Di Stefania Bergo. I luoghi dell'abbandono: a 40 anni dalla legge Basaglia, ecco cosa resta dell'ex Ospedale Psichiatrico di Rovigo, una struttura in attesa di valorizzazione e di un recupero rispettoso della sua memoria, per non dimenticare le tante storie di vite vissute tra le sue mura.
Ho visitato l'ex Ospedale Psichiatrico di Rovigo per un corso di aggiornamento del mio ordine professionale. Una struttura abbandonata dal 1997, anno in cui è stata definitivamente chiusa in seguito all'applicazione della legge Basaglia del 1978 che imponeva la dismissione dei cosiddetti manicomi.Ciò che ho scoperto solo dopo, è che la mia storia è in qualche modo legata a questo posto, per via di uno zio di mia madre, Giuseppe, che lì è stato rinchiuso negli anni '50. Era il primogenito della mia bisnonna materna, che, contratta la meningite da piccolo, ha poi manifestato crisi epilettiche da grande. Non avendo possibilità di cure, perché ancora a livello embrionale gli studi sulla malattia e insostenibili i costi di eventuali trattamenti per famiglie povere, le fu consigliato di rivolgersi all'ospedale per "internare" suo figlio, vale a dire allontanarlo dalla società, confinarlo, perché in qualche modo "pericoloso". E lei, avendo la responsabilità di altri quattro figli, ha dovuto a malincuore scegliere di "curarlo" nella struttura, confidando che lì lo aiutassero. Lo andava a visitare ogni domenica, con mia mamma piccolina, lo abbracciava tutto il tempo, quasi a chiedergli scusa. E lui sorrideva come un bambino.
Durante la sua degenza ha subito un paio di interventi alla testa.
E poi lì è morto.
Destino comune a molti.
L'ex ospedale psichiatrico di Rovigo è nato da un progetto del 1906 degli ingegneri Vittorio Cinque e Luigi Crocco, come risposta all'esigenza di cura della provincia in base alla legge vigente del tempo sui manicomi e gli alienati, che imponeva la reclusione coatta dei malati mentali.
I lavori iniziarono l'anno successivo, grazie alla concessione del terreno in località Granzette da parte della contessa Maria Costanza Ferri, ma errori di progettazione fecero lievitare i costi di oltre il doppio della spesa preventivata e così, nel 1910, il consiglio provinciale decise di sospendere i lavori. Negli anni successivi, per evitare il degrado dell'aera, la provincia chiese aiuto allo stato, proponendo l'acquisto degli edifici completati per il riutilizzo come arsenale militare o manicomio criminale.Solo nel 1914 la provincia concesse all'amministrazione militare di utilizzare alcuni padiglioni come sede provvisoria di tre batterie di artiglieria da campo. Durante la guerra divenne poi ospedale militare e infine residenza di sette famiglie bisognose del luogo.
La struttura fu completata e intitolata a Vittorio Emanuele III, che lo inaugurò nell'ottobre del 1929. Fu aperta nel marzo dell'anno successivo, sotto la direzione del dottor Emilio Padovani.
Progettato e costruito per una capienza massima di quattrocento posti letto, nell'Ospedale Psichiatrico venivano ricoverati mediamente fino a settecento pazienti allo stesso tempo.
Nelle intenzioni, il progetto doveva fungere da vero e proprio ricovero per la cura dei malati mentali senza l'utilizzo di metodi coercitivi o recinzioni.
Era prevista come metodologia riabilitativa l'ergoterapia, cioè la terapia occupazionale. In ogni padiglione, infatti, erano previsti laboratori per attività manuali e aree destinate alla coltura di sussistenza. Anche il vasto e curato parco doveva fungere da calmante per gli alienati "agitati" e "semiagitati". La planimetria organizzata secondo uno schema a doppio ferro di cavallo, in modo da garantire la sorveglianza dai punti centrali, destinati alla dirigenza e al personale, la mancanza di recinzioni, la forma diversa dei vari padiglioni e la loro distanza, conferivano all'intera struttura l'aspetto di un villaggio immerso nel verde. A sottolineare questo aspetto, anche una chiesetta in stile gotico, campi coltivati per la sussistenza della struttura e una stalla, oltre all'organizzazione di feste e proiezioni cinematografiche.La superficie totale dell’area, fra i nove padiglioni, i viali, i giardini e colonie agricole, era di circa venti ettari.
Tuttavia, durante la seconda guerra mondiale e prima, con la propaganda fascista, nell'ex Ospedale Psichiatrico vengono introdotti le celle di isolamento, l'elettroshock, i letti contenitivi e l'insulinoterapia.
Si utilizzano anche i bagni in acqua gelata per otto, nove ore consecutive o addirittura, tra i metodi coercitivi ufficiosi, la puntura di zanzare anofele, appositamente allevate, per calmare i più agitati grazie alla febbre alta.Dentro questo periodo difficile, gli anni 1944-45 risultano addirittura terribili per l’Ospedale Psichiatrico sovraffollato: con un solo medico di servizio, con pochissimo personale infermieristico ed il ricorso a personale religioso che arrivava a ben quindici suore per supplire ai vuoti. A queste restrizioni si aggiunse la nuova applicazione dell’elettroshock: è del 5 maggio 1941 la delibera dell’Amministrazione Provinciale, su richiesta del Direttore Padovani, per l’acquisto di un apparecchio per elettroshockterapia, ritenuto indispensabile dalla medicina psicoterapeutica del periodo per la cura di parecchi casi psichiatrici.In questo stesso periodo, nella struttura vengono fatti ricoverare anche personaggi scomodi per il regime, mogli da ripudiare, figli illegittimi, persone da nascondere. Da destinare all'oblio. Come Adami Lavinia, internata politica amica di Matteotti, socialista prima e antifascista poi, internata nel manicomio nel 1937 e lì morta 40 anni dopo. O come il partigiano Emilio Bonatti, conosciuto come il comandante “Murin”, aiutato a fuggire da alcuni infermieri.
Luigi Lugaresi, Il luogo dei sentimenti negati. L’Ospedale Psichiatrico di Rovigo (1930-1997), edizione Ulss 18 Minelliana, 1999
Molte sono le storie che rischiano di essere dimenticate o intenzionalmente lasciate cadere nell'oblio, come quella del Pittore del manicomio o del figlio delle suore.
Ma fortunatamente c'è anche chi vuole salvarne il ricordo, come Biancoenero, un'associazione che dal 1993 si occupa di pubblicare, anche online, racconti e testimonianze dell'ex Ospedale Psichiatrico di Rovigo, organizzando anche visite guidate all'interno del parco e di alcuni dei reparti, quelli chiaramente ancora agibili.Nel sito dell'associazione, è così possibile trovare le storie di alcuni "internati" (perché tecnicamente questo erano). Come il "Pittore del manicomio", Leone Bacchiega, che ha dipinto i muri interni di alcuni padiglioni («aprendo finestre di vedute prospettiche in una piatta monoforme e dolorosa quotidianità»), lasciando 48 affreschi, e scolpito la fontana a forma di conchiglia che si trova di fronte all'edificio destinato alla Direzione sanitaria.
Fra i tre “tesori” del manicomio di Granzette figura il dipinto murale realizzato dal Collettivo Immagine durante, e dopo, la festa del I° maggio 1979. Un dipinto che è riprodotto anche sulla copertina del recente libro di John Foot, la “Repubblica dei matti”, edito da Feltrinelli.O come Luigino, il bambino nato all'Ospedale Psichiatrico nel 1945, nel bagno del II reparto donne, figlio di una paziente schizofrenica e di padre ignoto. Destinato per legge all’orfanotrofio, viene però adottato dalle suore che lo crescono nella struttura. Una volta adulto, trova lavoro come infermiere nello stesso Ospedale Psichiatrico, conducendo una vita normale fino alla morte, nei primi anni del nuovo millennio.
dal sito dell'associazione Biancoenero
Numerosi sono anche gli scritti rinvenuti negli anni, testimonianze che ci proiettano nell'inferno dei "pazzi" internati, maltrattati, abbandonati, dimenticati.
Richieste di umanità cristallizzate nell'intonaco cadente dei muri che, se si ascolta bene, si possono sentir gridare. Richieste d'aiuto rimaste sospese che, per sempre, peseranno come macigni sulla coscienza.Per chi, come me, cerca una traccia di qualcuno di famiglia finito in uno di questi manicomi o ha l'urgenza di raccontare queste storie per dare loro dignità, c'è la possibilità di consultare un nutrito archivio di cartelle cliniche e documentazione a livello nazionale, disponibile online grazie al progetto Carte da legare. Basta iscriversi motivando la richiesta di accesso e attendere di essere abilitati.
Vi lascio con una poesia, scritta da un paziente nel 1968: (Un inverno) che fa scuro presto. Perché solo le parole di chi nell'ex Ospedale Psichiatrico di Rovigo ci ha vissuto davvero sanno descrivere quello che a tutti gli effetti fu un internamento.
Quelle mani mi spinsero a varcare il cancello,
dividendomi in due parti, così è la schizofrenia,
il mio corpo dentro e l’anima che rimase fuori.
Fui sezionato in tante parti e nella mia cartella clinica,
oltre ai miei dati, fu inserita anche la mia dignità di uomo.
Ora non ero che un uomo vuoto che non doveva più pensare,
un uomo senza volontà, solo con i suoi fantasmi e le sue paure,
che sarebbero state amplificate dalle stanze bianche
e intrise di odori sgradevoli.
I giorni passavano così come gli anni…
non ricordo neppure gli anni che avevo e che avrei vissuto.
Cercavo solo degli sprazzi di lucidità.
Guardavo fuori dalla finestra per vedere con gli occhi un suono
famigliare, che non si vedeva né sentiva… anima dove sei?
Mi agiterò ancora e sarò legato su quel letto, costretto,
immobile, come on mucietto di stracci,
a guardare le ragnatele del soffitto.
E non c’erano più stagioni, solo l’inverno,
perché fa scuro presto… dicevano.
Già dicevano così, perché il sole qui dentro non serviva a nulla,
non era una colonia estiva, né un luogo di vacanza...
quindi a letto presto, legati o slegati...
anzi sempre legati, meglio non correre il rischio
che l’infermiere di notte dovesse svegliarsi controvoglia.
Domani arriverà un nuovo giorno senza sole,
un altro giorno d’inverno… perché possa ancora fare scuro presto…
Luciano Prandini
Un alienato schizzofrenico. Come mio zio Giuseppe...
Stefania Bergo |
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