Gli scrittori della porta accanto

[People] Pino Rando, dall'affascinante restauro dei tesori di un'antica nave alla scultura, intervista di Elena Genero Santoro

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Formazione artistica, grazie ai  corsi serali di pittura e calcografia, e un passato da restauratore presso la Soprintendenza Archeologica della Liguria, Pino Rando si occupa ora a tempo pieno di scultura.

Oggi sono lieta di ospitare sul nostro sito culturale, un personaggio davvero interessante che ho avuto il piacere di conoscere di persona quest'anno al mare. Ci racconterà qualcosa di sé, della sua vita interessante, delle tematiche che affronta, delle sue ispirazioni e delle tecniche che utilizza.
Ciao Pino, benvenuto nel mio sito!
Ciao Elena, grazie per questa intervista.

Sei nato a Savona e risiedi a Genova. Hai una formazione artistica, hai seguito corsi di pittura e calcografia. A quando risale la tua prima mostra e quando hai capito che non potevi fare a meno dell’arte? 
Avvenne quando, un giorno, andai in casa di Franco, mio compagno di banco in V elementare. Cominciammo a giocare con i suoi gessetti colorati, disegnando pupazzi, lui i suoi io i miei, che si combattevano sulla lavagna. Ad un cero punto, mi portò in fondo al corridoio a cercare, tanto per cambiare, fogli e pastelli e, dopo avermi fatto promettere che non avrei toccato nulla, aprì cautamente la porta dello studio del padre che si dilettava a dipingere figure e paesaggi e a modellare con l’argilla piccole sculture che, una volta essiccate, portava a cuocere da qualche ceramista ad Albisola. Nella stanza in penombra, man mano che ci si abituava alla poca luce, si potevano vedere sempre meglio pennelli e spatole, mirette, tele dipinte, tavolozze colorate, disegni abbozzati, tubetti di colore sparsi, argilla. Una leggera miscela di solventi aleggiava nella stanza lasciando riconoscere il profumo dell’acquaragia, il pizzicore della trementina, l’afrore untuoso dell’olio di lino e altre essenze a cui non sapevo dare il nome: per me era un odore inebriante che avevo in qualche modo già sentito, ma in quel contesto mi sembrò di sentirlo per la prima volta e in modo diverso. Uscendo toccai soltanto un blocchetto di argilla morbida sul quale lasciai l’impronta… ma Franco non se ne accorse. Tornato a casa impastai con acqua delle palle di terra, presa da un vaso di basilico, che poi colorai con dentifricio (bianco), tintura di iodio (marrone) e turchinetto (azzurro) e provai a cuocere nel forno in cucina. Da quella volta sentii spesso il desiderio di andare in un laboratorio di ceramica ad Albisola, però subito dopo la fine dell’anno scolastico i miei si trasferirono a Chiavari e Albisola si allontanò di molti chilometri. Le palle colorate forse si persero nel trasloco... ma la storia continuò. Franco invece da grande non praticò mai hobby artistici… non è strano?
La mia prima mostra personale risale al 1969, nella Galleria S. Matteo a Genova. Fu l’ultima mostra del programma espositivo della galleria che chiuse definitivamente il 25 giugno di quell’anno. Una bella mostra.

Nella vita hai svolto un mestiere affascinante. Sei stato restauratore in ruolo, dal 1983 al '97 presso la Soprintendenza Archeologica della Liguria. 

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Ci racconti qualcosa di questa tua attività e quali ispirazioni e competenze ti ha dato per la tua attività artistica?
Al mestiere affascinante ci sono arrivato, poco alla volta, passo dopo passo. Cominciai abbastanza presto a lavorare per mettere insieme qualche soldo: d’estate, tra un anno scolastico e l’altro, facevo quello che mi capitava: garzone di bottega aiutante in un distributore di benzina, aiuto elettricista, boccia in cantiere, occasionalmente imbianchino. Traslocato a Chiavari trovai Elisabetta, una ceramista con il suo laboratorio dove ebbi modo di procurarmi la creta da modellare che poi riportavo a cuocere da lei. A Elisabetta piacevano le cose che facevo e incoraggiato da questo dopo qualche tempo le chiesi di potere lavorare con lei, ma non fu possibile: il suo studio era davvero piccolo. Mi suggerì, invece, di provare in un laboratorio più attrezzato a Santa Margherita Ligure, dove andai. Stefano D’Amico mi accolse a bottega nel suo studio, frequentato da suoi amici pittori e scultori, che venivano a colorare e cuocere le loro ceramiche, e architetti per i quali realizzava pannelli architettonici anche di grandi dimensioni. Iniziai così e mi sembrò di vivere nel paese delle meraviglie con qualche tuffo nel mare di Paraggi che raggiungevo ogni tanto in bicicletta nell’intervallo di mezzogiorno.
Riguardo alla ceramica, con D’Amico imparai quasi tutto quello che fui capace di imparare osservandolo mentre lavorava, parlava, progettava, mentre modellava l’argilla. Nel frattempo, dopo una prova di disegno ero stato ammesso a seguire i corsi serali di pittura e calcografia all’Accademia Ligustica, a Genova.
Trascorsi anni d’oro e d’argento senza capirlo, ma quello che rovinava tutto e che, allora, mi pesava di più, era partire all’alba da Chiavari per Santa Margerita, nel pomeriggio andare a Genova e ritornare a casa la sera. In treno dormivo sempre.
Rimasi con D’Amico per circa due anni, poi lui dovette lasciare lo studio perché le cose non andavano troppo bene. Provai a continuare l’attività per conto mio ma, come prevedibile, con lo stesso risultato, e dovetti trovarmi in fretta un altro lavoro.
Grazie ai corsi in Accademia, mi ritrovai a disporre di una certa preparazione di base, tanto da potere pensare di tentare di dare l’esame per la maturità artistica e alla fine con le unghie e con i denti ottenni il diploma.
Dopo qualche tempo mi si presentò l’opportunità di utilizzare questo “titolo di studio” che mi permise di partecipare ad un concorso come restauratore di materiali ceramici, indetto a livello nazionale dal MIBAC e, tra diversi concorrenti vinsi assolutamente senza raccomandazioni l’unico posto disponibile a Genova, uno solo. Fortunatamente i tempi erano tali in quegli anni, da consentire a me e a una intera generazione di giovani di potere in questo modo accedere con un “semplice” diploma, a questa professione o potere anche insegnare. Oggi sarebbe impensabile: occorrono anni di preparazione universitaria stage e concorsi a ripetizione. Debbo però dire che, al contrario di quello che si potrebbe immaginare, ho sempre avuto a che fare con colleghi molto seri e abili nel loro lavoro dei quali tuttavia si sarebbe potuto con difficoltà risalire alla loro formazione: forse semplicemente era gente che aveva imparato a bottega.

Poi, ad un certo punto, il ritrovamento archeologico di una nave nei pressi di Diano Marina. Una nave romana datata al I sec d.C. che presumibilmente doveva portare provviste alle legioni impegnate in Provenza, dove però non è mai arrivata. Tu ti sei occupato attivamente di questi reperti e questa nave è stata per te una grande scoperta e una grade ispirazione. Ce ne parli?

Fu così che sgusciai attraverso la cruna dell’ago e, per allora, mi salvai dal baratro della disperazione iniziando una nuova vita. In breve mi trovai immerso in una dimensione diversa, un altro pianeta, a imparare praticamente tutto di un mondo che iniziai ad esplorare con strumenti inconsueti, assolutamente nuovi. Cominciai a conoscere poco alla volta la Liguria come mai avrei potuto immaginare: nella anatomia dettagliata delle sue vestigia, dalle testimonianze dei suoi organi vitali immersi nella terra, da un esame autoptico dopo l’altro delle sue pietre, dai resti ritrovati nel fango dei fiumi, nelle caverne, in mare.
Un santuario dopo l’altro, con il ritrovamento del relitto della nave romana naufragata nel golfo di Diano Marina, fu in mare che trovai il cuore e l’anima archeologica di questa terra, restaurando alcuni dei quei meravigliosi reperti recuperati da quel relitto, in particolare i monumentali dolia di terracotta riemersi con quello scavo: quattordici enormi sfere di terracotta tutte insieme allineate come astri… Mercurio Venere Marte, la Luna….
Fu per me un restauro assolutamente straordinario, inedito, diverso da qualsiasi altro di cui avessi esperienza sia per le dimensioni delle parti frammentarie sia per il materiale in se’, caratterizzato da riparazioni con cuciture di piombo fuso fatte in antico per unire alcune parti di quei contenitori fratturati; non disponevo di procedure previste da mettere in atto. Quelle grandi giare mi rimandarono perfino a Pirandello, e davvero provai a entrarci dentro prima del restauro per vedere se sarei riuscito ad uscirne fuori dopo averle risarcite. Per me fu un punto di svolta nella ricerca mai interrotta di esprimermi rappresentando formalmente, plasticamente, le mie riflessioni.

Scoperta la tecnica delle “cuciture” nei reperti della nave romana, la tua produzione artistica ha preso una direzione particolare. 


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La nave romana ha continuato il viaggio con te che ne hai raccolto l’eredità. Hai voluto dare risalto proprio agli elementi di giunzione, che sono diventati un elemento artistico. Ci vuoi parlare dei frammenti ricuciti che crei ed esponi e del loro significato?
Non subito, ma in quel contesto, dopo avere per un pezzo osservato e cercato di comprendere quale significato avessero quegli stupefacenti manufatti davanti ai quali ero rimasto così tanto coinvolto emotivamente, in me avvenne un folgorante cortocircuito per avere messo a contatto nel mio cervello la polarità arte e la polarità archeologia, …per quanto potessi averne consapevolezza dell’una e dell’altra: una saldatura che da allora ha dato continuamente energia e significato ad ogni mia esperienza successiva. Nei segni sulle pareti di quei contenitori percorse dal piombo fuso, vidi lettere incise di un alfabeto sconosciuto, trovai frasi, ideogrammi da decodificare, geroglifici di un linguaggio esteticamente espressivo che credetti di potere articolare sulla terra cotta, dove questa volta sarei stato io a scrivere le mie storie utilizzando quell’alfabeto, cercando in questo modo a rievocare l’idea originaria della loro bellezza formale in una storia rivista con occhi nuovi e allo stesso tempo vecchi di duemila anni.

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Cocci di ceramica legati con il piombo, scarti di fornaci e fritte. Quali sono i materiali con cui prediligi lavorare, quali tecniche usi e perché?
Il tempo mi ha portato a utilizzare i materiali più disparati e a cercarne diversi su cui sperimentare, ottenendo talvolta con successo, talvolta no, risultati interessanti e inattese epifanie, operando a volte contraddicendo di proposito quelle regole che quei materiali avrebbero richiesto per essere trattati correttamente secondo le loro caratteristiche fisicochimiche: per esempio non avrei dovuto colare in canalicoli scolpiti sull’ardesia o nel marmo piombo fuso, con il rischio di spaccare e buttare via tutto in quanto entrambe sono pietre molto sensibili al calore. Tuttavia riuscendo con attenzione e cautela ad evitare il peggio, ho potuto dimostrare a me stesso di poterlo fare e capire che ogni materiale ha un suo linguaggio specifico e prodigiosamente sa fare parlare nella sua lingua il segno, il colore, la forma che ne modificano l’aspetto. Per spiegarmi meglio, la similitudine più appropriata che mi sembra di potere fare è la differenza sonora che c’è nelle stesse note suonate con un violino, un pianoforte, una chitarra, una pietra, un metallo, un pezzo di legno, un pezzo di carta: ognuno ripete le note ma le esprime nella sua lingua.
Nella recente mostra a Dolcedo, Agosto 2016, insieme ai Giganti ho esposto alcune ceramiche della serie sottotitolata con il marchio margaritae suibus, “Frammenti”, realizzate con prodotti di scarto, “scorie”, derivanti da manufatti di argilla che durante la cottura in fornace hanno raggiunto temperature molto elevate rimanendo per un tempo prolungato a contatto diretto con il fuoco surriscaldandosi fino a sciogliersi come fa la lava vulcanica, allo stesso modo in cui meteoriti che hanno attraversato l’atmosfera diventando grumi vetrificati di terra e metallo fusi insieme.
Nella mia ricerca, ostinatamente perseguita e sistematicamente messa in opera con strumenti raccogliticci (per motivi di indigenza), le scorie scarti di fornace sono l’esatta metafora di ciò che è rimasto di un esperimento ritenuto non riuscito da un alchimista sbadato che si è disfatto di quei prodotti supertecnologici, che io ho ritrovato.                      
Non è stato facile, ma ne è valsa la pena utilizzare questi resti considerandoli come comuni prodotti su cui attuare i normali procedimenti tecnici della ceramica. Tuttavia, affascinato da questi particolari materiali, contro ogni regola usualmente applicata alla lavorazione della terracotta, stracotta in questo caso, ho trattato comunque le superfici con pigmenti ceramici, e ho provato a ricuocere e ad assemblare con grappe di piombo questi insoliti “frammenti” (…sempre della serie m.s.) modellati dalle dita del fuoco, restituendoli dopo avergli dato forma e aver messo in evidenza tutta la tormentata bellezza che ho trovato in loro.

E veniamo ai Giganti.

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I giganti, ovvero gli archetipi dell’inconscio collettivo.
C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo Ed. Biblioteca Boringhieri N.102, Torino 1977
I Giganti, sono forse il risultato di elaborazioni, riflessioni e annotazioni registrate dalla memoria, che mi hanno portato alla percezione di quella forma in cui li rappresento e che in sintesi ne definisce le sembianze mostrando in modo inequivocabile i tratti di una figura corporea ridotta alla sua essenzialità e tuttavia capace di manifestare tutta la forza della sua originaria integrità, rigida nella struttura, indefinita nei suoi molteplici contenuti possibili. I Giganti non sono facilmente riconoscibili secondo i canoni della bellezza antropomorfa codificata e acquisita dalla nostra esperienza pratica, ma possono essere meglio compresi nel modo in cui ciascuno preferisce immaginarli; riconoscendoli strumenti utili a speculare, specchi in cui riflettere i pensieri, nostri possibili alter ego. Per me i Giganti sono libere entità espressive.
I “Giganti” sono realizzati con materiali di scarto riciclati, quali polistirolo, legno, plastica, per essere utilizzati come prototipi per gli stampi necessari in fonderia per essere poi realizzati fusi in alluminio o acciaio inox, oppure bronzo, ecc. ecc.

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Ho esposto per la prima volta nel 2010 i Giganti quali: Genius Loci della Casa dell’Acqua: l’antica cisterna restaurata della Villa Romana del Varignano, vicino Porto Venere nel Golfo dei Poeti (Sp); nel 2011, sono state le Grandi Veneri Arcaiche che fanno parte in permanenza del percorso didattico nel Museo Nazionale Preistorico dei Balzi Rossi a Ventimiglia (Im); 2011, sono stati l’equipaggio della nave romana naufragata nel golfo di Diano Marina, che riprende il suo viaggio al Galata Museo del Mare, a Genova; nel 2012, sono ”I Migranti” che approdano alla Porta del Mare Janua, nel Museoteatro alla Commenda di Prè; 2012 , sono “La Famiglia dei Giganti”, nella mostra “Out of the frame”, promossa dall’Unicef, nel chiostro del Museo Diocesano a Genova; 2013, sono “Narciso alla ricerca del Genius Loci”, nel Palazzo Della Meridiana, Genova; nel 2014, sono le installazioni collocate nello spazio espositivo di Artelier, nel Cortile Maggiore di Palazzo Ducale a Genova.
Nell’ottobre 2014, un prototipo dell’installazione della Nave dei GigantiMigranti ha partecipato al LampedusaInFestival, a Lampedusa.

Vuoi fare un cenno alle mostre che hai allestito finora?

Forse per destino, Dolcedo, è per me il luogononluogo delle mie più significative esperienze espositive e forse continuerà ad essere una specie di confino volontario dove in perfetta solitudine ho allestito mostre per anni con regolarità a contatto con il pubblico: una specie di corpo a corpo, un esercizio fisico e insieme spirituale, una sorta di esperimento svolto nell’arco di una decina d’anni dove, consapevolmente, sono stato cavia di me stesso. Dolcedo è stato un punto focale in cui molta parte della mia immaginazione ha preso corpo in molteplici forme: quando sono lì se guardo una pietra si muove; nel giardino abbandonato della scuola elementare, dietro a S. Domenico, solitario tra i rifiuti c’è un rigoglioso pruno che ho chiamato Van Gogh, che dà abbondanza di frutti nel momento sbagliato (come può accadere anche alle persone), perché la scuola d’estate è chiusa e nessun bambino mai li raccoglierà: sono tonde prugne goccia d’oro che maturano e cadono a pioggerella formando ai piedi dell’albero un cerchio variegato di giallo dove nuvolette di insetti eccitati si raccontano ronzando storie brevi come la loro esistenza, succhiando da una melma di frutti marcescenti che esala fetore nella calura del pomeriggio. Il cespuglio di rose invece fiorisce ad agosto perché sono arrivato.

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Durseu, è il luogo dove la gente del posto mi ha accolto un po’ come Jean de Floret, ma è anche il posto in cui quando incontro qualcuno posso sempre parlare in ciascuna lingua con il megafono in sordina delle mie ceramiche che mi hanno consentito di dialogare e scambiare impressioni con i visitatori più eterogenei, con alcuni dei quali ho potuto a volte stringere amicizie che ancora durano, e grazie a loro ho potuto esporre in diverse città oltre confine: p.es. molto importante per me la performance alla Technische Universität di KaisersLautern, nel 2007. E poi in Svizzera, in Francia, Austria e ancora in Germania. Se non così, non saprei immaginare in quale altro modo avrei potuto fare tutto questo. E tuttora non so spiegare perché in questo luogo dove nulla cambia anno dopo anno, ho potuto scandire il passare del tempo pur rimanendo come un estraneo ad osservare le mutevoli vicende delle persone con cui ho condiviso così poco.
Scorrendo queste righe provo sensazioni complesse: è come se avessi disegnato senza volere una mappa in cui, un segno dopo l’altro ha preso forma lo schema di un tortuoso tracciato, lungo molti anni. Ora, dopo alcune semplici rilevazioni posso seguire da un punto all’altro questa nuova carta geografica: avanti dritto nella direzione del tempo, percorrendo strade viuzze stanze corridoi in cui sono andato e tornato, dove ho partecipato a pericolosi giochi a rimpiattino e dove ho trovato in agguato. Romano G. Gentileschi A. Mantegna Pontormo; sono fuggito dalla sala delle quattro stagioni di Goya al Prado, (in cui ebbi la mia prima sindrome di Standhal, assimilabile alla sensazione che si prova quando si rimane sorpresi dal menarca). Poi, grazie all’entierro del Conte de Orgaz, abbeverandomi alle fontane di Sutherland costruite sui mosaici di Gaudì, visitando Van Gogh nella sua stanza nel midì: “…o cameretta che già fosti un porto…”, dopo avere osservato gli amplessi di Bacon, studiato le ossa di Giacometti e contemplato le spine del Cristo di Grünewald a Colmar, finalmente, con la raccomandazione dell’Ecce Homo da Messina, a Genova continuai un passo dopo l’altro e qualche saltello, seguendo per corridoi angusti fili che invece di dipanarsi si andavano sempre più aggrovigliando, presi tuttavia a navigare per terra e viaggiare per mare senza prefissare rotte, seguendo la bussola traballante della curiosità, sostenuto, ora me ne rendo conto, soltanto dagli effetti anestetici di una vaga ipotesi di libertà, senza la quale non avrei potuto fare nulla.

Adesso la barca continua il suo viaggio...

A Savona sono nato senza saperlo e da lì sono andato via presto senza avere idea di quale luogo avrei potuto raggiungere. Ma il viaggio iniziò comunque entrando nel labirinto per l’apprendimento del ratto bianco, quando partendo dal suo piccolo laboratorio di ceramica, Elisabetta Arianna mi aveva messo nella mano un filo di arcobaleno e con quello mi avviai tra i sepolcri di Carrà Casorati De Chirico, nel vasto paesaggio terracqueo delle isole Fontana Boccioni Burri, tra le isole delle femmine di Campigli, fino agli atolli Sironi Savinio Schifani, agli arcipelaghi Marini, Martini,   Matisse, Mirò, Morlotti Munk, Picasso, Pollok, Artung. Camminando sulle spiagge disegnate dai bambini, dipinte dai pazzi, raggiunsi le scogliere di Calder Capogrossi, fino a sbarcare nei luoghi dove il pirata sincretista Mondrian aveva nascosto i suoi tesori, che non trovai perché capii alla fine che aveva segnato sulle carte falsi nascondigli. Continuando a vagare scoprii le remote sorgenti del fiume di Fiume, i torrenti Moor, Morandi, Munari dove potere rinnovare le scorte d’acqua. Disegnai fumose spirali scaturite dalla pipa di Borges e di tutti gli altri fumatori di pipa e le misi con i cerchi di F. Kafka tra le corna di W. Blake; in fine mi stesi sul tavolo delle dissezioni di Rembrandt, stanco di procedere senza essere riuscito a farmi un’idea di quale luogo avrei voluto raggiungere per potermi organizzare in qualche modo.
Cercai di ritornare indietro, ma mi accorsi presto che il filo che mi era stato dato tra le mani alla partenza, era stato tagliato chi sa da chi o forse accidentalmente spezzato dopo essermi addentrato un bel pezzo in chi sa quale punto del tragitto. Seguendo il capo che mi era rimasto riuscii soltanto a tornare fino all’approdo della “Nave in fondo al mare e al suo equipaggio di Giganti”, al Galata Museo nell’11.11.11, a Genova, dove finalmente ebbi almeno la possibilità di vedere l’insieme di un percorso di più di un decennio di lavoro e potere segnare un nuovo punto congruo sul giornale di bordo, con l’idea di riprendere il viaggio al più presto.
La Nave, tranne sporadici spostamenti sotto costa, è rimasta ormeggiata per qualche tempo nell’Antico Spitale dei Cavalieri di Malta, alla Commenda di Prè (metafora di darsena), da sempre luogo di accoglienza di crociati e pellegrini, incrocio per secoli di mille rotte. Ora la Felix Pacata (non ricordo perché provvisoriamente fu dato questo nome alla nave quando era ancora un relitto), e dopo brevi soste per rifornimenti e piccoli commerci, è approdata a Dolcedo da dove è poi di nuovo salpata con il suo equipaggio, issando il gran pavese di Pavese…Dopodiché è ritornata a Lampedusa, disturbing onfalos europeo nel Mediterraneo, per le commemorazioni del 3 ottobre.
Presto ritornerà in cantiere a Genova per lavori di manutenzione ordinaria.
Si sa: più in mare che in terra, si possono osservare meravigliose albe, struggenti tramonti, notti stellate, ma anche avere giorni allucinati sotto un sole implacabile, notti nere d’inchiostro, venti fortissimi, terribili tempeste e, per i Giganti in viaggio, facilmente “la morte potrebbe venire e avere i loro occhi”.

Che bolle in pentola?
Sì, ci sarebbe qualcosa di cui parlare con i Giganti. Vedremo.

Grazie Pino per essere stato con noi. In bocca al lupo per i tuoi progetti futuri.
Per ulteriori info: www.pinorando.com
gli-scrittori-della-porta-accanto

Elena Genero Santoro
Ama viaggiare e conoscere persone che vivono in altri Paesi. Lettrice feroce e onnivora, scrive da quando aveva quattordici anni.
Perché ne sono innamorata, Montag
L’occasione di una vita, ebook Lettere Animate
Un errore di gioventù, 0111 Edizioni
Gli Angeli del Bar di Fronte, 0111 Edizioni.
Il tesoro dentro, 0111 Edizioni.



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