Di Elena Genero Santoro. La commemorazione dei morti è un momento di unione delle famiglie, l'occasione per conoscere le storie dei nostri cari. Nella speranza di ritrovarci tutti oltre la morte.
A casa nostra con Halloween ci divertiamo un sacco. Il carnevale d’autunno è la festa preferita di tutti i bambini. I miei figli non sono da meno e si trasformano in due gatti neri, più teneri che mostruosi, e di solito cerchiamo una festa in cui ballare e giocare. La zucca, i ragni, i biscottini… Una meraviglia.
Ma poi, nel giorno dei Santi, ci aspetta il giro al cimitero, scherzosamente detto Cimi-tour.
Al cimitero io non vado spesso. Per fortuna o purtroppo ho molte incombenze nel mondo dei vivi. Ma c’è un giorno all’anno in cui ritengo giusto fermarmi e lasciare fluire malinconia e ricordi.
Vivendo in un piccolo paese, la maggior parte dei parenti e dei defunti a me cari sono tutti a pochi chilometri da casa. Ed è vero che i morti non sono dentro la bara, ma nella mente e nel cuore, eppure la carrellata che ogni anno mi impongo ha sempre un forte impatto emotivo. Quando mi trovo davanti alla lastra di marmo che mi separa da ciò che queste persone erano, non riesco a non commuovermi.
Vivendo in un piccolo paese, la maggior parte dei parenti e dei defunti a me cari sono tutti a pochi chilometri da casa. Ed è vero che i morti non sono dentro la bara, ma nella mente e nel cuore, eppure la carrellata che ogni anno mi impongo ha sempre un forte impatto emotivo. Quando mi trovo davanti alla lastra di marmo che mi separa da ciò che queste persone erano, non riesco a non commuovermi.
Il mio primo approccio con la morte avvenne quando avevo diciassette anni.
Un coetaneo schiantato in moto. Uno che conoscevo da lontano, aveva frequentato il mio stesso corso di nuoto qualche anno prima, andavamo tutti insieme sul pullman, intruppati, noi e altri cinquanta. E a un certo punto lui non c’era più. Ne restai sconvolta. È destabilizzante fare i conti con la morte a diciassette anni, soprattutto se il defunto è un ragazzo come te e pensi che ciò che è capitato a lui potrebbe capitare a te. A diciassette anni ragioni con la testa di un adolescente; crescendo ti rendi anche conto di quanto deve essere stato devastante per la sua famiglia, di come il cuore di una madre possa straziarsi.
L’anno seguente, negli stessi giorni di fine ottobre, morirono altri due compagni della leva del 1975. E ancora uno nel 2000. Sempre per incidenti di moto. Ma non furono i soli. Nel frattempo avevo perso la prima nonna e anche un’altra ragazza, cugina alla lontana, per un incidente d’auto.
L’idea della morte per molti anni mi fu traumatizzante. Era qualcosa che si metteva per traverso a quello che per me era il fluire della vita. D’un tratto mi ero resa conto di quanto la vita fosse precaria, che tutto poteva finire senza il minimo preavviso e nemmeno noi giovani eravamo immuni alle tragedie. Non ne coglievo il senso, provavo solo paura.
L’idea della morte per molti anni mi fu traumatizzante. Era qualcosa che si metteva per traverso a quello che per me era il fluire della vita. D’un tratto mi ero resa conto di quanto la vita fosse precaria, che tutto poteva finire senza il minimo preavviso e nemmeno noi giovani eravamo immuni alle tragedie. Non ne coglievo il senso, provavo solo paura.
L’anno scorso, però, quando morì la mia ultima nonna, portai i miei figli (all’epoca di nove e sei anni) a vedere la salma – una salma composta e serena - e poi anche al funerale.
La decisione fu ponderata a lungo e supportata da testi di psicologia. Scegliemmo di dire la verità ai bambini, di non nascondere loro nulla, perché iniziassero a prendere confidenza anche con questo aspetto più sgradevole, ma necessario della vita. Ritenemmo che avrebbero dovuto iniziare a familiarizzare con questo concetto partendo da una bisnonna ultranovantenne. Solo così avrebbero iniziato a elaborarla. Il figlio piccolo non si rese conto in realtà. La grande soffrì, andò in panico per settimane. Quella nonna l’aveva vissuta, si rendeva conto della sua dipartita e non l’avrebbe potuta cancellare con un colpo di spugna. Eppure anche mia figlia doveva passare dalla porta stretta.
Quest’anno il Cimi-tour è stato una piacevole sorpresa. I miei figli davanti alle tombe hanno iniziato a fare domande. Ma chi era Genero Domenico? Era il nonno del nonno Domenico. E chi era Genero Felice? Lo zio del nonno Domenico, quello che si è preso cura di lui per qualche anno dopo che Genero Bartolomeo, padre del nonno Domenico, era morto — bestemmiatore seriale, ce l’aveva con i preti a prescindere. Purtroppo ebbe un incidente, cadde da una scala e se ne andò ancora in giovane età. E Siciliano Loredana? La sorella della nonna Giovanna, morta dopo soli otto giorni di vita. La zia che io non ho mai conosciuto. Il grande rimpianto di tutta la famiglia.
Ci siamo trovati a ricostruire tutti insieme l’albero genealogico, ad affondare le mani nelle nostre radici, a raccontare aneddoti, eventi lieti e anche i drammi, che però fanno tutti parte della nostra storia.
In quel momento, davanti alla tomba dei miei nonni, senza che avessimo un appuntamento, è arrivato il mio prozio, l’ultimo fratello in vita di mio nonno, e con lui i suoi figli. La moglie è mancata solo un anno fa. Era una signora molto carina, dolce e intelligente, di cui tutti sentiamo la mancanza. Lui aveva in mano alcune delle lettere che in gioventù si era scambiato con la moglie, quando erano ancora fidanzati. E quelle lettere lui ce le ha lette nel pomeriggio, a casa di mia madre, davanti a tutti i nipoti radunati, descrivendo un amore intenso, passionale, che è stato alimentato e coltivato per decenni e che ancora vive.
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È stato in quel momento che ho capito che eravamo tutti lì, i vivi e i morti, e che la morte non aveva diviso la nostra famiglia. Un po’ come nel film di Coco della Disney, che ho recensito qualche mese fa. C’eravamo proprio tutti, noi che siamo ancora qui, e quelli che sono già passati dall’altra parte. Allora mi sono lasciata cullare da una malinconia bella, mi sono abbandonata a uno struggimento dolce. Con la speranza che prima o poi ci ritroveremo tutti, altrove.
Elena Genero Santoro |
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