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Recensione: Il mago del Cremlino, di Giuliano da Empoli

Recensione: Il mago del Cremlino, di Giuliano da Empoli

Libri Recensione di Argyros Singh. Il mago del Cremlino di Giuliano da Empoli (Mondadori). Il monologo di Vadim Baranov, immaginario consigliere di Putin, testimone della caotica imprevedibilità del presidente russo che si trasforma in uno strumento di potere.

Il mago del Cremlino è l’ultimo libro di Giuliano da Empoli, già pubblicato in Francia per Gallimard e ora giunto in Italia. Al centro del romanzo, il personaggio immaginario di Vadim Baranov, consigliere del presidente russo Vladimir Putin, ispirato allo spin doctor Vladislav Surkov. Questi racconta al narratore la sua vita, in quella che appare una lunga intervista, o meglio un monologo, scaturito dall’incontro tra due appassionati di Evgenij Zamjatin, scrittore russo autore del romanzo distopico Noi.

Il protagonista finisce non solo per raccontare se stesso, ma i cambiamenti che hanno interessato la Russia dagli anni Novanta fino alla sua rimozione quale consigliere.

A Surkov è accaduto nel 2020, dopo essersi occupato, tra gli altri incarichi, anche dei rapporti con l’Ucraina.
La forma del romanzo consente a Giuliano da Empoli di rendere più accessibile una materia intricata, fatta di nomi non sempre noti a chi non si occupa di attualità politica o di geopolitica. I dialoghi si inseriscono nel monologo aprendo nuovi varchi al lettore, che può così uscire dalla casa di Baranov per entrare nella storia russa recente, come nei fotogrammi di un film accordati a una voce fuori campo.

Prima di interpretare i panni di un novello Rasputin, Baranov proveniva dal mondo dell’arte e dello spettacolo, ed è per questo che gli è più facile interpretare i personaggi della storia come attori su un palcoscenico.

Egli stesso, nel suo piccolo, vive il dramma dell’ascesa e della caduta, pur portando con sé un bagaglio di mistero e di segreti, appena sussurrati.
Nei primi capitoli, egli cita una lettera di Zamjatin rivolta a Stalin, in cui lo scrittore afferma di anteporre la verità alla convenienza.
Nell’interpretazione di Baranov, Zamjatin e Stalin si confrontano su due progetti creativi, in nome di una supremazia che è il secondo a ottenere «con la carne e il sangue degli uomini.» Ciò nonostante Zamjatin non rinuncia a esprimere la sua opinione eretica a ogni costo, che nel suo caso si traduce nell’esilio.
Nelle pagine successive, il campo si allarga rispetto al singolo e, in realtà, tutta la prima metà del Novecento è per Baranov uno «scontro titanico tra artisti» d’avanguardia – i leader di Stato e i dittatori – che mirano a plasmare una realtà, non solo a descriverla o ad accompagnarla.

Nella prima parte del romanzo, molto importante è la figura del nonno del protagonista, un aristocratico sopravvissuto alle purghe staliniane, che addomestica persino i comunisti, addolcendoli con la vodka e i ricordi nostalgici di un passato semi-mitizzato.

Baranov stesso, raccontando la storia della sua vita, si lascia andare alla nostalgia. Egli idealizza la vecchia generazione del nonno, convinta che fosse indispensabile trasmettere un savoir-vivre a figli e nipoti: con la generazione di suo padre, invece, sembrava che tutti fossero divenuti esperti, moderni, e nessuno voleva correre il rischio di essere considerato vecchio. Eppure, il nonno era già moderno nel suo tempo: leggeva Kafka e Mann, e non aveva paura di apparire ridicolo, purché ognuno potesse scegliere il senso da «dare alle cose che accadono».
Il nonno odiava invece il parere di scrittori come Adolphe de Custine, che nel Voyage en Russie aveva interpretato fin troppo bene la Russia, dove la corte zarista rappresentava l’unico modo per ottenere potere e ricchezza. Un luogo in cui l’adulazione e il silenzio scalzavano il talento e la passione popolare. In fondo, tutto promanava dalla corte e alla corte doveva rendere conto.

Per analogia, Baranov ricorda gli anni Novanta del Novecento, un momento in cui in Russia circolarono tanti soldi, molti finanziamenti, ma questi finirono nelle mani di politici spregiudicati e di mafiosi.

Perché a contare, in Russia, non è mai stato il denaro, ma la “vicinanza al potere”. E l’esempio dell’URSS lo testimonia. Quella stessa vicinanza, però, risulta pericolosa. Stalin abitava le stesse stanze dei suoi consiglieri e ministri; i figli e i nipoti condividevano le giornate, ma tutto questo non impedì al leader sovietico di ucciderli. Anzi, fu favorito dalla prossimità. Così gli uomini più vicini a Putin hanno conosciuto sorti alterne e non pochi sono caduti in rovina, sono stati esiliati o sono morti in circostanze quantomeno sospette.
Gli anni Novanta hanno costituito un folle decennio per la Russia. Nel mondo della cultura e dei media, personaggi incarnati da Baranov sono passati da un’esistenza fatta di restrizioni a un successo economico che li ha catapultati nelle grandi capitali occidentali. Dietro al processo di liberalizzazione continuava comunque a sopravvivere l’anima russa, l’orgoglio patriottico: Baranov racconta di un sondaggio televisivo che avevano dovuto falsificare, perché gli spettatori, dovendo indicare i propri eroi, avevano votato in massa per Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Stalin.

Come coniugare gli aspetti utili dell’occidentalizzazione senza negare la propria storia imperialista?

Per il protagonista, tra gli anni Novanta e Duemila, con l’ascesa al potere di Putin, ha cominciato a consolidarsi l’idea che l’unità dei russi dovesse prevalere su ogni divisione politica. C’era davvero spazio per tutti, fino all’assurda intesa tra nazionalisti e bolscevichi, i Nazbol di Ėduard Limonov. Questi viene descritto con tratti patetici e quasi macchiettistici, mentre addenta un cheeseburger e beve litri di vodka, criticando l’America e i suoi alleati, solleticando idee che sembrano più provocazioni artistiche (o di un disperato) che compiute ideologie. Nel Partito nazional-bolscevico si trovano quindi zaristi e stalinisti, skinheads e fanatici religiosi, uniti non da un programma, ma dalla volontà di sfuggire alla banalità delle loro vite.

Putin ha interpretato il sentimento di sconfitta dei russi e ha dato al popolo nuovi motivi d’orgoglio, reintroducendo un discorso neo-imperialista a maglie larghe, che potesse includere (quasi) tutti.

E ha cominciato dalla lotta spietata al terrorismo ceceno, con tanto di presidente ritratto negli accampamenti militari, tra aneddoti e frasi a effetto (dal brinderemo dopo la vittoria all’andremo a prendere i terroristi «fin dentro la tazza del cesso»). Secondo Baranov, l’affermazione di Putin si è basata su questo: non la politica dei numeri e dell’“amministrazione condominiale”, ma la politica come «risposta ai terrori dell’uomo».
Di fronte a un attore tanto carismatico, il ruolo stesso di Baranov – come egli riconosce – è stato solo quello di accompagnare. Al resto, ci ha pensato Putin, in solitudine. Per un uomo che era addetto al controspionaggio, tuttavia, quella solitudine al vertice era destinata a tradursi in paranoia e in una violenza impassibile. Figure come Borís Berezovskij, che lo avevano accompagnato al potere, magari pensando di manipolarlo, sono rimasti scottati. Alcuni più duramente di altri.

Le persone che hanno circondato Putin non sono mai state essenziali, ma solo strumenti per arrivare a una nuova definizione del potere, a una difficile coerenza tra le componenti attive della millenaria storia russa.

Tra i vari manichini, nel romanzo di Giuliano da Empoli trova un significativo spazio Alexander Zaldastanov, motociclista e attivista filoputiniano insignito della medaglia “Per la Liberazione della Crimea”.
Il tema del potere e della manipolazione che esso realizza sono il nucleo di Il mago del Cremlino. Non a caso Zamjatin ritorna nelle pagine successive e viene trasposto nel mondo contemporaneo, in cui il controllo socio-politico è delegato alle nuove tecnologie. Se per alcuni leader la politica è davvero una risposta ai terrori dell’uomo, le generazioni a venire avranno altri problemi, altre paure, e la risposta politica a quell’ansia potrebbe tradursi in una violenza inaudita alla libertà del singolo. La ripresa di Zamjatin è quindi un modo per rivendicare il ruolo della letteratura, in particolare nella storia russa, nell’affermare un fatto di fronte al controllo centralizzato della verità.

Giuliano da Empoli narra in forma di romanzo una realtà del tutto plausibile, con dialoghi che ripropongono contenuti veramente espressi da Putin e dai vertici russi.

Nel suo stile si rintraccia la cura documentaria per i retroscena tipica di scrittori come John Le Carré. Vi è poi un’ispirazione che rimanda al romanzo storico russo e a certi racconti lunghi di Nabokov o alla natura episodica dei rapporti umani ne Le notti bianche di Dostoevskij. Anche le descrizioni delle città, pur contenute, raccontano di questa influenza.
Inoltre, includendo Limonov, Giuliano da Empoli permette un confronto con il famoso romanzo di Emmanuel Carrère. In quel caso, il testo aveva le sembianze di una biografia, unita però a un taglio giornalistico inframezzato da aneddoti storici o personali, in un pot-pourri davvero eterogeneo. Ne risultava una lettura lenta, aritmica, divisa in capitoli meccanici. Questo al netto dell’indiscutibile successo commerciale.

Ne Il mago del Cremlino, invece, vengono meno gli elementi auto-biografici dell’autore e del narratore e il protagonista ha la possibilità di raccontarsi con maggiore trasparenza.

Manca quella artificialità che in Carrère sfiora spesso la presunzione; al contrario, egli lascia al lettore il compito di formarsi un’idea senza interferire con la sua intelligenza.
Infine, un ultimo elemento. Ne Il mago del Cremlino, è presente una violenza machiavellica tra le righe, nonostante il piglio stoico di Baranov nel raccontarsi. Eppure, ancora più forte è la componente pasionaria del potere, coperta dalla maschera di ghiaccio del capo del Cremlino. È così che la caotica imprevedibilità di Putin si trasforma in uno strumento di potere, che è flessibile per se stesso e una spada di Damocle sulla testa di ogni fedelissimo.


Il mago del Cremlino

di Giuliano da Empoli
Mondadori
Narrativa
ISBN 978-8804765400
Ebook 10,99€
Cartaceo 18,05€

Sinossi

La Russia è "la macchina degli incubi dell'Occidente" e questo romanzo, che è un viaggio alla scoperta della mente genialmente tortuosa di uno stratega del Cremlino, ci porta al cuore di quella macchina e di quegli incubi. Nel corso di una lunga notte, Vadim Baranov, l'uomo conosciuto come "il mago del Cremlino", racconta gli uomini e le vicende che hanno accompagnato la trasformazione di un anonimo funzionario del Kgb nell'inesorabile Zar di oggi. Ispirato a una figura realmente esistente, Baranov è un personaggio di straordinaria originalità, lontano da come ci immaginiamo possa essere un consigliere di Putin: proviene dall'avanguardia artistica, ha prodotto dei reality tv, scrive romanzi sotto falso nome. È un uomo colto ma è anche un manipolatore senza scrupoli, capace di trasformare un paese intero nella scena di un teatro dove non esiste altra realtà che il compimento della volontà dello Zar. Un negromante che si nutre delle forze del caos per costruire il potere senza limiti del quale finirà col rimanere lui stesso prigioniero. Queste pagine si leggono come quelle di una tragedia antica animata da personaggi reali, piena di vendette, inganni e crimini. Ma al di là della radiografia implacabile del sistema con i suoi cortigiani, i suoi oligarchi, i suoi esuli braccati, le sue escort, i suoi killer, Il mago del Cremlino ci racconta la favola più tremenda di tutte: quella di un potere spietato, per il quale la violenza - come l'attualità ci ricorda tragicamente - costituisce l'unico orizzonte di sopravvivenza possibile. Al centro di questo sinistro palcoscenico si aggira un uomo imbalsamato in vita, solitario, paranoico, che lavora di notte: questo è diventato lo Zar, o forse è sempre stato così e "l'unico trono che gli porterà la pace è la morte". Questo libro intenso, visionario, ha la grazia senza tempo di un classico pur nella sua bruciante attualità. L'erudizione, lo stile e l'arte di raccontare di Giuliano da Empoli conferiscono a questa storia cruda e brutale un livello di purezza quasi metafisica. È Il Principe di Machiavelli attraversato dalle nebbie di John le Carré, narrato con le cadenze della grande letteratura russa.



Argyros Singh


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