Fu sua moglie la prima a saperlo.
«Mi faresti un piccolo favore?» chiese Greta dalla camera da letto quel pomeriggio. «Dovresti aiutarmi un attimo con una cosa. Non ci vorrà molto.»
«Certo» disse Einar tenendo gli occhi fissi sulla tela. «Quello che vuoi.»
Il vento del Baltico rinfrescava la giornata di primavera. Erano nel loro appartamento nella Casa delle Vedove, ed Einar, un uomo minuto e quasi trentacinquenne, stava dipingendo a memoria un paesaggio invernale del Kattegat. Sull’acqua nera e crudele, tomba di centinaia di pescatori che ritornavano a Copenaghen con le loro prede sotto sale, era stesa una cappa bianca. Il vicino del piano di sotto era un marinaio con la testa piccola e tonda che insultava la moglie. Quando Einar dipingeva l’increspatura grigia di ogni onda, immaginava il marinaio che annegava, con una mano sollevata a chiedere aiuto, e sentiva la sua voce che sapeva di vodka di patate dare ancora della puttana da porto alla moglie. In questo modo Einar capiva che sfumatura dare ai suoi colori: abbastanza grigia da inghiottire un uomo del genere e richiudersi come pastella sul suo ringhio che affondava.
«Arrivo fra un attimo» disse Greta, più giovane del marito e bella, col viso largo e piatto. «Poi possiamo cominciare.»
Anche in questo Einar era diverso da sua moglie. Lui dipingeva la terra e il mare: piccoli rettangoli illuminati dalla luce obliqua di giugno, o offuscati dal pallido sole di gennaio. Greta dipingeva ritratti, spesso a dimensioni naturali, di personaggi di una certa importanza, con le labbra rosa e i capelli luminosi. Il signor I. Glückstadt, il finanziere del porto franco di Copenaghen. Christian Dahlgaard, pellicciaio del re. Ivar Knudsen, socio dei cantieri navali Burmeister e Wain. Quel giorno doveva dipingere il ritratto di Anna Fonsmark, mezzosoprano dell’Opera reale danese. Direttori e magnati dell’industria commissionavano a Greta ritratti da appendere in ufficio, sopra uno schedario, o alla parete di un corridoio per nascondere i segni lasciati dal carrello di un operaio.
Greta apparve sulla soglia della camera. Si era raccolta i capelli: «Sei sicuro che non ti dispiace interrompere per darmi una mano?» gli chiese. «Non te l’avrei chiesto se non fosse importante; il fatto è che Anna ha di nuovo rimandato la seduta di posa. Perciò… ti dispiacerebbe provarti le sue calze?» chiese Greta «…e le scarpe?»
Alle sue spalle, il sole di aprile filtrava attraverso la seta che le pendeva floscia dalla mano. Dalla finestra, Einar vedeva il Rundetårn come un’enorme ciminiera di mattoni, e sopra il Deutscher Aero-Lloyd che volava piano piano verso Berlino come ogni giorno.
«Greta» disse Einar «cosa vuoi dire?»
Una goccia di colore a olio gli cadde dal pennello sullo stivale. Edvard IV cominciò ad abbaiare muovendo il capo in direzione prima dell’uno e poi dell’altra.
«Anna è ancora in teatro per le prove della Carmen. Ho bisogno di un paio di gambe per finire il suo ritratto, se no non ce la farò mai. E poi ho pensato che le tue potrebbero andare bene.»
Gli si avvicinò tenendo in una mano le scarpe giallo senape con la fibbia di peltro. Indossava il suo grembiule abbottonato sul davanti, con le tasche esterne nelle quali metteva le cose che voleva nascondere a Einar.
«Ma non posso mettermi le scarpe di Anna» disse lui. Poi, guardandole, pensò che in effetti potevano andar bene per i suoi piedi piccoli e arcuati, dai talloni morbidi.
Aveva le dita snelle, con pochi peli neri sottili. Immaginò il rotolino sgualcito delle calze che gli scivolava sulla caviglia bianca. Sul cuscinetto del polpaccio. Che si chiudeva con uno scatto nel gancio di una giarrettiera. Dovette chiudere gli occhi.
Le scarpe erano come quelle che avevano visto la settimana prima su un manichino ai grandi magazzini Fonnesbech, abbinate a un vestito blu notte. Si erano fermati ad ammirare la vetrina decorata con una ghirlanda di giunchiglie e Greta aveva detto: «Carine, no?». Poi, siccome lui non aveva risposto ed era rimasto immobile nel riflesso del cristallo con gli occhi sbarrati, lei aveva dovuto strapparlo via dalla vetrina. Lo aveva trascinato giù per la Bremerholm, passando davanti al negozio di pipe, e poi gli aveva chiesto: «Einar, ti senti bene?».
Il soggiorno dell’appartamento fungeva da studio. Il soffitto era percorso da nervature di travi sottili e si innalzava in una volta che ricordava il fondo di una barca da pesca. L’umidità marina aveva incurvato il legno delle finestre del lucernario e il pavimento era impercettibilmente inclinato verso ovest. Di pomeriggio, quando il sole batteva sulla Casa delle Vedove, dai muri emanava un tenue odore d’aringa. D’inverno dai lucernari filtrava una pioggerellina fredda che creava bolle sulla vernice del muro. Einar e Greta avevano messo i loro cavalletti sotto i due lucernari gemelli, di fianco alle scatole di colori a olio ordinati da Salathoff a Monaco, e alle pile di tele ancora intatte. Quando non dipingevano, coprivano tutto con le cerate verdi che il marinaio del piano di sotto aveva lasciato sul pianerottolo.
«Perché vuoi che mi metta le sue scarpe?» chiese Einar occupando la sedia con il sedile di corda che veniva dalla baracca della fattoria di sua nonna. Edvard IV gli saltò in grembo, tremante per le urla del marinaio.
«Per il ritratto di Anna» disse Greta. E poi: «Io per te lo farei». Sullo zigomo aveva una cicatrice di varicella, poco profonda. La stava sfregando delicatamente col dito, come faceva quando era in ansia, ed Einar lo sapeva.
Si inginocchiò per slacciargli gli stivali. Aveva i capelli lunghi e gialli, di un colore più danese di quelli di Einar; ogni volta che voleva mettersi a fare qualcosa di nuovo se li spingeva dietro le orecchie, ma adesso le scivolavano sul viso mentre cercava di sbrogliare il nodo nei lacci. Profumava dell’olio di arancio che sua madre le spediva una volta all’anno in una cassa di bottiglie marroni con l’etichetta PURO ESTRATTO DI PASADENA. Sua madre credeva che Greta usasse l’olio per fare torte per il tè, invece lei se lo strofinava dietro le orecchie.
Poi cominciò a lavargli i piedi in un catino con una spugna naturale, passandogliela rapidamente tra le dita in modo delicato ma efficace. Einar si arrotolò ancora di più i pantaloni e all’improvviso pensò che i suoi polpacci avevano un aspetto aggraziato. Puntò con delicatezza il piede, e intanto Edvard IV si sporse a leccare l’acqua che gocciolava dal mignolo, a martello e senza unghia.
«Questo sarà il nostro segreto, vero Greta?» sussurrò Einar. «Non lo dirai a nessuno, vero?» Era spaventato ed eccitato al tempo stesso, e il pugno di bimbo che era il suo cuore gli pulsava in gola.
Che cosa succede quando vedi la persona che ami cambiare radicalmente sotto i tuoi occhi? Tutto nasce da un semplice favore che una moglie chiede a suo marito durante una giornata qualsiasi. The Danish Girl di David Ebershoff, un romanzo seducente e profondamente umano sui lati oscuri e misteriosi dell'amore e della sensualità.
Ispirandosi alla storia vera di Lili Elbe, una pioniera nel mondo transgender, David Ebershoff ha scritto un romanzo estremamente delicato e commovente su una delle storie d'amore più appassionate del Novecento.
Siamo a Copenaghen, inizi Novecento: entrambi stanno dipingendo nel loro atelier, lui realizza paesaggi velati dalla nebbia del Nord; lei ritrae su enormi tele i ricchi committenti della borghesia cittadina. Proprio per completare uno di questi lavori, il ritratto di una nota cantante d'opera, Greta domanda al marito di posare in abiti femminili.
Da principio Einar è riluttante, ma presto viene completamente sedotto dal morbido contatto della stoffa sulla sua pelle. Via via che si abbandona a questa esperienza, il giovane entra in un universo sconosciuto, provando un piacere che né lui né Greta avrebbero mai potuto sospettare. Quel giorno Einar ha un'autentica rivelazione: scopre infatti che la sua anima è divisa in due e forse lo è stata sempre: da una parte l'artista malinconico e innamorato di sua moglie, dall'altra Lili, una donna mossa da un prepotente bisogno di vivere...
«Certo» disse Einar tenendo gli occhi fissi sulla tela. «Quello che vuoi.»
Il vento del Baltico rinfrescava la giornata di primavera. Erano nel loro appartamento nella Casa delle Vedove, ed Einar, un uomo minuto e quasi trentacinquenne, stava dipingendo a memoria un paesaggio invernale del Kattegat. Sull’acqua nera e crudele, tomba di centinaia di pescatori che ritornavano a Copenaghen con le loro prede sotto sale, era stesa una cappa bianca. Il vicino del piano di sotto era un marinaio con la testa piccola e tonda che insultava la moglie. Quando Einar dipingeva l’increspatura grigia di ogni onda, immaginava il marinaio che annegava, con una mano sollevata a chiedere aiuto, e sentiva la sua voce che sapeva di vodka di patate dare ancora della puttana da porto alla moglie. In questo modo Einar capiva che sfumatura dare ai suoi colori: abbastanza grigia da inghiottire un uomo del genere e richiudersi come pastella sul suo ringhio che affondava.
«Arrivo fra un attimo» disse Greta, più giovane del marito e bella, col viso largo e piatto. «Poi possiamo cominciare.»
Anche in questo Einar era diverso da sua moglie. Lui dipingeva la terra e il mare: piccoli rettangoli illuminati dalla luce obliqua di giugno, o offuscati dal pallido sole di gennaio. Greta dipingeva ritratti, spesso a dimensioni naturali, di personaggi di una certa importanza, con le labbra rosa e i capelli luminosi. Il signor I. Glückstadt, il finanziere del porto franco di Copenaghen. Christian Dahlgaard, pellicciaio del re. Ivar Knudsen, socio dei cantieri navali Burmeister e Wain. Quel giorno doveva dipingere il ritratto di Anna Fonsmark, mezzosoprano dell’Opera reale danese. Direttori e magnati dell’industria commissionavano a Greta ritratti da appendere in ufficio, sopra uno schedario, o alla parete di un corridoio per nascondere i segni lasciati dal carrello di un operaio.
Greta apparve sulla soglia della camera. Si era raccolta i capelli: «Sei sicuro che non ti dispiace interrompere per darmi una mano?» gli chiese. «Non te l’avrei chiesto se non fosse importante; il fatto è che Anna ha di nuovo rimandato la seduta di posa. Perciò… ti dispiacerebbe provarti le sue calze?» chiese Greta «…e le scarpe?»
Alle sue spalle, il sole di aprile filtrava attraverso la seta che le pendeva floscia dalla mano. Dalla finestra, Einar vedeva il Rundetårn come un’enorme ciminiera di mattoni, e sopra il Deutscher Aero-Lloyd che volava piano piano verso Berlino come ogni giorno.
«Greta» disse Einar «cosa vuoi dire?»
Una goccia di colore a olio gli cadde dal pennello sullo stivale. Edvard IV cominciò ad abbaiare muovendo il capo in direzione prima dell’uno e poi dell’altra.
«Anna è ancora in teatro per le prove della Carmen. Ho bisogno di un paio di gambe per finire il suo ritratto, se no non ce la farò mai. E poi ho pensato che le tue potrebbero andare bene.»
Gli si avvicinò tenendo in una mano le scarpe giallo senape con la fibbia di peltro. Indossava il suo grembiule abbottonato sul davanti, con le tasche esterne nelle quali metteva le cose che voleva nascondere a Einar.
«Ma non posso mettermi le scarpe di Anna» disse lui. Poi, guardandole, pensò che in effetti potevano andar bene per i suoi piedi piccoli e arcuati, dai talloni morbidi.
Aveva le dita snelle, con pochi peli neri sottili. Immaginò il rotolino sgualcito delle calze che gli scivolava sulla caviglia bianca. Sul cuscinetto del polpaccio. Che si chiudeva con uno scatto nel gancio di una giarrettiera. Dovette chiudere gli occhi.Le scarpe erano come quelle che avevano visto la settimana prima su un manichino ai grandi magazzini Fonnesbech, abbinate a un vestito blu notte. Si erano fermati ad ammirare la vetrina decorata con una ghirlanda di giunchiglie e Greta aveva detto: «Carine, no?». Poi, siccome lui non aveva risposto ed era rimasto immobile nel riflesso del cristallo con gli occhi sbarrati, lei aveva dovuto strapparlo via dalla vetrina. Lo aveva trascinato giù per la Bremerholm, passando davanti al negozio di pipe, e poi gli aveva chiesto: «Einar, ti senti bene?».
Il soggiorno dell’appartamento fungeva da studio. Il soffitto era percorso da nervature di travi sottili e si innalzava in una volta che ricordava il fondo di una barca da pesca. L’umidità marina aveva incurvato il legno delle finestre del lucernario e il pavimento era impercettibilmente inclinato verso ovest. Di pomeriggio, quando il sole batteva sulla Casa delle Vedove, dai muri emanava un tenue odore d’aringa. D’inverno dai lucernari filtrava una pioggerellina fredda che creava bolle sulla vernice del muro. Einar e Greta avevano messo i loro cavalletti sotto i due lucernari gemelli, di fianco alle scatole di colori a olio ordinati da Salathoff a Monaco, e alle pile di tele ancora intatte. Quando non dipingevano, coprivano tutto con le cerate verdi che il marinaio del piano di sotto aveva lasciato sul pianerottolo.
«Perché vuoi che mi metta le sue scarpe?» chiese Einar occupando la sedia con il sedile di corda che veniva dalla baracca della fattoria di sua nonna. Edvard IV gli saltò in grembo, tremante per le urla del marinaio.
«Per il ritratto di Anna» disse Greta. E poi: «Io per te lo farei». Sullo zigomo aveva una cicatrice di varicella, poco profonda. La stava sfregando delicatamente col dito, come faceva quando era in ansia, ed Einar lo sapeva.
Si inginocchiò per slacciargli gli stivali. Aveva i capelli lunghi e gialli, di un colore più danese di quelli di Einar; ogni volta che voleva mettersi a fare qualcosa di nuovo se li spingeva dietro le orecchie, ma adesso le scivolavano sul viso mentre cercava di sbrogliare il nodo nei lacci. Profumava dell’olio di arancio che sua madre le spediva una volta all’anno in una cassa di bottiglie marroni con l’etichetta PURO ESTRATTO DI PASADENA. Sua madre credeva che Greta usasse l’olio per fare torte per il tè, invece lei se lo strofinava dietro le orecchie.
Poi cominciò a lavargli i piedi in un catino con una spugna naturale, passandogliela rapidamente tra le dita in modo delicato ma efficace. Einar si arrotolò ancora di più i pantaloni e all’improvviso pensò che i suoi polpacci avevano un aspetto aggraziato. Puntò con delicatezza il piede, e intanto Edvard IV si sporse a leccare l’acqua che gocciolava dal mignolo, a martello e senza unghia.
«Questo sarà il nostro segreto, vero Greta?» sussurrò Einar. «Non lo dirai a nessuno, vero?» Era spaventato ed eccitato al tempo stesso, e il pugno di bimbo che era il suo cuore gli pulsava in gola.
Quarta di copertina.
Dall'autore di La 19° moglie, il nuovo struggente romanzo di David Ebershoff sul primo transgender della storia. The Danish Girl, in uscita in contemporanea al film di Tom Hooper.Che cosa succede quando vedi la persona che ami cambiare radicalmente sotto i tuoi occhi? Tutto nasce da un semplice favore che una moglie chiede a suo marito durante una giornata qualsiasi. The Danish Girl di David Ebershoff, un romanzo seducente e profondamente umano sui lati oscuri e misteriosi dell'amore e della sensualità.
Ispirandosi alla storia vera di Lili Elbe, una pioniera nel mondo transgender, David Ebershoff ha scritto un romanzo estremamente delicato e commovente su una delle storie d'amore più appassionate del Novecento.
Siamo a Copenaghen, inizi Novecento: entrambi stanno dipingendo nel loro atelier, lui realizza paesaggi velati dalla nebbia del Nord; lei ritrae su enormi tele i ricchi committenti della borghesia cittadina. Proprio per completare uno di questi lavori, il ritratto di una nota cantante d'opera, Greta domanda al marito di posare in abiti femminili.
Da principio Einar è riluttante, ma presto viene completamente sedotto dal morbido contatto della stoffa sulla sua pelle. Via via che si abbandona a questa esperienza, il giovane entra in un universo sconosciuto, provando un piacere che né lui né Greta avrebbero mai potuto sospettare. Quel giorno Einar ha un'autentica rivelazione: scopre infatti che la sua anima è divisa in due e forse lo è stata sempre: da una parte l'artista malinconico e innamorato di sua moglie, dall'altra Lili, una donna mossa da un prepotente bisogno di vivere...
"The danish girl", il film. Recensione di Ornella Nalon.
★★★★★
Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
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