Gli scrittori della porta accanto

Chi vuoi essere: solo una persona o una persona giusta?

Chiediamoci chi vogliamo essere: solo una persona o una persona giusta?

Di Stefania Bergo. L'uomo ha bisogno di appartenere a un gruppo. E questo è stato spesso usato per influenzare le masse, attraverso i mezzi di comunicazione. Propaganda, de-umanizzazione, assuefazione: quali sono i meccanismi che portano all'indifferenza? Essere spettatori ci assolve dalla colpa? Chi vogliamo essere: solo persone o persone giuste?

Stavo cercando degli spezzoni video per creare un booktrailer e mi sono imbattuta in questo documentario. La parola chiave della mia ricerca era: action, azione...
Just People, a quest for social souls with indipendent minds è un documentario del 2011, commissionato dall'associazione Humanity in Action ad una regista olandese, Annegriet Wietsma – lo trovate alla fine di questo articolo e vi consiglio vivamente di guardarlo. L'epilogo del film è proprio una chiamata all'azione, un tentativo di risvegliare le coscienze con una semplice domanda: chi vuoi essere? Solo una persona o una persona giusta? In inglese si traduce con un gioco di parole assonanti eppure con una differenza talmente profonda da spaccare in due la coscienza: What would you like to be, a just person or just a person?
Mi ha fatto molto riflettere su certi meccanismi sociali, ingranaggi sottili con precise funzioni. Alcune di quelle che appaiono piccolezze in realtà sono profonde impronte che ci vengono impresse nella mente, in grado di indirizzare il nostro comportamento e le nostre percezioni su ciò che è giusto e ciò che invece lo è solo per consuetudine. E ho sentito la necessità di condividere quanto segue, in parte riassunto di quanto mostrato nel documentario, in parte frutto della mia coscienza di essere umano in subbuglio.

Partiamo da un assioma: l'uomo è un animale sociale. 

Siamo "sociali" per necessità, fin dalla Preistoria: per procurarci il cibo più facilmente, per difenderci, portare avanti delle attività, crescere i figli. È innato nell'uomo un bisogno di appartenere: a una famiglia, a una nazione, a un gruppo di persone con cui avere qualcosa in comune, con cui identificarci. Viviamo gomito a gomito coi nostri vicini. Ma vivere insieme in armonia è solo apparentemente facile: dobbiamo fare attenzione, perché «i piccoli screzi possono diventare conflitti, i conflitti possono diventare guerre e le guerre possono includere massacri e genocidi». Dai massacri in Ruanda, ai genocidi in Bosnia, Congo, Turchia; dall'Olocausto, alle repressioni di dittatori sudamericani – solo per citarne alcuni. E risale sempre lungo l'esofago una domanda: com'è potuto – come può – accadere?

L'amara constatazione è che quando si tratta di conflitti, siamo per la maggior parte spettatori, indifferenti. Perché decidere di dissentire, significa pensare autonomamente, fuori dal coro, fuori dal gruppo. 

E questo fa paura, perché, dicevamo, siamo animali sociali.
Il nostro appartenere ad un gruppo significa uniformarsi in qualche modo in esso, condividere e, soprattutto, identificarsi in un noi contrapposto a un loro. Il problema nasce quando, facendo leva sull'appartenenza, le decisioni di uno, che si erge a leader, inficiano il giudizio di molti, non più abituati a pensare in modo autonomo e soprattutto intimoriti dall'essere esclusi dal gruppo stesso. Perché pensare fuori dal coro, ribellarsi quando non si condividono le scelte del leader, significa spesso essere soli, emarginati, diversi.

Già nei piccoli gruppi, anche se non si condividono le scelte del leader e pur volendo opporvisi, allo stesso tempo si teme di essere esclusi

Il binomio appartenenza/esclusione, crea un'altra realtà sociale: le minoranze. E facendo leva su questo, in alcuni casi può avere luogo una propaganda contro di esse.

Si tratta di comportamenti e automatismi sociali estremamente semplici ma maliziosamente e pericolosamente sottili, che proprio in quanto "automatismi" passano inosservati o vengono sottovalutati. In questo modo, vengono iterati in ogni epoca, sempre uguali – eppure pare che continuiamo a ignorarli.
I grandi genocidi della storia sono opera di un lavoro di propaganda atto a sfruttare semplici meccanismi psicologici per addomesticare le masse. Basti pensare alla propaganda di Hitler contro gli ebrei, mirata alla loro de-umanizzazione – li paragonava a ratti infestanti –, per cambiare la percezione collettiva del popolo tedesco. Così come la propaganda di Juvenal Habyarimana, in Ruanda, paragonava i Tutsi a scarafaggi da schiacciare.

Si inizia col creare un nemico esterno al gruppo. Si prosegue de-umanizzandolo, spogliandolo dei suoi diritti. Si finisce per non sentirsi più in colpa a discriminarlo o addirittura sopprimerlo, lo si ritiene una legittima difesa

Si crea un nemico: si fa leva sulla sicurezza del gruppo apparentemente minacciata, sulla proprietà privata collettiva di cui fantomatici loro vogliono appropriarsi, sul concetto di limitazione delle scorte alimentari ed economiche che non basterebbero alla sopravvivenza della comunità. Lo si priva bella sua umanità, dei suoi diritti di essere umano, e così facendo si afferma che discriminarlo, rifiutarlo, perseguitarlo o addirittura ucciderlo sia giusto, un atto di legittima difesa. O che vederlo fare da qualcun altro, essere meri spettatori, quindi, non ci debba far sentire colpevoli. Si diventa aguzzini o indifferenti. In ogni caso, senza compassione. Sì, perché come effetto collaterale, spogliare il nemico – presunto –  della sua umanità, de-umanizza noi stessi.

Il processo di de-umanizzazione non è mai spontaneo ma fomentato lentamente da pochi attraverso i mezzi di comunicazione di massa: radio e televisione un tempo, social network ora – Facebook, YouTube, Twitter. 

In questo modo, anche il nostro vicino, o il nostro compagno di banco, possono diventare, domani, un nemico. È quello che accadde con le leggi razziali – ed è quello che accade troppo spesso anche oggi –: improvvisamente gli ebrei non avevano più diritto all'aria stessa che respiravano, colpevoli di chissà quale ingiustizia che ne rendeva tollerabile la deportazione, nei ghetti prima, nei lager poi.
Menti criminali furono quelle che ordirono l'intero meccanismo perverso, criminali furono quelli che gestivano i campi di sterminio o rastrellavano i ghetti, ma che dire della gente comune?, di quella che semplicemente accettava la situazione, appendendo cartelli ai negozi per informare gli ebrei che non erano ben accetti o che li tradivano svelando alla polizia dove erano nascosti? Davvero «non potevano fare altro»? Gli indifferenti possono essere assolti? È auspicabile pensare che molti non approvassero affatto le leggi razziali e le loro tragiche conseguenze, eppure la maggior parte non fece nulla, semplicemente perché aveva paura o pensava che fosse un problema troppo grande da risolvere, al di sopra delle proprie possibilità individuali.



La risposta a un senso di impotenza è quasi sempre l'assuefazione, l'adattamento, il considerare certi comportamenti normali. Si diventa passivi. Si finisce per non sentirsi colpevoli.

Come si accetta, in nome della moda e della consuetudine, di indossare scarpe scomode, così si finisce per accettare situazioni scomode, come la discriminazione o la persecuzione, ad esempio, solo perché si pensa di non poterle cambiare. Si finisce per sentirsi come soldati in guerra, incapaci di disobbedire agli ordini anche quando li riteniamo ingiusti.
Ma essere semplicemente esecutori di un crimine e non i mandanti che decidono di perpetrarlo, ci rende davvero meno colpevoli? Possiamo decidere deliberatamente di non obbedire affatto?
In un famoso esperimento sociale americano del 1963, poi ripetuto in epoca recente, il Milgram Experiment, un gruppo di persone rivolgeva delle domande a una fantomatica cavia nascosta e in caso di risposta sbagliata doveva spingere un bottone per darle una scarica di corrente di intensità sempre maggiore. Ovviamente la cavia non c'era, si trattava di un esperimento psicologico per osservare il comportamento di persone che eseguono un ordine autorevole – in questo caso quello di uno scienziato – pur essendo in conflitto con i loro valori etici e morali. Il 50% di  loro obbedì. Il 50% si rifiutò di andare oltre. Perché la verità è che ognuno di noi ha una scelta, la scelta di seguire ciò che suggerisce la propria coscienza di esseri umani.

Possiamo fare la scelta di obbedire agli ordini, fingendo di non essere parte del crimine, aspettando che altri prendano l'iniziativa, o dissentire e agire in contrapposizione. Possiamo, in qualche modo, essere eroi.

Tuttavia, spesso gli atti di eroismo sono occasionali, non premeditati, inconsapevoli. Spesso si tratta di individui che non avrebbero mai voluto essere tali. È quello che è accaduto a Rosa Parks, paladina della ribellione degli afroamericani contro la segregazione razziale e del boicottaggio dei mezzi di trasporto pubblici, o a un ragazzo sconosciuto in piazza Tienanmen che si oppose ai carri armati del regime. Loro dissero semplicemente no, scelsero istintivamente di stare dalla parte giusta. Chiunque di noi, quindi, «può essere un eroe», come cantava David Bowie. Ed è in queste circostanze che si realizza che tipo di persona siamo realmente.


Spesso, in un gruppo si aspetta che qualcun altro faccia il primo passo per agire e andare nella giusta direzione. È dunque necessario qualcuno che rompa lo stallo per primo, dia il buon esempio. 

A volte, basta che uno inizi a ribellarsi allo status quo per dare il via anche al resto del gruppo, perché in fondo tutti noi siamo in grado di discernere il giusto dallo sbagliato. Le rivoluzioni nascono sempre da eroi inconsapevoli, o semplicemente individui non più in grado di tollerare le ingiustizie. Basta decidere di volerlo fare, di non essere più un semplice spettatore indifferente.
Non possiamo giudicare chi, in passato, non prese posizione contro le ingiustizie, non possiamo sapere cosa avremmo fatto noi allora. Ma possiamo decidere cosa fare adesso, sapendo che uniformarsi al gruppo non ci rende meno colpevoli, perché alla fine sta a noi scegliere e decidere da che parte stare. Chiediamoci: chi voglio essere? Solo una persona, o una persona giusta?




Stefania Bergo


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1 commenti


  1. Lo stile fa entrare il lettore nella mente della autrice, in maniera tale tu da creare un magico legame con te il lettore, cone un racconto emozionante e soprattutto psicologico !

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