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Il sud del Laos, da Champasak all'isola Don Det navigando sul Mekong

Il sud del Laos, da Champasak all'isola Don Det navigando sul Mekong

Viaggi Di Alessandra Nitti. Il sud del Laos, da Champasak all'isola di Don Det navigando il Mekong: un luogo dove essere dimenticati dal mondo.

Se da Vientiane, la lontana, piccola capitale del Laos abbracciata dal Mekong, si va al terminal dei voli nazionali (un prefabbricato con due banchi per il check-in, le sedie in plastica, un solo gate e un banchetto che vende cornetti che sembrano carta) e ci si imbarca per Pakse, si può raggiungere uno dei posti più meravigliosi ma meno noti del mondo: il sud del Laos.
Dopo un’ora di volo si atterra nella squallida cittadina che ha però due meriti: il primo è il cibo, in particolar modo la colazione alla vietnamita (polpettine e uova all’occhio di bue in brodo, baguette fresca e caffè lao), la seconda è il minuscolo porticciolo dove, parlando con l’amico dell’amico dell’amico, si può convincere un vecchio barcaiolo ad aiutarci a realizzare uno dei nostri sogni più grandi: navigare sul Mekong. Per 80 dollari americani (circa settanta euro) sono riuscita a trovare un’imbarcazione non turistica (non ci sono mica turisti a Pakse!) disposta a portarmi verso sud via fiume. Una di quelle scene che fino a quel momento avevo solo sognato per anni, da quando avevo scoperto dell’esistenza del Laos e letto di tutto sul Sud-est asiatico.

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Sulla barca di legno solo io e il traghettatore con il suo cappello di paglia e la sigaretta tra le labbra, attorno a noi una vasta distesa d’acqua di bronzo che scivola lenta dall’Himalaya all’Oceano.

Immersa nella densa vegetazione tropicale di banani dalle palme sfilacciate, manghi grossi quanto la testa di un bambino, cespugli di un profondo verde e dalle larghe foglie pronte ad accogliere le piogge monsoniche. Ma è gennaio, la stagione secca, e il cielo brilla d’azzurro e di pulito sopra il Mekong. Oltre a noi si scorgono pochi pescherecci, fluttuano silenziosi tra gli isolotti, sullo sfondo i monti che formano il profilo di una donna addormentata scorrono via insieme alla città alle nostre spalle. Mi ritrovo nel nulla, nel silenzio pieno del gracidare di insetti e anfibi tropicali, dello sciabordio delle acque divise dall’imbarcazione.
Trascorrono così due ore. La traversata del Mekong avvolge tutti i sensi, gli occhi bevono l’infinita distesa di rame, smeraldo e cobalto fusi l’uno nell’altro, la pelle è baciata dal sole, coccolata dalla brezza, il naso è pieno del sentore di pesce e umidità, di legno e di polvere, la musica della natura ritma il dondolio della barchetta.

La traversata del Mekong

All’improvviso il sogno viene interrotto dal traghettatore che mi fa scendere su una baia minuscola e mi indica una scaletta nascosta nella vegetazione. 

Mi fa ciao con la mano e torna indietro. Io salgo, mille domande mi ronzano nella testa, ma subito evaporano quando mi ritrovo sulla terrazza lignea di una guesthouse di Champasak, immersa nel verde e direttamente sopra il Mekong, dalla quale si vedrà l’alba. Nello stesso momento dalla via arriva in bicicletta una ragazza di circa la mia età: decidiamo di affittare una stanza insieme per dividere le spese. Affitto una bici anche io e sotto il sole cocente del primo pomeriggio pedalo fino a Wat Phu, l’antica capitale khmer, antecedente ad Angkor Watt, a quest’ultima collegata da una via medievale. Accompagnata dalle ballerine celesti che danzano sulle rovine, visito i resti di un mondo mitico, lontano nei secoli e nello spazio, l’aria dei tropici, sempre densa di legno bruciato e umidità, è pregna di una storia ormai svanita, polverizzata, che racconta di antiche civiltà e di antichi pellegrinaggi diretti al Lingaparvata, il monte sul quale è stata costruita Wat Phu. La collina ha una forma proiettata verso l’alto, come il Lingam di Shiva, simbolo di virilità, che qui veniva adorato prima di essere soppiantato dal Buddha. In cima vi è un lingam di pietra, ai piedi, invece, un tempio scavato nella roccia e dedicato alla mascolinità di Shiva. L’acqua che scorre nella grotta tra le statue del Buddha viene raccolta e rivenduta dai bambini: acqua santa, come a Lourdes.


Champasak è povera, sconosciuta, lontana, è un’antica Angkor Watt decaduta prima ancora di sorgere.

E adesso non è altro che un villaggio, regno di vacche, cani, gatti, galli, galline e pulcini; eppure anche la più misera baracca è pulita e colorata, costruite spavaldamente accanto a ville coloniali in un morbido stile di pastello tra il laotiano e il francese, semi celate da giardini e palme e grossi fiori tropicali. E poi, tra il fango e la polvere, sorgono templi d’oro, di rosso, di verde, di blu, di tutti i colori del Laos; nei cortili giovani monaci in sai arancio, le casse acustiche e lo smartphone e bambini che salutano felici: “Sabai dee! Sabai dee!
La sera ceno sulla terrazza della guesthouse sul Mekong con la ragazza belga che mi confessa di essere in Asia da sei mesi in bicicletta. Faceva l’infermiera, ha messo da parte i soldi ed è partita, così. Vado a dormire con il sorriso sulle labbra, pensando a quanti incontri si fanno viaggiando!

Da Champasak un furgoncino conduce fino all’estremo sud del Laos, dove il Mekong diventa cambogiano e dove, nella stagione secca, affiorano le 4000 isole: Siphan Don. 

Durante la stagione delle piogge, gli isolotti spariscono sotto la superficie lasciando visibili solo le isole più grandi e abitate. Ve ne sono varie, io ho visitato quella di Don Det, patria dei backpackers. Tuttavia, se ci si allontana dalla parte nord, si possono trovare silenziosi bungalow con il terrazzino e l’amaca. Non vi sono strade a Don Det, né l’acqua calda, né l’illuminazione pubblica. È lontana persino dal mondo stesso e si vive del tutto nella natura, separati dal resto del mondo da uno dei fiumi più grandi del mondo. Si possono fare varie attività all’aperto, tra cui rafting, o noleggiare una bici per girare intorno all’isola sull’unico sentiero pieno di buche coperte da assi pericolanti, che è consigliabile non percorrere di notte al buio se non si vuole rischiare di scivolare in acqua, come stava per accadere a me. Come Champasak, l’isola è popolata da animali da fattoria e bambini saltellanti e felici, sporchi di polveri ma liberi di lasciar esplodere la propria gioia, e che si arrampicano sull’amaca dove sono distesa mentre cerco di raccontare le mie storie su carta.
Don Det è unita tramite un ponte all’isola disabitata di Don Khon, anche questa visitabile in bici. All’estremità opposta si possono vedere i resti di un’antica ferrovia sulla quale passava un primitivo treno coloniale per il trasporto delle merci dal Mekong al Laos; i binari, ora in disuso, spariscono nella terra e nella foresta invalicabile. Dall’altro lato, oltre le acque abitate dai delfini rosa, sorge mitica la terra dei Khmer, la mia prossima tappa. Si può passare un pomeriggio nel nulla a Don Khon: sabbia, vegetazione incolta e quasi invalicabile, acqua, le cascate che si formano quando il Mekong scivola impietoso sulle rocce rosse, qualche bungalow adibito a ristorante.

Tramonto sul Mekong

La sera ritorno a Don Det e vi rimango per qualche giorno: qui si conoscono persone da tutto il mondo con i quali sorseggiare birra mentre si assaporano i tramonti rosa e oro sciogliersi nel rame del Mekong.

Oppure si possono incontrare persone dimenticate dal mondo, o che hanno dimenticato il mondo, oramai avanti con l’età, che da quarant’anni si ritrovano intrappolati in quest’isola senza corrente e senza nulla, e fumano persi nei loro sogni di ribellione e natura. Raccontano di esservi arrivati in un’epoca in cui si viaggiava per ideali e per romanticismo, non sapevano neanche cosa o dove fosse il Laos, ma vi sono rimasti, sperduti, e ora si guadagnano da vivere affittando bungalow e chiedendo ai turisti come sia l’Occidente, oggi.
Questa è Don Det, un luogo immaginario dove si raccolgono storie e si sorseggia birra Lao, si sta su un’amaca tra galline e bambini ad ascoltare racconti di un’Occidente lontano, ma soprattutto è un luogo dove si viene per essere dimenticati. Solo il sole regna qui, cala e sorge sulle 4000 isole emerse, brucia le nuvole e fa compagnia a chi si è perso per sempre.



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Alessandra Nitti
Sinologa, viaggiatrice, appassionata lettrice, yogini e scrittrice. Trascorro le giornate nel mio mondo di poesia inventando trame di racconti, progettando viaggi intorno al mondo o in posizioni yoga a testa in giù. Laureata in lingue e letteratura straniere solo per il gusto di conoscere lingue difficili. Nonostante la struggente nostalgia per la mia laguna veneziana, vivo a Canton, nel sud-est della Cina, dopo aver vagato per il Sud-est asiatico, per insegnare italiano a giovani cinesi. Tra una lezione e l’altra gestisco “Durga – Servizi editoriali”, ma soprattutto porto avanti i miei progetti letterari.
L’amuleto di giada, Arpeggio Libero Editore.
Faust – Cenere alla cenere, Arpeggio Libero Editore.
Esilio, Arpeggio Libero Editore.


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