Il surrealismo di Dorothea Tanning: nelle sue tele, ciò che di perverso, irrazionale, fantastico e sconosciuto è contenuto in ognuno di noi, nel nostro inconscio.
Era il 2002. Mi muovevo per la ricerca di materiale utile nell’eventualità che potessi concludere il mio ciclo di studi universitari, trattando l’argomento che più mi aveva colpito dei corsi di comparatistica tenuti dalla Prof.ssa Pellegrini: il surrealismo, o più dettagliatamente le artiste del surrealismo.Mi recai al Museo del Corso di Roma, dove era in svolgimento la mostra “Max Ernst e i suoi amici surrealisti” e tra le tele più note della corrente artistica, mi rapì un quadro di medie dimensioni: Deirdre. Una fanciulla dai lineamenti perfetti, dallo sguardo malinconico, con arbusti verde opaco al posto dei capelli, mi osservava in modo magnetico, con la maestosità di una dea. Non conoscevo quell’opera e sapevo ben poco anche dell’artista che si era cimentata in tale lavoro: Dorothea Tanning.
Inutile dire che mi adoperai subito per sapere chi fosse, ma invece di seguire le indicazioni di più o meno accurate biografie, decisi di scoprirlo tramite le stesse parole dell’artista, che nell’autobiografia Beetween lives (2000), narra le vicende della sua vita dalla sua nascita al suo novantesimo compleanno.
La vita e le opere
La Tanning nacque il 25 agosto 1910 a Galesburg in Illinois e crebbe con la madre, un padre molto schivo, seguendo gli insegnamenti di un pastore luterano abbastanza intransigente. Da subito, per la sua furbizia, la sua maestria nel disegno e la sua poliedricità, fu considerata una bambina prodigio e giunta all’adolescenza, studiò al college e lavorò per alcuni anni alla biblioteca comunale di Galesburg.Capì ben presto che vivere in provincia non l’avrebbe aiutata a proseguire nella sua più grande passione, la pittura, per questo si trasferì nella vicina Chicago.
Alcuni anni dopo, invece, decise di recarsi a New York , centro propulsore per l’arte dell’epoca e visitò la mostra “Fantastic Art, Dada and Surrealism” al Museo di Arte Moderna: questo episodio segnò una svolta nella sua carriera artistica, poiché intuì che la parola chiave dei suoi lavori avrebbe dovuto essere “deviate”. Dorothea si riferisce a una deviazione che la avvicini alle minoranze, un allontanamento radicale dalla morale predefinita, dalle imposizioni sociali, dalla ragione stessa, per far affiorare nelle sue tele tutto ciò che di perverso, irrazionale, fantastico e sconosciuto è contenuto in ognuno di noi, nel nostro inconscio.
Dopo una breve parentesi parigina, Dorothea tornò a New York, dove l’incontro con Julien Levy prima e con Max Ernst poi, il quale diverrà in seguito suo marito, le procurarono una certa notorietà (nel 1942, grazie alla volontà di Ernst alcune sue opere furono inserite nella mostra “Thirty women”). Fu questo il periodo in cui probabilmente raggiunse la sua maturità artistica, proponendo nelle sue tele oggetti che diventano evanescenti, in continuo cambiamento: le metamorfosi che si compiono davanti allo spettatore non giungono mai ad un compimento definitivo.
Nel quadro Maternity (1946-47) in secondo piano rispetto alla madre che cinge il figlio, avvolta da un panno candido, compare un cagnolino dal volto di bambino. Nel suddetto lavoro compaiono due tematiche care all’immaginario della Tanning: la maternità, o meglio l’assenza di essa, poiché la Tanning si è sempre rifiutata di avere dei figli, usando come surrogato i cagnolini, in particolare la sua amata Kachina, e la porta. Le porte, i confini segnati, sono una costante nei lavori dell’artista, spesso semichiuse, aspettano di essere spalancate, oppure serrate, sono il segno di un altrove da scoprire, che può essere il mondo della fantasia, ma anche lo spazio onirico: in questo caso la porta corrisponderebbe alla censura, un limite da oltrepassare se si vogliono conoscere i messaggi del nostro inconscio.
I temi ricorrenti: la maternità e la porta, un passaggio che conduce a un altrove da scoprire.
Chi può aprire le porte, oppure dei passaggi che conducano a questo altrove, sono i bambini: l’infanzia è strettamente connessa con la fantasia, l’assenza di pudore e l’ignoto, visto che il percorso che attende ogni bambino è misterioso e mai scontato. Le due bambine protagoniste della tela Jeux d’enfants (1942) strappano la carta da parati da un muro creando due passaggi verso un altro mondo, indefinito, ma al contempo tangibile e scrutabile con uno sforzo minimo, lo sforzo della fantasia.
Per un breve periodo la Tanning si dedicò anche alla scultura, ma ciò fu soltanto una breve parentesi di cui resta traccia al Centre Pompidou di Parigi, per tornare in seguito alla pittura.
Dopo la morte di Max Ernst, vissuto accanto alla donna per trent’anni, Dorothea vivrà un periodo di inattività e periodi di profonda depressione, si alterneranno a lievi sprazzi di tranquillità, sempre intaccata, però dall’angoscia per il tempo che passa e dal conflitto con “the odious reaper” (l’odiosa mietitrice), appellativo che usava spesso al posto di morte, non dovuto al fatto che ne avesse paura, ma legato alla rabbia che nutriva nei suoi confronti, poiché le aveva portato via tutte le persone a lei care.
Dorothea si è spenta il 31 gennaio 2012 a New York, dove aveva deciso di tornare a trascorrere gli ultimi anni della sua vita, dedicandosi sia alla pittura, che alla scrittura: del 2004 è il suo romanzo più noto, Chasm.
Spesso i critici si sono chiesti il motivo per cui le sue opere, che hanno attraversato quasi un secolo di storia, abbiano catturato migliaia di spettatori: la risposta credo che sia nell’aurea misteriosa e affascinante che avvolge ogni immagine riportata sulla tela. Un semplice dipinto ci appare nella sua inesorabile bidimensionalità, mentre le opere della Tanning si affacciano in una dimensione ulteriore, inafferrabile: la dimensione della possibilità, di ciò che avrebbe potuto essere, ma non è, qualcosa che aleggia sopra la tela, ma che non si palesa, la “road not taken”, come la definiva Bailly. Lo spettatore rimane con il fiato sospeso, poiché in ogni tela aleggia qualcosa di misterioso che è lì, a portata di mano, suggerito, ma non detto, che può essere scoperto soltanto da chi, temerario, deciderà di percorrere una strada non ancora percorsa.
Gianna Gambini |
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