Gli scrittori della porta accanto

Recensione: Figlio del lupo, di Romana Petri

Recensione: Figlio del lupo, di Romana Petri

Libri Recensione di Davide Dotto. Figlio del lupo di Romana Petri (Mondadori). Un ritratto a tutto tondo di Jack London e dell'America che, quando parla di sé, non fa sconti, toccando con mano le sue contraddizioni.

Si perde la vita che abbiamo e si vive quella che si perde.
Romana Petri, Figlio del lupo
Nelle vicende rievocate da Romana Petri, tra biografia e romanzo biografico, vi sono parecchi momenti in cui non si distingue tra la vita di Jack London e quella di uno dei suoi personaggi più famosi, Martin Eden. La spiegazione è semplice. Lo scrittore americano non inventa ma fa il resoconto di ciò che egli stesso ha vissuto e assorbito come fa una spugna.
Nella sua esistenza e soprattutto nelle sue opere, Jack London esprime quanto ha ereditato dai suoi genitori: una forte personalità, il talento per la letteratura, il tutto compendiato nella «andatura bighellonante tra il marinaio e il pugile», nell'animo che mescola ingenuità, sprovvedutezza, «tempesta e ottimismo». Jack è avido di avventura, di novità e di esperimenti.
L’avventura era tutto quello che era diverso, molto diverso dalla vita degli uomini che si accontentavano di vivere e morire dove erano nati. L’avventura era conoscere altri mondi, adattarsi, goderne.
Romana Petri, Figlio del lupo
Riguardo alla formazione del carattere, il romanzo di Romana  Petri pone l'accento sull'influsso di sua madre, Flora Wellman: donna geniale, con un inconsueto entusiasmo che le procura più guai che altro, il cui impeto spinge Jack a impegnarsi in un progetto dietro l'altro, impelagandosi in devastanti punti di non ritorno: «Non si interviene sul futuro» gli dice, «si può solo prevedere», precorrendo quanto, in seguito, egli avrebbe imparato.

Non si sfugge il proprio destino. Quel che deve avvenire troverà comunque il modo di accadere. 

Prevedibile era, forse, l'incontro con chi avrebbe influito sul percorso che avrebbe deciso di darsi: Mabel Appelgarth,  la  Ruth Morse del romanzo Martin Eden. Sarà lei ad attirarlo nel bel mondo (la Casa della Gioia di Edith Wharton) personificandone virtù e bellezza.
La donna subisce il fascino di quest'uomo illetterato e selvatico. Non ne accoglie di buon grado le velleità letterarie quando di esse vuol farne una professione. Né vede di buon occhio una "cultura" fatta di bettole, scazzottate, sobborghi. Preferirebbe per l'amico un impiego fisso e che non avesse troppi grilli per la testa. Tuttavia lo spinge a migliorarsi, a istruirsi al fine di esprimersi in maniera meno approssimativa, ed essere accettato nell'ambiente al quale lei appartiene.
La materia del contendere è la scrittura, strumento dell'ascesa di Jack. Insieme  emerge la profonda consapevolezza di chi, irruento e determinato, può bruciare le tappe, arrivare ovunque voglia. Essere il migliore significa impegnarsi, lavorare senza risparmio. Capisce presto che ha bisogno di un nutrito lessico e di una cultura adeguata per comunicare col "bel mondo". Non è sufficiente il contenuto se non gli si dà una forma appropriata.

Jack London legge intensamente, a lume di candela, «pagine che gli portano via tutto» ma che poi quel che tolgono restituiscono «in quantità doppia, a volte anche tripla».

Figlio del lupo ante litteram, in grado di cavarsela in ogni situazione, rappresenta l'America che, quando parla di sé, non fa sconti, toccando con mano le sue contraddizioni. Ha tutte le qualità per essere "un americano modello", ma ciò non vuol dire affatto avere la strada spianata. Il "modello" non contempla la sconfitta, o la rinuncia. Chi si ferma veramente è perduto; se rimane indietro sua è la colpa. Così facendo London svela la ferocia insita nel proverbiale sogno che non lascia scampo.
A essa oppone l'idea di superuomo declinata in modo inusuale, che risulterà essere quella di un umano troppo umano con nervi fin troppo scoperti. Oppone anche contraddizioni di segno contrario,  un socialismo che non intende lasciare indietro nessuno, con una visione originale del sottoproletariato a basso reddito, da cui egli proviene:
Essere sfruttati era la ragione principale della decadenza. Era così che andava: gli uomini mangiati dal lavoro venivano sostituiti da uomini più giovani o dalle macchine. Lui non avrebbe fatto questa fine.
Romana Petri, Figlio del lupo
Il risultato è insperato. Jack si fa colto, meno barbaro. Contemporaneamente comincia a porsi domande urgenti e piuttosto scomode. Di risposte, il bel mondo non ne ha più di quante ne abbia lui e la meravigliosa utopia mostra già le prime crepe.

In un copione precedentemente scritto seguono il disincanto, la delusione che Jack London ha esorcizzato nei suoi romanzi, senza lasciarsene – al momento – sopraffare. 

Jack London entra di diritto nel numero dei grandi scrittori americani. Il successo ottenuto è meritato ma, se non ha il sapore della sconfitta, ha un retrogusto amaro. Non aggiunge nulla a quanto già è in lui. Sarebbe stato diverso «se avesse vinto tutto con un biglietto della lotteria.»
Solo le cose che ci piovono dal cielo possono renderci felici, quelle che ci costano fatica hanno tutto un altro sapore.
Romana Petri, Figlio del lupo
Anzi: la vita non è come la lettura, spesso toglie senza restituire. Molto di ciò che ha pubblicato e lo rende famoso è stato letto ma non capito da chi, prima ostile, gli apre ora le porte. Lo scrittore dei racconti e dei romanzi scompare dietro un marchio di fabbrica che soddisfa le richieste del mercato. Non ha importanza il valore (il contenuto, letterario e umano) ma il riconoscimento. Ciò che scrive non arriva al cuore, la sua arte si vende, è questo che conta. Il pubblico al quale si rivolge è superficiale, chiuso. Le sue pagine, se fossero metabolizzate sul serio, sarebbero d'intralcio, scandalose.
È andato, lui solo, talmente oltre da correre un rischio esistenziale piuttosto serio, il quale ben traspare nella esasperante ed eccezionale quotidianità ricostruita da Romana Petri, con i suoi se e i suoi ma,  le insormontabili difficoltà che esigono una tempra formidabile.
È vinto, insomma, dal richiamo irresistibile che lo porta a sfuggire e tornare sui suoi passi, qualcosa di simile a Harry Haller, personaggio del celebre romanzo di Hermann Hesse. Alla fine, nemmeno "il lupo della steppa" scampa al suo destino, per quello che vi può essere tra loro in comune.
È come se Jack London – ritratto a tutto tondo in Figlio del lupo di Romana Petri – fosse nato con un programma prestabilito dal quale non poteva prescindere. Ha dato il meglio di sé, qualche volta il suo peggio, più spesso un miscuglio tra le due possibilità. Quel che emerge è il continuo e infaticabile adattamento alle avversità via via incontrate, alle quali l'uomo - prima ancora che lo scrittore - ha risposto lottando finché ne ha avuto la forza, la voglia e la volontà.


Figlio del lupo

di Romana Petri
Saggio | Narrativa biografica
ISBN 978-8804722021
Cartaceo 19,50€
Ebook 9,99€

Sinossi 

Avere una madre come Flora Wellman, stare accanto a una donna che parlava di spiritismo ed era attaccata alla terra, deve pur aver contato qualcosa per diventare "il migliore". Per diventare Jack London. Romana Petri ha raccolto una delle sfide più fascinose che una scrittrice poteva intravvedere: quella di raccontare la furia di vivere di un uomo che ha fatto il pugile, il cacciatore di foche, l'agente di assicurazioni, il cercatore d'oro, che ha amato l'ombra azzurra delle foreste e la smagliante solarità dei mari, che ha guardato, ceruleo d'occhi e di pensieri, l'anima dei popoli in lotta e il cuore delle donne. E qui le donne sono il vero motore del racconto: la fragranza piccolo-borghese di Mabel, la concretezza di Bessie, il fascino intellettuale di Anna Strunsky, la determinazione di Charmian ("essere molte donne in una"), l'insostituibilità della sorella Eliza. Eppure Romana Petri non ha scritto una biografia: Figlio del lupo è un romanzo che srotola il filo di una storia vera, così come è vera la storia dei personaggi che abbiamo amato. E allora ecco sciorinate le vicende di un uomo sospeso fra il rovello ispirato del grande narratore e la voce dispiegata del socialista che vuol parlare, da rivoluzionario, a sette milioni di lavoratori ma non rinuncia a farsi allacciare le scarpe perché non ha tempo da perdere, sospeso fra il gioco dell'amore promesso, vissuto, tradito sempre ad alte temperature e il tormento di un fallimento incombente, malgrado il clangore del mondo e il fuoco alto della fama.
Davide-Dotto

Davide Dotto
Sono nato a Terralba (OR) vivo nella provincia di Treviso e lavoro come impiegato presso un ente locale. Ho collaborato con Scrittevolmente, sono tra i redattori di Art-Litteram.com e curo il blog Ilnodoallapenna.com. Ho pubblicato una decina di racconti usciti in diverse antologie.
Il ponte delle Vivene, Ciesse Edizioni.


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