Gli scrittori della porta accanto

The social dilemma, un docufilm di Netflix: la recensione

The social dilemma, un docufilm di Netflix

Cinema | Netflix Recensione di Elena Genero Santoro. The social dilemma, un docufilm targato Netflix: cosa c’è dietro al business dei social media?

Ricordo ancora quella sera. Una coppia di amici era venuta a cena da noi e mia figlia di quattro mesi se ne stava buona nella sua sdraietta. E chiacchierando questa amica mi parlò di Facebook, che era un network nuovo in cui si caricava la propria foto e si scriveva il proprio nome, come negli annuari dell’università americana.
Era il 2008.
Il giorno dopo sia io che mio marito creammo il nostro profilo. Cercammo subito vecchie conoscenze, gente che non vedevamo più delle scuole superiori, notammo che qualcuno aveva già ben 122 amici a fronte dei nostri sette o otto. In breve fu chiaro che mio marito avrebbe abbandonato presto. Raggiunta la quota dei 50 contatti – suppergiù – perse del tutto interesse verso questo arzigogolo nuovo. Io invece continuai e devo dire che Facebook è nato e cresciuto con me con mia figlia. All’inizio cercavamo solo i vecchi compagni di scuola, pubblicavamo post del tipo "Ciao come state? Vado a far la spesa". Ma poi tutto diventò molto più complicato. E oggi Facebook è quasi un luogo invivibile, che mi ha portato a farmi tante domande.

Proprio queste domande hanno trovato alcune risposte nel docufilm The social dilemma visibile su Netflix, dove esperti del settore, ex programmatori, ex responsabili addetti alle vendite che hanno lavorato in Google, Facebook, Pinterest e altri social spiegano cosa c’è dietro al business dei social media.

Sono persone che dopo averci creduto per davvero sono giunte a una posizione molto critica nei confronti dei social media. Primo tra tutti Tristan Harris, ex programmatore di Google e oggi imprenditore etico.
All’inizio sembrava che il vero grosso problema dei social fosse la condivisione di contenuti personali quali foto di figli, dati sensibili e quant’altro. A questo il docufilm di Netflix nemmeno fa menzione e io stessa do per scontato che ormai siamo tutti consapevoli che una foto caricata in rete può restarci per sempre e finire anche in mano a gente poco raccomandabile.
Gli inventori di Facebook e Google avevano intenzioni buone. Questi social media sono nati per fare del bene e in molte occasioni ne hanno anche fatto: c’è chi ha ritrovato la famiglia perduta, c’è chi ha contattato donatori di organi. È bellissimo essere costantemente vicini ad amici difficilmente raggiungibili in altro modo. Ma l'utopia di mettere la gente in pacifico e amorevole contatto con i congiunti lontani si è scontrata presto con la vile realtà che muove il mondo. Perché né Facebook né Google sono delle ONLUS e quindi in seguito hanno cercato un modo per ottenere dei finanziamenti e trarne profitto.

The social dilemma
The social dilemma, un docufilm di Netflix: la recensione

The social dilemma

REGIA Jeff Orlowski
SCENEGGIATURA Jeff Orlowski, Davis Coombe, Vickie Curtis
FOTOGRAFIA Mark A. Crawford
PRODUTTORE Larissa Rhodes
DISTRIBUZIONE Netflix
ANNO 2020

CAST
Skyler Gisondo,Kara Hayward,Vincent Kartheiser

Il docufilm Netflix The social dilemma incentra la narrazione proprio su questo, sul modello imprenditoriale alla base dei social media che, negli anni, ha portato a conseguenze inimmaginabili e molto negative.

Tristan Harris dice che in tempi passati i prodotti della Silicon Valley erano i computer, erano i software, e il cliente pagava per comprarli; oggi i social media, per i quali l’utente non paga, non sono prodotti: i prodotti siamo noi utenti. E qui entrano in gioco i nostri dati.
A differenza di ciò che pensano molti, Facebook non cede i nostri dati a terzi, non avrebbe senso. Non sarebbe conveniente. Facebook e tutti gli altri, in base ai nostri gusti, ci propongono prodotti che potrebbero essere di nostro interesse affinché noi li acquistiamo. Infatti gli unici finanziatori di Google e di Facebook sono gli inserzionisti.
Fin qui si potrebbe dire tutto bene, di questo ce ne eravamo accorti anche noi. A me che interessano vestiti e cosmetici molte volte sono stati mostrati post di aziende di abbigliamento e di creme anti-età che ancora non conoscevo e in un paio di occasioni posso dire che se l’intento era quello di spingermi ad acquistare, ci sono riusciti. Ho scoperto aziende che facevano al caso mio e sono pure soddisfatta. Nessuno mi ha puntato una pistola alla tempia affinché comprassi; mi è stata offerta una possibilità e l’ho sfruttata. Non parliamo dei libri. Dunque tutti contenti, tutti felici, gli inserzionisti guadagnano, Facebook guadagna, Instagram guadagna, e la mia pelle è più giovane ed elastica.

Quello che i più ignorano sono i meccanismi con i quali l’utente viene incentivato a restare connesso per il maggior tempo possibile.

Innanzitutto, per propormi pubblicità di mio interesse, il social media, con i suoi algoritmi, studia il mio profilo. Ma non si limita a considerare la mia età, il mio sesso, i miei interessi generali. Il famoso algoritmo, che pare vivere di vita propria, registra tutti i post su cui mi soffermo e anche per quanto tempo li ho osservati. A essere sotto controllo è l’attività di ciascun utente e il suo tempo di permanenza sui social. Ovviamente, per venire incontro ai bisogni degli inserzionisti che pagano, il tempo di permanenza deve essere il più alto possibile. Inoltre i social sono in concorrenza tra loro, Google cerca di strappare gli utenti a Facebook e viceversa.

E qui inizia il (social) dilemma etico con cui i progettisti con una coscienza a un certo punto si sono scontrati. Per incentivare un utente a prendere in mano il telefono e a non posarlo mai si è giocato sui meccanismi di dipendenza.

Avere un telefono in mano deve essere un’attività piacevole, che fa salire la dopamina del cervello. Il telefono diventa il ciuccio consolatorio in cui ognuno indugia nei tempi morti.
«La domanda è: guardi il telefono prima di andare in bagno al mattino o mentre stai urinando? Perché non ci sono altre scelte.» Tristan Harris spiega che lo scroll, sul quale personalmente non mi ero mai posta domande, è stato pensato in quel modo proprio per aumentare la dipendenza. Scrollare una pagina con la speranza di ottenere contenuti nuovi è analogo a giocare con la slot-machine.
Mi viene in mente l’esperimento dei topi ai quali viene erogata una porzione di cibo solo se schiacciano un pulsante. Loro associano il piacere del cibo a quel pulsante e continuano a schiacciarlo anche quando da quel pulsante il cibo non esce proprio più, perché ormai il meccanismo di dipendenza è consolidato. Con lo scroll è la stessa cosa. L’utente usa lo scroll ripetutamente nella speranza che gli dia un nuovo contenuto piacevole, cosa che non sempre succede, e proprio questa incertezza lo porta a ripetere l’azione in maniera compulsiva.

Un altro mezzo per incentivare le dipendenze è il sistema delle notifiche.

Quando l’utente riceve una notifica difficilmente resiste alla curiosità di guardare. Se viene taggato guarda. Se gli viene segnalato l’arrivo di un messaggio guarda. E poi continua la navigazione. Sono gli stessi meccanismi psicologici che vengono utilizzati dai prestigiatori durante i loro spettacoli. Capite dunque che se la maggior parte delle persone oggi giorno è soggiogata dall’incantesimo collettivo dei social una ragione c’è.
Ma cosa succede se il fine dell'inserzionista non è solo farci acquistare un paio di scarpe nuove ma, per esempio, farci decidere come votare? Inoltre, se un adulto tutto sommato gode di una coscienza critica, quali possono essere le conseguenze sulle menti più giovani?

Riguardo ai giovani The social dilemma presenta due dati molto inquietanti.

Il primo è l’aumento dei suicidi e dei comportamenti autolesionistici negli adolescenti a partire dagli anni 2011-2013, quelli in cui i social media hanno avuto il boom.
Il secondo è il nuovo trend dei giovani che chiedono interventi di chirurgia estetica per assomigliare a se stessi con i filtri (in questo punto del docufilm non viene indicato Instagram, ma ritengo che Instagram sia il più responsabile e il social che più stuzzica il narcisismo e l’edonismo).
Infine il dato più allarmante: le fake news. Né Facebook né Google mostrano al proprio utente una realtà unica. Al contrario lo chiudono nella bolla di ciò che vorrebbe vedere. Quello che vedo io non è quello che vedi tu. Se l’utente chiede solo gattini, gli mostrano solo gattini. Anche questa non è una notizia nuova.
Il panorama è customizzato, come nel Truman Show.


Da un lato ci controllano, dall’altro quel che abbiamo intorno è creato su misura per noi.

Se un contatto è molesto può essere agilmente rimosso e nessuno è più costretto a starlo a sentire. Ammetto che io stessa, nell’ultimo periodo, piuttosto che impelagarmi in discussioni sterili e senza costrutto, di cui Facebook è pieno (e questo è il motivo per cui comincia ad andarmi molto stretto) preferisco rimuovere certi amici con idee per me inaccettabili e già che ci sono li banno anche, non per malanimo o risentimento, per non commettere l’errore di chiedere loro di nuovo l’amicizia in futuro.
Aggiungo un altro commento personale: se Instagram è il social del narcisismo, Facebook ormai è una piazza piena di cagnara. Mark non ha mai voluto mettere il tasto dislike per promuovere la positività, e forse ci credeva davvero, ma la sola esistenza dei cosiddetti "gruppi" dove gli sconosciuti possono insultarsi senza neanche conoscersi è causa di litigi continui e di istigazione all'odio.
A questo fenomeno se ne sommi un altro: Facebook o chi per esso ci fa vedere la realtà che vogliamo, ma non analizza criticamente la veridicità delle notizie a cui permette di circolare. Ora, siccome le bufale piacciono molto più della verità perché sono più divertenti, mentre la realtà è ritenuta noiosa, le fake news si diffondono a macchia d’olio e se qualcuno le ritiene vere da quel momento vedrà solo notizie simili ritrovandosi infine ingabbiato in una sua realtà personale che non è oggettiva. Da qui il dilagare di no-vax che si danno man forte uno con l’altro, di terrapiattisti, ed ecco il diffondersi di tutte le teorie del complotto possibili e immaginabili. Bisognerebbe avere lo spirito critico di capire che non tutto ciò che circola su Facebook è scientificamente verificato, ma purtroppo non tutti sono in grado di analizzare le fonti.

Leggi anche Elena Genero Santoro | Haters e webeti: l'odio corre sulla tastiera

La conseguenza di ciò è una maggiore polarizzazione delle fazioni su ogni possibile argomento.

Per esempio in America abbiamo democratici contro repubblicani (in questo momento ognuno pensa che l’altro sia il demonio, che sarà la rovina degli Stati Uniti e della democrazia). Questa enorme polarizzazione, questo questo arroccarsi su opinioni opposte come fossero montagne, senza lasciar margine al dialogo sta uccidendo ogni forma di scambio culturale.
Devo fare un mea culpa, anche io ho annullato (virtualmente) persone pro Salvini o pro fascismo, o no-vax, o no-mask, e per quanto sia convinta che né Salvini né il fascismo siano cosa buona per il mio paese, probabilmente l’uccisione virtuale dei suoi sostenitori non è la via corretta da percorrere. Ma anche io devo difendermi. Ed è un vero peccato che le cose vadano così, perché Facebook, in particolare, è una piattaforma fantastica per lo scambio di notizie e informazioni. A me piace condividere articoli, leggere pezzi scritti da altri. Potrebbe diventare un potente mezzo culturale, invece, impostato così, diffonde solo il populismo e amplifica i bassi istinti.
Addirittura l’ansia degli ex operatori di Facebook e Google, ora divenuti imprenditori etici, li porta a credere che nell’arco di un paio di decenni questa polarizzazione di opinioni possa condurre a delle guerre civili. Guerre civili nella vita reale, intendo.
Da cui la riflessione sul modello imprenditoriale perseguito da almeno dodici anni. Che, anche senza prossime guerre civili, stando al clima che oggi si respira sui social, deve essere fatta per forza.
Elena Genero Santoro

Elena Genero Santoro


Ti siamo davvero riconoscenti per il tempo che ci hai dedicato. Se sei stat* bene in nostra compagnia, che ne dici di iscriverti alla NEWSLETTER SETTIMANALE per restare sempre aggiornat* sui nostri argomenti? Oppure potresti offrirci UN CAFFÈ o sostenerci acquistando i GADGET ispirati ai nostri libri. Te ne saremmo davvero grati!
Oppure potresti lasciarci un commento per farci sapere che ne pensi di questo articolo, il tuo feedback è davvero importante per noi.
NB: Gli autori non sono responsabili per quanto pubblicato dai lettori nei commenti ad ogni post. Tuttavia, verranno cancellati i commenti ritenuti offensivi o lesivi della immagine o della onorabilità di terzi, razzisti, sessisti, spam o che contengano dati personali non conformi al rispetto delle norme sulla Privacy e, in ogni caso, ritenuti inadatti a insindacabile giudizio degli autori stessi.

About Elena Genero Santoro

Il webmagazine degli scrittori indipendenti.
0 commenti

Posta un commento

<< ARTICOLO SUCCESSIVO
Post più recente
ARTICOLO PRECEDENTE >>
Post più vecchio
Home page

Parole chiave


Pubblicità
Abbonamento Audible Amazon




Libri in evidenza