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di Franca Adelaide Amico
Selfpublished | 108 pagine
L'acqua scorre e giocherella con le bollicine che forma picchiando contro la base della vasca. Un mulinello, un vortice come la fantasia che si accenna nella mente a sottili strati, pronti a farsi scalfire, esfoliare come fossero sottili lamine d'oro.
La penna che segue disperatamente il pensiero, che riproduce sul foglio quella sottile lamina d'oro, così sottile che temi di spezzarla già al primo tentativo di separarla dalle altre … Però ci provi lo stesso. E sai qual è la cosa curiosa? Che non sai mai se hai avuto successo. Si scrive come da ciechi si brancola in cerca di un riferimento. Il cieco, però, trovatolo, lo può toccare e sentire, lo scrittore no. No, se prima non avverte il suo sentire nella persona che lo legge.
La scrittura ha bisogno di specchi, di arcobaleni nati dalle lacrime, di scie entro cui riconoscersi, di occhi che leggono, insomma, di orecchie che ascoltano e di menti aperte alla ricezione di un messaggio. Diversamente, è un' immagine che, emessa, viene rimandata indietro identica a se stessa e senza nessuna facoltà di autoconoscenza. Io che scrivo, io che mi leggo siamo la stessa persona; per di più, che si identifica nell'atto stesso, meccanico, dello scrivere. Io che mi leggo, adesso, dopo aver scritto queste pagine, non so dire niente di me se non che ho obbedito, qualche minuto fa, ad un impulso: quello di scrivere, appunto. Qualcuno che in questo momento si trova a leggermi, sarà in grado, bene o male, di dire, invece, qualcosa riguardante la mia scrittura.
Ecco perché ci riesce più facile capire, accettare, riconoscere, a distanza di tempo, quelle parti di noi che abbiamo affidato alla pagina. Se leggessimo i nostri scritti dopo mesi o, addirittura, anni, saremmo un po’ più affidabili come conoscitori di noi stessi.
La scrittura, insomma, è un mistero che si svela attraverso la lettura. Quella di altri o la nostra a lunga distanza di tempo.
La penna che segue disperatamente il pensiero, che riproduce sul foglio quella sottile lamina d'oro, così sottile che temi di spezzarla già al primo tentativo di separarla dalle altre … Però ci provi lo stesso. E sai qual è la cosa curiosa? Che non sai mai se hai avuto successo. Si scrive come da ciechi si brancola in cerca di un riferimento. Il cieco, però, trovatolo, lo può toccare e sentire, lo scrittore no. No, se prima non avverte il suo sentire nella persona che lo legge.
La scrittura ha bisogno di specchi, di arcobaleni nati dalle lacrime, di scie entro cui riconoscersi, di occhi che leggono, insomma, di orecchie che ascoltano e di menti aperte alla ricezione di un messaggio. Diversamente, è un' immagine che, emessa, viene rimandata indietro identica a se stessa e senza nessuna facoltà di autoconoscenza. Io che scrivo, io che mi leggo siamo la stessa persona; per di più, che si identifica nell'atto stesso, meccanico, dello scrivere. Io che mi leggo, adesso, dopo aver scritto queste pagine, non so dire niente di me se non che ho obbedito, qualche minuto fa, ad un impulso: quello di scrivere, appunto. Qualcuno che in questo momento si trova a leggermi, sarà in grado, bene o male, di dire, invece, qualcosa riguardante la mia scrittura.
Ecco perché ci riesce più facile capire, accettare, riconoscere, a distanza di tempo, quelle parti di noi che abbiamo affidato alla pagina. Se leggessimo i nostri scritti dopo mesi o, addirittura, anni, saremmo un po’ più affidabili come conoscitori di noi stessi.
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