Gli scrittori della porta accanto

Il giorno dei morti: riflessioni da pandemia



Di Elena Genero Santoro. 2 novembre 2020: il giorno dei morti, una ricorrenza dolce e struggente. Riflessioni sulla pandemia, sulla fede e sull'amore dei e per i nostri cari defunti.

Per qualche anno, quando i miei figli erano un po’ più piccoli, la vigilia di Ognissanti, cioè Halloween, si è tramutata in un’allegra consuetudine per bambini. Abbiamo frequentato ogni festa a tema possibile e immaginabile, con i miei bimbi vestiti puntualmente da gatti neri. Feste da McDonald’s, feste in piazza dove venivano distribuiti pane e Nutella ai ragazzini… L’anno scorso una cena a tema al ristorante con le truccatrici che agghindavano i marmocchi con ogni forma di orrore possibile, dalle ragnatele sulla fronte ai ragni sulle guance.
Se penso a quanto era stata caotica quella cena, ancora non ci credo. Bimbi che correvano ovunque, chiasso, baccano, urli, strilli, gente ammassata tra i tavoli. Un’illuminazione rossastra che rendeva tutto fastidioso. Eppure era una vita spensierata. Nessuno allora avrebbe immaginato che in capo a pochi mesi ci saremmo ritrovati a parlare di distanziamento sociale e di mascherine a causa di una pandemia inaspettata. Che dopo un momento di ripresa le cose sarebbero ancora peggiorate. E che nel giorno dei morti avremmo pensato per davvero ai nostri morti.


È qualche anno che, superato Halloween, vivo il giorno dei morti, El dia de los muertos, come una ricorrenza dolce e struggente al tempo stesso.

Che ho l’impressione che, in certi frangenti, il confine tra questo e l’altro mondo diventi più sottile. Che quando, con zii, fratelli e cugini, ci ritrovavamo intorno a una torta di nocciole a ripensare ai nostri cari che non ci sono più, eravamo davvero tutti lì, una famiglia indivisa, nonostante tutto.
Quest’anno abbiamo pianto molto. Abbiamo sopportato, abbiamo avuto paura, ci siamo illusi di vedere la luce in fondo al tunnel e ora siamo ripiombati nell’incubo. Qualcuno piange i suoi defunti. Morti ingiustamente. Per qualcuno questa nuova realtà è talmente inaccettabile che ancora la nega. Di certo nessuna vita è rimasta uguale.
Quando, un paio di settimane fa, la situazione dei contagi si è aggravata a livello esponenziale, mi sono sentita senza scampo, pervasa dal panico e dal terrore. Sembra che non ci sia più un porto sicuro, un’oasi di salvezza in cui rifugiarsi. Il Covid-19 è ovunque, si annida nelle scuole e nell’armonia familiare, insidia ogni angolo della nostra esistenza. Come si può restare leggeri, con questa spada di Damocle che ci pende sulla testa? Che se non ci schiaccia il virus, che se anche lo prendiamo e guariamo senza strascichi, comunque ci uccide la crisi economica?


Si è riaffacciata la fede. La fede nella scienza, che prima o poi troverà un modo per risolvere questo pasticcio. E la fede in un disegno più grande.

Sono stata molti giorni a vagare mollemente tra un divano e il tavolo dello smartworking, lavorando senza sosta per non pensare. Non riuscivo a trovare un punto di vista positivo. La speranza se n’era andata in vacanza.
Poi, però, si è riaffacciata la fede. La fede nella scienza, che prima o poi troverà un modo per risolvere questo pasticcio. E la fede in un disegno più grande. Facciamo parte di un piano di più ampio respiro. Non basta questo mondo per risolvere tutto. Non troveremo qui tutte le risposte. Ci siamo noi, e ci sono anche gli altri, quelli che ci hanno amato prima e che ora sono nell’Altrove. Il loro amore non finisce con la morte, ci accompagna, ci guida sempre. Per quanto le cose possano andare male qua, non siamo soli.
La morte ha un limite, è quello dell’amore. Oggi il confine tra l’adesso e il dopo è davvero molto sottile.

Elena Genero Santoro


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