Professione lettore Di Stefania Bergo. La stanza numero cinque, un romanzo breve dalla parte delle donne, attuale come la demonizzazione della legge 194.
La legge n. 194, del 22 maggio 1978, ha depenalizzato e disciplinato, con referendum abrogativo, le modalità di accesso all'interruzione volontaria della gravidanza. Prima di tale legge, infatti, l'aborto era considerato dal codice penale italiano a tutti gli effetti un reato ed era prevista una pena detentiva sia per chi provvedeva all'interruzione della gravidanza sia per chi la subiva, indipendentemente che la donna fosse consenziente o meno.Solo nel 1975 — senza entrare nel merito di quali partiti politici fossero coinvolti —, sull'onda della rivoluzione culturale e sessuale in atto nella società italiana, iniziò una campagna abortista a livello nazionale per combattere la piaga dell'aborto clandestino. In quello stesso anno venne anche aperto il primo consultorio nazionale a Firenze.
Riassumendo, la 194 consente alle donne di ricorrere all'aborto in strutture pubbliche o convenzionate, chiaramente solo nei casi previsti dalla legge stessa e comunque nei primi novanta giorni della gravidanza, mentre tra il quarto e quinto mese è possibile ricorrere all'aborto solo per motivi di natura terapeutica. Il personale sanitario delle strutture può invocare l'obiezione di coscienza, fermo restando che deve essere garantita alla donna la possibilità di ricorrere all'interruzione volontaria di gravidanza, o IGV, come sancito per legge.
Il testo integrale della legge 194 è consultabile direttamente sul sito del Ministero della Salute, mentre le informazioni sulle statistiche degli aborti nel 2017 sono disponibili sul sito dell'ISTAT.
Quello che vorrei fare in questo articolo, invece, è soffermarmi sulle donne, sul perché difendere la legge 194 non significhi essere contro la vita.
Il primo articolo della legge stessa recita quanto segue:Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l'aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.È abbastanza cristallino, dunque, che la 194 non sia una legge contraria alla vita, irrispettosa o addirittura criminale. Anzi, è una legge che al suo interno sancisce anche il diritto delle donne di avere a disposizione i supporti necessari per vivere la gravidanza, anche quando problematica, nel miglior modo possibile. Si impegna, cioè, a trovare delle valide alternative, nell'interesse della donna e del bambino.
La legge 194 è spesso difesa al grido di «il corpo è mio e me lo gestisco io».
A qualcuno può apparire un'affermazione irriverente, superficiale, sfacciata. Ma il suo significato va al di là della mera analisi grammaticale. La verità è che spesso le donne sono lasciate sole ad affrontare gravidanze a volte troppo pesanti per un solo essere umano. Per quanto ci possano essere strutture sociali di supporto, famiglie alle spalle o mariti premurosi, le madri sono le uniche costrette a fare i conti con la propria scelta, qualunque essa sia, per il resto della loro vita. Ad esse non è concesso tagliare la corda — come fanno troppo spesso i padri —, ci devono essere sempre. In altre parole, troppo spesso la madre è sotto una lente d'ingrandimento invadente a volte deformante, un peso che avrà sulle spalle e dovrà mettere in conto senza sconti nel proprio futuro. Detto questo, mi pare il minimo che quanto meno abbia il diritto di scegliere.La stanza numero cinquedi Stefania BergoPubMe | Collana Gli Scrittori della porta accanto Romanzo breve | Narrativa ISBN 9788833663463 ebook 2,99€ cartaceo 6,00€ |
Una scelta che non è mai facile. Non si tratta di sbarazzarsi di qualcosa che non si vuole, ma di pensare oltre, a quello che ne sarà di quella vita una volta nata.
Non necessariamente dare alla luce è un atto d'amore a prescindere. Perché ogni neonato ha diritto non solo alla vita ma anche e soprattutto alla vita dignitosa, alle migliori condizioni possibili per crescere e diventare adulto. Io credo che il vero atto d'amore sia tenere conto di questa variabile per nulla irrilevante.Come accade nel caso di gravi malattie genetiche. Con questo non voglio dire che sbagli chi mette al mondo un figlio malato, ma allo stesso modo non mi sentirei di accusare chi, pensando al suo futuro, decida di non farlo — chiaramente è solo uno dei tanti esempi.
Che vita sarà la loro quando i nostri figli saranno solo cartocci di corpi, quando saranno grandi ma continueranno ad aver bisogno di noi per mangiare, per andare in bagno, per vestirsi, per comunicare? Li amo così tanto da non riuscire a coglierne i contorni, ma non vivrò per sempre. E nessun altro al mondo, nemmeno il professionista più preparato e sensibile, riuscirà mai a occuparsi di loro come facciamo io e Jens. E loro ne soffriranno. Ma non come soffriremo noi quando moriranno i nostri genitori. Sarà per loro devastante, perché solo allora si renderanno conto che la vita che avranno vissuto fino a quel momento non sarà stata per nulla dignitosa, ma solo un accecante riflesso di tutto il nostro amore...
Stefania Bergo, La stanza numero cinque
Nel mio libro, La stanza numero cinque (Gli Scrittori della Porta Accanto Edizioni), ho indossato le scarpe di cinque donne che hanno scelto l'aborto, ho raccontato le loro storie e ascoltato le loro ragioni.
Tutte hanno in grembo un figlio con un "ma": Eva è l’amante di un uomo sposato; Chiara ha solo sedici anni e le è stata usata violenza; Valeria teme di non poter crescere un bambino gravemente malato; Daniela rischia la vita per una quinta gravidanza; Miriana non vuole rinunciare alla propria carriera. Emma Fenu, Cultura al FemminileSono solo cinque, ma le storie di donne che si trovano ad affrontare una gravidanza intrisa di "ma" sono tante, troppe per poterle narrare tutte. Ne ho scelte alcune, quelle più dissimili tra loro, un piccolo campione. Sono storie inventate, raccontate incastrando tratti di vita vissuta di donne incontrate sul mio cammino, storie udite passate di bocca in bocca, a volte raccogliendo giudizi che sono rimasti loro appiccicati addosso come un marchio. Un campione realistico, quindi. Per portare il lettore a riflettere.
Non si tratta di un libro che istiga all'aborto, tutt'altro. È un libro dalla parte delle donne. Della vita.
La trama di questo romanzo breve si apre raccontando le vite di Eva, Chiara e sua madre Liliana, Valeria e il compagno Matteo, Daniela e suo marito Giovanni, Miriana e l'amica del cuore Claudia, che un figlio lo vorrebbe ma non lo può avere. Ci sono molte variabili in gioco, quindi, e molte voci, anche maschili. Perché, se da un lato i padri sono una presenza ectoplasmatica, dall'altra sono profondamente legati alle donne che amano, che con loro vivono la stessa devastante spada di Damocle di una scelta che segnerà per sempre le loro vite. Ma, è inutile negarlo, ci sono anche uomini che si defilano, uomini che violentano incuranti, uomini che non vogliono alcun effetto collaterale oltre una relazione di mero sesso, uomini che abortiscono il loro essere padri.Ho creduto che una volta scoperto che sono incinta avrei avuto lo stesso peso nelle sue scelte tra me e la moglie, perché ora un figlio ce l’ho anch’io. E invece no. È stata solo un’illusione. Non penserai di tenerlo, vero? Ho fantasticato per due lunghissime ore prima di infrangermi contro il suo non penserai di tenerlo, vero? E ora non riesco nemmeno più a guardarmi allo specchio, io... ma lui?E le donne tornano ad essere sole.
Stefania Bergo, La stanza numero cinque
Le cinque donne si raccontano e confrontano per una lunghissima notte, nella stanza d'ospedale dove sono ricoverate. C'è anche chi l'aborto, pur trovandosi in una situazione difficile, non l'ha scelto affatto.
Proprio perché, sebbene la legge 194 dia alle donne il diritto di scegliere l'interruzione volontaria di gravidanza, questo non significa che ne facciano ricorso sempre e comunque, non c'è un distopico pericolo di crescita zero, di estinzione del fenotipo italico a causa della 194.Sono rimasta incinta a vent’anni e sono stata messa alla porta dalla mia famiglia. Non mi hanno dato nemmeno modo di raccontare la mia storia con Simone, un compagno di corso alla Facoltà di Lingue. [...] Ma io ero solo una delle tante, non aveva mai avuto intenzione di rinunciare alla sua libertà, non mi aveva mai promesso niente. Quando restai incinta mi chiese di abortire. E quando capì che non l’avrei fatto, se ne andò in Turchia, in uno di quei progetti per catalogare le tartarughe marine.È un romanzo corale in cui si possono distinguere nitidamente tutte le voci, tutte poste appositamente sullo stesso piano. Nessuno ha torto, nessuno ha ragione. Non ci sono giudizi su come queste donne abbiano condotto o condurranno la loro vita, solo empatia. Qualcuna potrebbe anche identificarsi in una di queste donne, qualcun altro lasciare entrare nell'animo quanto meno un ragionevole dubbio.
Stefania Bergo, La stanza numero cinque
Miriana è una donna proiettata alla sua fulgida carriera di amministratore delegato e forse rappresenta l'unica donna che, agli occhi di molti, è davvero criticabile e definibile egoista. O forse no.
Quanti sono gli uomini che scappano da gravidanze vincolanti o relazioni importanti per inseguire il posto di prestigio? Sono parimenti additati dal volgo? Con Miriana — ma anche con Daniela — ho voluto toccare anche un altro tema assolutamente non trascurabile da parte di chi è così facile al giudizio senza prima indossare le scarpe degli altri. Alle donne è spesso chiesto di rinunciare al lavoro, non hanno adeguate agevolazioni in termini finanziari e di flessibilità oraria, anzi, spesso rischiano il licenziamento appena il ventre comincia a gonfiarsi — come è accaduto ad una mia cara amica d'infanzia, ora splendida madre e imprenditrice di se stessa. Non c'è una reale tutela della maternità che tenga conto anche di una tutela della donna. E questo, a mio avviso, è lo specchio di un altro stereotipo duro a morire: una donna ha senso solo in quanto madre, anzi, è quello che ci si aspetta socialmente da lei. Tutto il resto è irrilevante. Per la società, chiaro. Ma per lei può tramutarsi in un macigno.«Cla, smettila e torna su questo pianeta! Ma quando mai una donna non ha problemi a conciliare il lavoro con la maternità? Quante manager conosci che dirigano aziende e crescano figli senza défaillance in almeno una delle due parti? Quante ne hai viste tirare fuori un biberon e allattare il proprio marmocchio nel bel mezzo di un meeting internazionale con altri dirigenti? Cla, il mio contratto non prevede alcuno sconto per maternità, se non mantengo questi ritmi posso dire addio alla mia posizione» ammise infine con desolata resa.Forse, prima di demonizzare una legge e indossare il cappuccio bianco degli inquisitori, sarebbe bene pretendere una maggiore tutela delle donne che, nonostante le difficoltà, vogliano comunque portare a termine la gravidanza e crescere un figlio, non lasciarle sole ad affrontare giudizi discriminatori o stereotipi medievali. E non da meno servirebbe una maggiore educazione sessuale ed emotiva per le adolescenti — e gli adolescenti — che, malgrado abbiano a disposizione una vasta fonte di informazione, mancano troppo spesso di guide per potersi orientare, in balia dell'attitudine malsana dei loro coetanei — e non solo. Come dire, prevenire è meglio che curare.
Stefania Bergo, La stanza numero cinque
La stanza numero cinque ha un finale aperto. Perché inizialmente l'idea era di far scegliere al lettore cosa accadrà dopo l'ultimo capitolo.
Ma poi mi è sembrato un controsenso, il vero spirito di questo romanzo è esattamente l'opposto. Il finale è aperto solo perché non è importante sapere se le donne cambieranno idea o no, ancora meno potremo deciderlo noi. Quello che mi stava a cuore era portare al lettore una manciata di storie di donne che scelgono l'aborto, una piccola frazione della realtà. Per provare a indossare le loro scarpe prima di giudicare dall'alto. Anzi, per non giudicare affatto e comprendere la necessità di una legge che regolamenti l'accesso all'interruzione volontaria di gravidanza. Questo romanzo vuole solo essere un modo per riflettere, soprattutto ora che la legge 194 è pericolosamente messa in discussione e additata come criminale, contro la vita. Perché non è così.Essere genitori non è solamente dare la vita, è assicurare ai figli un futuro dignitoso e avere la possibilità di crescerli al meglio, e prendere in considerazione questo aspetto non fa di una donna un'egoista insensibile. O, peggio ancora, un'assassina.
Nessuno può scegliere per noi, Miriana. Nessuno porterà mai le nostre scarpe. E nessuno avrà mai il diritto di giudicarci. Ma noi lo faremo per il resto della nostra vita, ogni maledetto meraviglioso giorno che ci aspetta. [...] Quindi no, Miriana, nessuno può decidere per te. Ed è giusto così. Nessuno ne ha il diritto.Difendere la legge 194 non significa non essere a favore della vita. Significa solo stare dalla parte delle donne.
Stefania Bergo, La stanza numero cinque
Stefania Bergo |
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Infatti la cosa assurda è che ci si batte tanto per la gravidanza e la nascita, e non si pensa al dopo che è mille volte più importante . Al dopo del bambino e al dopo della madre.
RispondiEliminaAle