi resta ancora evidente l’artificiosità di questa creazione sulla mappa, essendoci più abitanti di etnia lao nel nordest della Thailandia che nello stesso Laos.

Rispetto alla Cina, i rapporti sono ambigui.

C’è un forte sentimento anti-cinese, ma il governo del Partito Rivoluzionario del Popolo Lao (Prpl) mantiene in sordina le tensioni. Come in Cambogia, tuttavia, alcuni nodi stanno venendo al pettine. Diversi progetti infrastrutturali hanno un costo ingente per le comunità laotiane. La popolazione ottiene denaro in cambio delle proprie terre, sfruttate dai cinesi per costruire dighe e zone economiche speciali. Migliaia di laotiani sono stati sfrattati dalle proprie abitazioni e le monocolture intensive importate dai cinesi prevedono l’uso massiccio di pesticidi, che stanno inquinando le riserve idriche del Paese.

Nel 2016, il nuovo governo guidato da Thongloun Sisoulith ha avviato una campagna contro la corruzione e gli eccessi dei membri del partito.

Ha inoltre proibito la creazione di nuove piantagioni di banane, cercando di diversificare la produzione. In politica estera, Sisoulith ha costruito nuovi rapporti con i membri dell’Asean, con il Giappone e con gli Usa, allentando quelli stretti in precedenza con la Cina.
I collegamenti infrastrutturali con quest’ultima rendono però il Laos molto fragile nella sua parte settentrionale. Solo nel meridione predominano le storiche influenze vietnamita e thailandese: proprio con la Thailandia rimangono vive le comuni radici religiose e culturali.

Con l’inizio del nuovo anno, l’inflazione laotiana su base annua continua a salire, raggiungendo a febbraio il 41,3%.

Secondo l’Ufficio statistico del Paese, l’impennata è dovuta all’aumento del prezzo dei trasporti (+47,4% rispetto a febbraio 2022). Aumentano anche i prezzi dei farmaci (42,4%), i servizi alberghieri e di ristorazione (36,2%), il costo di alloggi, acqua ed energia (28,3%).
Il governo ha abbassato i tassi di interesse e ha limitato l’uso delle riserve valutarie per l’importazione di beni essenziali, ma il Laos non può fare a meno dell’import. L’obiettivo è quindi implementare la lotta alla corruzione, abbandonare il modello economico basato su infrastrutture finanziate a debito e ampliare la base imponibile.

Il Laos sconta non solo problemi interni, ma anche le conseguenze della pandemia.

Il 2023 dovrebbe però fornire ossigeno al Paese attraverso il turismo: il governo prevede per l’anno 1,4 milioni di visitatori, tra cui 368mila cinesi. Nel 2024, inoltre, il Laos ricoprirà la presidenza di turno dell’Asean e conta di accrescere l’attenzione su di sé, tornando a sognare il record di 4,8 milioni di visitatori raggiunto nel 2019.

Sul tema del buon vicinato, nel 2022 è ricorso il sessantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Vietnam e Laos e il quarantacinquesimo anniversario della firma del Trattato di amicizia e cooperazione Vietnam-Laos.

A gennaio 2023, i premier Pham Minh Chinh e Sonexay Siphandone hanno firmato una serie di accordi di cooperazione. Rispetto al 2021, l’anno scorso il fatturato commerciale dei due Paesi ha visto un aumento del 24% e le esportazioni vietnamite in Laos hanno raggiunto i 656 milioni di dollari (+10,4%).
Il Laos è il primo Paese in cui finiscono gli investimenti diretti esteri (Ide) vietnamiti, che superano al momento i 5,34 miliardi di dollari Usa. Il Vietnam esporta in Laos soprattutto i prodotti petroliferi e dell’industria agricola, tra cui i fertilizzanti. Il Laos è invece uno dei principali esportatori di gomma naturale al mondo e le aziende vietnamite la impiegano per pneumatici e prodotti in gomma industriale. Le foreste del Paese sono inoltre famose per il teak, il palissandro e altri legni duri. Nel 2022, i due Stati hanno celebrato l’Anno della Solidarietà e dell’Amicizia: il loro obiettivo dichiarato è di raggiungere una crescita commerciale stabile del 10-15% annuo.

Thailandia

Nel secondo Novecento, grazie ai capitali giapponesi e statunitensi, il Paese si era ammodernato e in qualche misura occidentalizzato. Molti giovani thailandesi si erano formati nelle università americane e Washington era definita “grande amica” (maha mitr).
Oggi, però, la Cina è diventata il primo partner commerciale della Thailandia, superando nel 2007 gli Usa e nel 2014 il Giappone. L’attenzione di Pechino per il Paese ha ragioni strategiche: per ridurre la dipendenza dallo Stretto di Malacca, la Cina ha bisogno di aprirsi una via diretta tra l’Oceano Indiano e il Mar Cinese Meridionale tramite il canale di Kra. A ostacolare questo obiettivo, le divisioni interne thailandesi, con una regione meridionale in cui serpeggia il separatismo mussulmano.
La Thailandia non ha comunque voltato le spalle agli Usa e agli storici alleati. Per tradizione, il Paese attua una diplomazia della “canna di bambù”, oscillando tra le potenze per trarne vantaggi personali, senza mai esporsi troppo a una specifica influenza.

In merito agli ultimi aggiornamenti, il 20 marzo il re Maha Vajiralongkorn ha approvato un decreto per lo scioglimento del parlamento, in vista delle elezioni di maggio.

Il confronto è avvenuto tra un gruppo di partiti d’opposizione e l’establishment sostenuto dai militari, che ruota intorno alla famiglia miliardaria Shinawatra, i cui partiti vincono le elezioni dal 2001.
Il Pheu Thai Party è il principale partito d’opposizione, con un sostegno popolare – secondo i sondaggi pre-elezioni – del 38,2%. Al governo dal 2014, in seguito a un colpo di Stato, si trovava invece lo United Thai Nation Party, guidato dal generale Prayut Chan-o-cha, alla vigilia in forte calo nei sondaggi del National Institute of Development Administration (Nida).
Domenica 14 maggio si sono tenute le elezioni, che a sorpresa hanno visto vincere il partito riformista e democratico Move Forward, con l’ottenimento di 151 seggi su 500. Il leader, Pita Limjaroenrat, ha escluso una collaborazione con i militari, ma si è aperto agli altri partiti d’opposizione, tra cui il più importante, il Pheu Thai, che ha ottenuto 141 seggi. Per svincolarsi dai militari, Limjaroenrat dovrà comporre una coalizione che arrivi almeno a 376 seggi. Argyros Singh, The week: focus sugli eventi tra l'8 e il 22 maggio

Birmania

La Birmania ha sempre mal sopportato l’eccessiva dipendenza dalla Cina, che sembra però inevitabile con una frontiera lunga ben duemiladuecento chilometri. Anche per questo il ruolo dei militari non è mai stato secondario. Nello scorso secolo, l’esercito Tatmadaw aveva combattuto i ribelli comunisti sostenuti da Pechino, per questo la svolta del 1988 venne vista con scetticismo. In quell’anno, gli accordi tra i due Paesi portarono beni di consumo cinesi in Birmania, ma questo mise in crisi la produzione interna. Dallo Yunnan provenivano migranti economici, mentre la Birmania esportava giada, minerali e tronchi di teak. L’anno successivo il Partito comunista birmano perse il potere, che finì nelle mani di ben quattro milizie etniche, con cui presto Pechino strinse rapporti.

Sul piano strategico, i cinesi sono interessati alla Birmania perché essa consente l’accesso al Golfo del Bengala e all’Oceano Indiano.

Inoltre, la migrazione di lavoratori permette alla Cina di ridurre la povertà delle sue province nell’entroterra.
Come in altri Stati della regione, anche qui i magnati di etnia cinese concentrano la ricchezza nelle proprie mani, per esempio con una delle più grandi società birmane, la Asia World. Questa, nel 1998, si occupò di allargare e riasfaltare la Strada di Birmania, principale infrastruttura stradale del Paese, che oggi tuttavia versa in pessime condizioni.

La Birmania è un Paese multietnico, con una distribuzione del potere eterogenea, che ruota intorno a pochi leader, in genere di estrazione militare.

I principali conflitti interni nascono per ragioni etniche e rispecchiano una geografia sociale confusa, frutto della storica suddivisione britannica.
Ad agosto 2017, nella zona litorale dello Stato Arakan, una regione della Birmania occidentale, scoppiarono le violenze. L’esercito birmano, con l’aiuto dei vigilantes della popolazione arakanese buddhista, cominciò lo sterminio dei rohingya, un gruppo etnico a maggioranza mussulmana.
Arakanesi e nazionalisti birmani dell’esercito non avevano buoni rapporti, ma entrambi consideravano i rohingya come clandestini provenienti dal confinante Bangladesh, che minacciavano l’identità buddhista del Paese. I rohingya vengono così chiamati bengalesi o kala, un termine spregiativo per definire le persone con fisionomia indiana.

Sull’onda di queste e altre tensioni, la Birmania è finita nell’isolamento internazionale e la Cina ne ha approfittato, spingendo per la ripresa dei lavori sulle opere rimaste in sospeso dal 2017.

I due Paesi hanno inoltre firmato il China-Myanmar Economic Corridor (Cmec), un’estensione della Bri per collegare lo Yunnan al mare.
In merito alla difficile gestione dei conflitti interni, la Cina ha favorito gli accordi di pace per tutelare i propri confini, ma ha poi sfruttato il legame con alcuni gruppi etnici armati per fare pressioni sul governo di Naypyidaw. In particolare, i cinesi sostengono la principale forza ribelle birmana, lo United Wa State Army (Uwsa), dislocata nello Stato Shan con un totale di trentamila uomini.
Una nuova svolta è arrivata con il colpo di Stato del 1° febbraio 2021, con cui l’esercito birmano ha rovesciato il governo della National League for Democracy (Nld), ponendo in arresto l’ex presidente Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e altri parlamentari neoeletti. Il comandante in capo del Tatmadaw, Min Aung Hlaing, ha parlato dei brogli che, a suo dire, avevano interessato le elezioni del novembre 2020.

Ancora una volta, laddove i vicini e gli occidentali hanno preso le distanze e hanno introdotto delle sanzioni, come al tempo dello sterminio dei rohingya, la Cina ha deciso di stringere rapporti con la nuova giunta militare, arrivando persino a fornire al Tatmadaw un sottomarino.

La scelta cinese si è basata su un calcolo cinico e pragmatico, ma che ha portato a un significativo deterioramento dell’immagine del Paese nel Sudest asiatico. Nel sondaggio annuale dell’Iseas-Yusof Institute di Singapore, è risultato che nel 2021 il 26,3% degli intervistati birmani non nutrisse alcuna fiducia nella capacità cinese di contribuire alla pace e alla sicurezza globali. Nel 2022, a seguito del colpo di Stato, la percentuale di scettici era salita al 77,1%, con un 87,3% che si dichiarava preoccupato per la crescente influenza economica cinese nel Paese.

Sul Laos – thediplomat.com e vietnam-briefing.com | Sulla Thailandia – bloomberg.com e bangkokpost.com | Sulla Birmania – irrawaddy.com, jamestown.org e aljazeera.com

Reportage: Il Sudest asiatico

Nelle prossime puntate del reportage:
  1. Vietnam e Cambogia
  2. Laos, Thailandia e Birmania
  3. Singapore e Malesia
  4. Indonesia e Filippine



Argyros Singh


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