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Rileggendo I demòni di Fëdor Dostoevskij

Rileggendo I demòni di Fëdor Dostoevskij

Professione lettore Di Davide Dotto. Rileggendo I demòni di Fëdor Dostoevskij, pubblicato per la prima volta nel 1873. Un vortice di emozioni e parole, un'estenuante voglia di discutere, di parlare, di far valere ragioni che durano quanto l’illuminazione improvvisa da cui scaturiscono.

È uscito da poco, per Donzelli editore, Il demone di Dostoevskij di Julia Kristeva. Ampio è lo sguardo dedicato allo scrittore russo per eccellenza, una disamina approfondita e immaginifica di tutta la sua opera, e da tenere a mente nel corso della lettura di un romanzo complesso, rappresentativo del suo tempo e della sua scrittura: I demòni.
Nell'esame di Julia Kristeva, Dostoevskij appare subito come un sopravvissuto, e non solo per la condanna a morte commutata, all’ultimo momento, ai lavori forzati per «aver tentato di diffondere tramite una tipografia privata opere antigovernative».
In ciò vi è più di qualche affinità con Ivan Pavlovič Šatov, un personaggio dei Demoni la cui vicenda è tratta da una notizia di cronaca, e ha ispirato poi l'intero romanzo.

Non è estranea al racconto un’ansia di sopravvivenza e di distruzione che coinvolge un po' tutti.

Ogni momento esige una estenuante lotta per la propria salvezza o giustificazione: quella sociale, materiale (il denaro è da sempre un’ossessione), spirituale, persino a costo del proprio annientamento, sempre che non intervenga una circostanza eccezionale, una coincidenza, un miracolo a riportare tutto, ancora per un po', in carreggiata.
Moltissimi i nervi scoperti, ma anche i punti fermi di cui disperatamente si va in cerca, precari assoluti, superficiali e scandalosi. Nel senso che forse tutto è permesso, ma se tutto è permesso, tutto è necessario; se tutto è necessario, anche il male lo è.
Da ciò discende il culto della sofferenza e del mostruoso e, come suggerisce il libro di Julia Kristeva, un tutt'uno con il culto della propria personale tragedia.
La terribile contraddizione sfiora tanto il sublime quanto il più atroce dei delitti, e il sondarne il terreno significa passare da un’idea tremenda a un’altra, ancora più tremenda e obbrobriosa.
È uno scavare dentro gli abissi del proprio animo (ma anche e soprattutto nella società del proprio tempo). Il fine ultimo è pervenire a una consapevolezza nuova, ma il risultato non è assicurato.
I demoni

I demoni

di Fëdor Dostoevskij
Einaudi
Narrativa
ISBN 978-8806219413
Cartaceo 14,25€
Ebook 2,99€

Ne I Demoni in particolare vi è un crescendo nella ricerca ossessiva di idee, via via personificate, abbracciate da un ego che cerca in esse la propria identità, il proprio trionfo, anche sullo spirito.

È il caso di Pëtr Stepanovič Verchovenskij, Nicolàj Stavrogin, vere eminenze grigie del romanzo, o come in Kirillov.
In ogni caso, ciò che si proclama sono la distruzione, idee che legano gli uni e gli altri nel delitto con l'intento di mettere ogni cosa a soqquadro: «Faremo una sommossa tale che tutto crollerà dalle fondamenta».
Il lettore è travolto da un vortice di emozioni e parole. Estenuante è la voglia di discutere, di parlare, di far valere ragioni che durano quanto l’illuminazione improvvisa da cui scaturiscono.

È l’ansia di raccontare ma anche di nutrire i propri demòni, affinché si manifestino una volta per tutte.

A loro appartiene (e a loro soltanto) la verità terribile e mostruosa intuita (che tutto è permesso, tutto è necessario e che anche il male lo è). Probabilmente è questo il dèmone che ha consentito a Dostoevskij di riconoscere i demòni (o gli indemoniati, altro titolo con il quale il romanzo è conosciuto) che attanagliano la sua e la nostra epoca.
Questa voglia di narrare e di parlare è tale da fare uscire allo scoperto il narratore che con pesanti ingerenze diviene personaggio e parte in causa (amico e ombra di Stepan Trofimovic): non vince la tentazione di prendere posizione attiva e di “duettare” con i suoi personaggi.

Non è che vi siano molte alternative nel voler abbracciare la totalità dello spirito e le sue sintesi più indigeste. Perché le storie di Dostoevskij dicono molto, persino troppo.

Tuttavia è di sicuro fascino la polifonia di anime, quella del narratore è una coscienza talmente espansa da travolgere con nonchalance i nostri ormai consolidati canoni narratologici, fino a proiettarsi su tutti i personaggi (o traendoli da se stesso). In parte, è persino Kirillov nello strappare alla morte qualcosa, forse una teologia negativa in grado di volgersi nel suo contrario.
Affinché ciò sia possibile, un po’ come Dante, non può che inoltrarsi negli abissi più profondi, setacciare il sottosuolo. Prima di elevarsi il percorso da intraprendere è questo, e contempla di correre ogni rischio possibile. Assomiglia molto a una condanna a morte in procinto di essere eseguita, e commutata all’ultimo momento. Non vi sono altre vie per giungere a qualche forma di liberazione, o al proprio annientamento definitivo.
Nulla, in questi termini, è scontato, nemmeno il discrimine tra salute e malattia, specie dello spirito, quando sono le idee a far da padrone: (ecco i demòni che orientano desideri, azioni, soluzioni a problemi via via più pressanti, e il dèmone in grado di riconoscerli e denunciarli).

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Il problema è che l’uomo dostoevskijano non ha bisogno di perdersi nella selva oscura, o di discenderne. Vi si trova già, conosce la propria condizione e vi si aggrappa con tutto se stesso.

Se Dante immagina di raggiungere il Purgatorio e quindi il Paradiso, si ha l’impressione che Dostoevskij mandi altri in avanscoperta, lui non intraprende alcun viaggio, nonostante l’ansia di sopravvivere, o la pretesa di salvare e di essere salvati.
Se inizia una nuova vita, è solo perché arreda in modo diverso la propria prigione, la riempie di ragioni nuove, o scava un’altra strada tra le ombre del suo sottosuolo.
Chi non intraprende questo percorso manca di qualche cosa, è un idiota, uno spiantato privo di esperienza. Persino le illuminazioni, le intuizioni più feconde devono essere sperimentate sul campo, e non basta il gran parlare, il gran riflettere, non è sufficiente il verbo, né basta essere testimone (e spettegolare su) delle cadute altrui. Ma anche queste (“illuminazioni”), quando vi sono e permettono di veder chiaro, durano pochi secondi, oltre i quali “l’anima non lo sopporterebbe, e dovrebbe sparire” (così si esprime Kirillov stesso).

Tutto questo produce una scrittura che non può essere replicata impunemente da chiunque.

Sul piatto non vi è un generico scontro tra bene e male. Si entra dentro le anime più nere, i crimini più vergognosi e obbrobriosi che contaminano per il solo fatto di essere concepiti. Ma anche dentro se stessi, quando Dostoevskij si scava dentro come e più degli altri, e abbraccia le proprie colpe (non le scusa) e con esse la propria disperazione. Impara, con Dmitrij Karamazov, che non vi è un miglior antidoto che questo.
Da un certo punto di vista prendiamo cognizione del “male assoluto”, il principio di massimo disordine oltre il quale non c’è nulla.
Nel “crescendo” del romanzo si va a poco a poco oltre ogni ordinaria e fisiologica contraddizione. Ci si dimentica presto delle mancanze più o meno serie ma di poco conto di uno Stepan Trofimovic, degli alterchi tra lui e Varvara Petrovna, di chi non vuol sentire ragioni ed evita di compromettersi, o si rinchiude nel proprio spavento.

A colpire a fondo sono la follia vera, l’impulso più sfrenato di una cellula impazzita (così appare Nicolaj Stavroghin), la mancanza di una plausibile spiegazione.

Ditemi cos’è che vi spinge a gesti così strani, a gesti che esulano da tutte le convenienze e da tutti i limiti comunemente accettati? Che vogliono dire simili sgarbi, che sembrano commessi nel delirio? Fëdor Dostoevskij, I demoni – I parte cap. 2 par. 3
Se non si è un Mefistofele, nemmeno un patentato nichilista può reggere senza contemplare il proprio annientamento.
Arriva pur sempre la resa dei conti, quando non si può più mutare avviso, né direzione, dato che si è giunti al punto di massimo disordine. L’individuo allora, che non può più nulla, ha una sola e unica illuminazione, quella di essersi fatto abbindolare e di aver abitato senza soluzione di continuità null’altro che il sottosuolo, a un passo dalla propria distruzione, nelle profondità più recondite e inesplorate di se stesso.

Davide Dotto


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