Gli scrittori della porta accanto

4 weeks, novembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, novembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks Di Argyros Singh. Cosa è successo nel mondo a novembre? La tregua tra Israele e Hamas, i diritti delle donne in Iran, i femminicidi in Italia, sviluppi politici in Birmania, gli incontri diplomatici tra Stati Uniti e Cina e le elezioni in Argentina.

4 Weeks, notizie dal mondo: ogni mese, il focus sui principali eventi accaduti durante le quattro settimane precedenti.
Nel mese di novembre, la recente tregua in Medio Oriente, il conflitto tra Israele e Hamas, per proseguire con la questione dei diritti delle donne in Iran. Venendo all’Italia, riporto i dati aggiornati sui femminicidi del 2023. Ritorno infine sullo scenario internazionale, con gli ultimi sviluppi politici in Birmania, i recenti incontri diplomatici tra Stati Uniti e Cina e le interessanti elezioni in Argentina.



La guerra Israele-Hamas

Venerdì 24 ha segnato un primo spiraglio di luce nella Striscia di Gaza. Un cessate il fuoco, mediato da Qatar, è durato per sette giorni (anziché per i quattro previsti). L’accordo prevedeva il rilascio di ostaggi rapiti da Hamas in cambio di prigionieri palestinesi e di aiuti umanitari a Gaza. Sono stati rilasciati circa 102 ostaggi israeliani (ne rimangono ancora circa 140) e 210 prigionieri palestinesi. Già mercoledì 29, però, il premier Benjamin Netanyahu ribadiva l’intenzione di riprendere la guerra al termine della tregua: «Non c’è alcuna possibilità che non torneremo a combattere fino alla fine. Questa è la mia politica, l’intero gabinetto la sostiene, l’intero governo la sostiene, i soldati la sostengono, il popolo la sostiene: questo è esattamente ciò che faremo».
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha affermato che la Striscia di Gaza si trovi in un’epica catastrofe umanitaria. L’Onu stima in più di 1,8 milioni gli sfollati, di cui circa il 60% si trova in rifugi dell’agenzia Unrwa, in cui la portavoce dell’Oms, Margaret Harris, ha riscontrato epidemie di malattie infettive.

I raid israeliani sono iniziati dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, che aveva portato a 1200 uccisioni e al rapimento di centinaia di ostaggi.

Da allora, le operazioni aeree e terrestri israeliane avrebbero ucciso circa quindicimila persone, tra cui un 40% di bambini, secondo i funzionari del ministero della Sanità nella Striscia di Gaza, che tuttavia è una fonte non del tutto affidabile, essendo espressione di Hamas. L’Idf ha suddiviso la Striscia in aree numerate e ha diffuso la mappa ai residenti, in modo tale che i civili abbiano istruzioni sui prossimi movimenti dell’esercito, che, dopo aver mietuto migliaia di vittime, sta compiendo sforzi per riuscire a distinguere i civili dai terroristi, che, a differenza di un esercito regolare, non indossano in genere divise e si confondono tra la folla.

Con l’inizio di dicembre, la tregua è venuta meno.

L’obiettivo di Israele, secondo Netanyahu, rimane la distruzione delle capacità militari e di governo di Hamas, oltre alla liberazione degli ostaggi. Ha inoltre affermato che Israele si assumerà la responsabilità generale della sicurezza nella Striscia per un periodo indefinito, pur non volendo rioccupare il territorio, lasciato nel 2005.
Forte dell’arruolamento di trecentomila riservisti e di una forza permanente di centosessantamila unità, l’Idf ha finora distrutto centinaia di tunnel costruiti sotto Gaza e ha affermato di aver ucciso molti terroristi, tra cui comandanti di Hamas. I soldati israeliani periti sono 390, la maggior parte nell’attacco del 7 ottobre.
Non è chiara la strategia politica di Israele per il futuro della Striscia. Sembra che dai negoziati sia emersa la possibilità di reintrodurre nel territorio l’Autorità Palestinese (AP), che rappresenta il partito Fatah, acerrimo nemico di Hamas e da anni in grave calo dei consensi tra i palestinesi.


Gli scioperi della fame in Iran

L’attivista iraniana Narges Mohammadi, Premio Nobel per la pace 2023, ha iniziato uno sciopero della fame in carcere a inizio mese. Detenuta dal 2021 nel carcere di Evin, a Tehran, la donna soffre già di problemi cardiaci e polmonari: la famiglia aveva chiesto un trasferimento d’urgenza in ospedale, ma le era stato negato per il suo rifiuto di indossare l’hijab.
La protesta ha lo scopo di evidenziare i ritardi e la trascuratezza delle cure mediche per i detenuti, oltre a condannare l’obbligatorietà dell’hijab. La cinquantunenne rifiuta il cibo secco e beve soltanto acqua con zucchero o sale. Mohammadi è vicepresidente dell’organizzazione non governativa Defenders of Human Rights Center, ed è stata incarcerata più volte per le accuse rivolte allo Stato.

Le tensioni tra il governo e le donne iraniane erano esplose nel settembre 2022, a seguito della morte della ventiduenne Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale per aver indossato in maniera impropria l’hijab.

A luglio 2023, la polizia morale ha ripreso a pattugliare e a far applicare la regola del velo, dopo una sospensione durata alcuni mesi. A settembre, il parlamento iraniano ha infine approvato un disegno di legge che impone sanzioni più pesanti e condanne fino a dieci anni di carcere per gli attivisti che protestano sul tema.
A ottobre, la sedicenne Armita Geravand è morta in coma, dopo essere stata presumibilmente aggredita dalla polizia morale perché non indossava l’hijab. Le autorità iraniane hanno minimizzato l’accaduto, parlando di problemi di pressione sanguigna.
Accanto a Mohammadi, è in sciopero della fame, da giovedì 23, anche l’attivista Zohreh Sarv, detenuta da ottobre 2021 con l’accusa di propaganda contro il sistema. Anche a lei sono state negate le cure mediche.

Mentre la lotta per i diritti delle donne prosegue, da giovedì 2, per assurdo, il Forum sociale del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani è presieduto dall’Iran.

La nomina era avvenuta lo scorso maggio, e il Centro per i Diritti Umani in Iran (Chri) aveva parlato di un oltraggio. Il direttore del Chri, Hadi Ghaemi, ha utilizzato queste parole: «La nomina di un funzionario iraniano a presiedere un organo dell’Unhrc, mentre il Consiglio sta indagando sul massacro di centinaia di manifestanti pacifici da parte della Repubblica islamica, riflette una scioccante cecità etica.»

La violenza sulle donne in Italia

Nelle ultime due settimane, la scomparsa e poi l’omicidio di Giulia Cecchettin, una ragazza veneta di ventidue anni, sono stati al centro del dibattito pubblico italiano. Questo ennesimo caso di femminicidio è parte delle 106 donne italiane uccise dall’inizio dell’anno al 19 novembre.
Cecchettin viveva in provincia di Venezia, a Vigonovo, e stava per laurearsi in Ingegneria biomedica all’Università di Padova. L’ex fidanzato, Filippo Turetta – ora accusato di omicidio volontario aggravato dal vincolo affettivo – frequentava la stessa facoltà. La ragazza aveva interrotto la relazione da diversi mesi, pur continuando a frequentare il ragazzo.
L’11 novembre, Turetta era andato a prendere in macchina Cecchettin e, da quel giorno, non si erano più avute sue notizie.

Un testimone li aveva visti litigare in un parcheggio di Vigonovo e la donna era stata forzata a rientrare in macchina sanguinante.

Nei giorni successivi, l’auto era stata registrata in Austria, mentre il corpo senza vita della ragazza veniva trovato il 18, nella zona del comune di Barcis, in provincia di Pordenone. Secondo le informazioni raccolte dall’agenzia Ansa, sono state rilevate almeno venti coltellate e si presume che la vittima fosse già morta quando il corpo è stato abbandonato.
Il giorno dopo, Turetta è stato arrestato nella zona di Lipsia, nella Germania orientale, per poi essere estradato in Italia alcuni giorni dopo.

Il caso ha riacceso i riflettori sul tema dei femminicidi, portando nelle piazze migliaia di persone.

Secondo il report annuale del Servizio analisi criminale della Direzione centrale polizia criminale, aggiornato al 19 novembre, da gennaio sono stati registrati 295 omicidi, di cui 106 con vittime femminili. Non si tratta sempre di femminicidi, ovvero dell’uccisione di donne motivata dal desiderio di annientarne l’indipendenza, ma ciò che è certo è che 87 di queste vittime siano morte in àmbito familiare o affettivo e che 55 di loro siano state assassinate per mano del partner o ex partner.
Il report sottolinea un cambio di tendenza rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con un aumento del numero di omicidi del genere che da 53 diventano 55 (+4%).

Il femminicidio è tuttavia solo il culmine di una violenza fisica e psicologica che è parte di un fenomeno spesso sommerso.

Secondo Nadia Somma, del consiglio direttivo di Dire, la rete nazionale dei Centri antiviolenza (Cav), il fenomeno avrebbe ricevuto un’attenzione mediatica soltanto nell’ultimo decennio, rendendo quindi difficile un calo drastico degli omicidi.
Le denunce per i cosiddetti “reati spia” di una possibile violenza sono aumentate negli ultimi anni, ma soltanto il 27% decide di avviare un percorso giudiziario. Stando a un report del Ministero dell’Interno, pubblicato a settembre, nel periodo 2013-2022 le denunce di maltrattamenti con vittime femminili sono passate da 9712 a 19.902; gli atti persecutori sono passati da 9689 a quasi quattordicimila; la violenza sessuale è passata da 4488 casi a 6291.

In Italia, sono presenti 373 Centri antiviolenza e 431 Case rifugio, ma solo il 26,8% delle donne si reca ai Cav di sua iniziativa.

Tra queste donne, il 61,6% ha figli e il 72,2% dei minori ha assistito alla violenza di un uomo sulla madre, subendola a sua volta per quasi il 20% dei casi.
Secondo Somma, vi è la necessità di intervenire con politiche sociali che portino a una maggiore indipendenza economica e sentimentale delle donne. È invece scettica sul tema dell’educazione affettiva, in un contesto digitale aggressivo e invadente.
I governi degli ultimi quattro anni hanno finanziato soprattutto interventi in risposta a violenze già avvenute, ma hanno speso meno per le strategie di prevenzione. Secondo i dati portati da ActionAid, inoltre, i fondi antiviolenza si sarebbero ridotti persino del 70% nell’ultimo anno.

La situazione birmana

La giunta militare del Myanmar, che a febbraio 2021 prendeva il potere con un colpo di Stato ai danni del governo di Aung San Suu Kyi, si trova a difendersi su più fronti. Le forze della resistenza hanno trovato un alleato nelle milizie etniche che popolano il Paese e stanno puntando a prendere il controllo delle principali città. L’Alleanza delle Tre Fratellanze, che riunisce tre compagini etniche del nord-est, ha avviato l’Operazione 1027 (perché è stata lanciata il 27 ottobre) e gli scontri hanno portato a circa 335mila sfollati e a quasi 200 civili uccisi, secondo l’Onu.
Parte dei ribelli sostiene di voler stabilire una democrazia federale, in cui i vari popoli che abitano il Myanmar possano avere pieni diritti e una rappresentanza. Bo Nagar, comandante dell’Esercito rivoluzionario nazionale birmano (Bnra), ha affermato che sia giunta la fine del radicato potere dell’esercito birmano sulla politica statale.

Alcune compagini ribelli hanno anche obiettivi di lungo periodo.

Come la lotta al gioco d’azzardo e alla produzione di narcotici, due piaghe che coinvolgono molte aree del Paese al confine thailandese e cinese, un business illegale che coinvolge i sindacati cinesi e che ha messo in imbarazzo Pechino, con la denuncia di lavoratori ridotti in schiavitù e talvolta uccisi, quando tentavano di fuggire.
Nelle regioni montuose al confine settentrionale dello Stato Shan, la giunta ha perso il controllo di almeno sei città, tra cui Chin Shwe Haw e Kunlong, luoghi strategici per il commercio con la Cina, da cui passavano risorse che aggiravano le sanzioni internazionali. I ribelli hanno poi rivendicato il controllo di Chin Shwe Haw e delle strade che portano alla città di Muse, da cui passa il 98% del commercio transfrontaliero con la Cina.

Si registrano molte defezioni nell’esercito birmano, demotivato anche dalla mancanza di sostegno da parte della popolazione civile.

Sono così aumentate le violenze contro i civili, una storica strategia dell’esercito birmano per intimorire i rivoltosi.
I gruppi etnici armati che stanno combattendo sembrano concordi, in questa fase del conflitto, nel non considerare la giunta un interlocutore legittimo e mirano quindi a un suo annientamento. Ciò che ci si domanda, però, è se sapranno trovare un punto di accordo una volta raggiunto il loro scopo, oppure se cederanno agli storici attriti, dando vita a una nuova fase della guerra civile.

I tentativi di distensione tra Cina e Stati Uniti

A metà novembre, a margine del vertice Apec a San Francisco, è stato orchestrato un incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden.
Dal 2010, i rapporti tra le due potenze sono mutati. Per gli Usa, l’ascesa cinese è una sfida diretta alla supremazia statunitense e ai valori globali alla base dell’ordine post-1945. Sono quindi cresciuti gli allarmi americani relativi alla violazione dei diritti umani, al furto di proprietà intellettuale e all’aggressione militare. Da parte sua, la Cina ha cominciato a rivendicare una sorta di “sfera di influenza” nel Pacifico e nel Sudest asiatico, allarmando i Paesi della regione.

Biden e Xi hanno discusso sul tema dell’egemonia.

La Cina ha ribadito la sua retorica sul partenariato cooperativo, mentre gli Usa hanno ragionato in termini di competizione strategica, di pratiche commerciali eque e di rafforzamento delle alleanze.
Il vertice non ha risolto alcun problema particolare, ma è servito a impostare un dialogo che andrà mantenuto negli anni a venire, per sviluppare princìpi condivisi e individuare le questioni globali su cui collaborare.

Il ripristino delle relazioni Usa-Cina, dopo anni di crescenti tensioni, richiederà una chiarezza comunicativa da entrambe le parti.

È necessario un confronto schietto tra leader, tra militari (per discutere sui diversi approcci alle situazioni di crisi) e tra ricercatori accademici.
In vista delle elezioni statunitensi del novembre 2024, Biden ha per ora ottenuto un impegno da parte di Xi sulle esportazioni cinesi di fentanyl e sul ripristino dei colloqui tra militari.
Da parte cinese, Xi si trova a gestire un Paese indebolito in termini economici, oltre al nervosismo intorno alle elezioni di gennaio a Taiwan, dove i sondaggi danno in vantaggio il Partito Democratico Progressista al potere, che ha rapporti molto freddi con Pechino. Come ha affermato Samir Saran dell’Observer Research Foundation di Nuova Delhi, la Cina cerca un ordine mondiale multipolare, ma un’Asia orientale unipolare, mentre gli Usa il contrario. Gli accordi raggiunti a San Francisco sono un primo passo per uscire da questo schema.

Le elezioni in Argentina

Il mese scorso scrivevo delle elezioni argentine e dell’imminente ballottaggio. Javier Milei è diventato presidente dell’Argentina, la terza economia più grande dell’America Latina, ma in grave crisi.
Una delle proposte di Milei è la dollarizzazione del Paese, con l’eliminazione della Banca Centrale argentina per distruggere l’iperinflazione (e il peso argentino). Per farlo, il presidente avrebbe bisogno dell’approvazione del Congresso e potrebbe essere necessaria una modifica della costituzione. L’impiego del dollaro Usa come valuta nazionale renderebbe la Federal Reserve americana responsabile della politica dei tassi di interesse. Le trattative, comunque, non saranno semplici: il suo movimento Libertad Avanza è la terza forza politica più grande al Congresso.
Sempre sul fronte interno, Milei ha espresso opinioni contrastanti sulla dittatura militare del 1976-83, riducendo la stima dei desaparecidos da trentamila a circa 9000 e sostenendo che Stato e guerriglia antigovernativa abbiano entrambi commesso crimini contro l’umanità. Ciò ha scatenato le proteste delle madri e delle donne degli scomparsi di Plaza de Mayo.

Milei è anche uno scettico del cambiamento climatico.

Non si definisce un negazionista, ma ritiene che il pianeta stia attraversando uno dei suoi abituali cicli di temperatura e che la responsabilità non possa essere imputata all’essere umano.
Il cambiamento climatico è un tema caro a papa Francesco, che Milei aveva definito – prima di essere eletto – un gesuita promotore del comunismo e persino un «rappresentante del maligno sulla Terra». Ciò ha reso tese le relazioni con il Vaticano e ha inimicato una larga fetta dell’elettorato cattolico argentino, sceso in piazza per protestare. Appena eletto, comunque, Milei ha effettuato una chiamata con il papa, definita amichevole, in cui ha invitato il pontefice in Argentina per il prossimo anno. Interrogato sul cambio di rotta, ha affermato che, da presidente, si debba adottare un maggiore pragmatismo.

Pragmatismo ripreso anche nel rapporto con Cina e Brasile, i due principali partner commerciali dell’Argentina, dato che Milei ha affermato di volersi allineare agli Stati Uniti e al mondo libero, ma non ha tagliato di netto i rapporti con Pechino.

La Cina è il principale mercato argentino per soia, carne e cereali e Pechino ha sostenuto le deboli finanze argentine, indebitate con l’Fmi. Più tesi i rapporti con il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, dopo l’invito di Jair Bolsonaro a partecipare all’insediamento di Milei il 10 dicembre. A ogni modo, l’Argentina non entrerà a far parte del blocco Brics dal 1° gennaio 2024, com’era previsto.

L’economista Diana Mondino, probabile ministra degli Esteri, ha minimizzato l’importanza del blocco, affermando che esso sia legato più a un allineamento politico che a un reale vantaggio per il commercio tra Paesi membri.

Al contrario, Milei ha già compiuto un viaggio negli Stati Uniti per confrontarsi con funzionari statunitensi e internazionali che si occupano di prestiti e, a Washington, ha incontrato il diplomatico americano Juan Gonzalez, vicesegretario di Stato aggiunto per gli Affari dell’emisfero occidentale. Milei ha poi avuto un primo colloquio a distanza da Buenos Aires con Kristalina Georgieva, direttrice generale dell’Fmi, verso il quale l’Argentina ha un debito di 44 miliardi di dollari, già negoziato nel 2018.

Per approfondire

Sul conflitto – bbc.com, haaretz.com e wsj.com | Sullo sciopero della fame – time.com, iranwire.com e aljazeera.com | Sul caso – istat.it e wired.it | Sulla Birmania – theguardian.com, cnn.com e bbc.com | Sulla diplomazia tra le due potenze – thediplomat.com, japantimes.co.jp e foreignpolicy.com | Sulle elezioni argentine – apnews.com e worldpoliticsreview.com



Argyros Singh


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