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La trappola del «se vuoi puoi»

La trappola del «se vuoi puoi»

Di Stefania Bergo. Non sempre il nostro valore e il nostro impegno sono sufficienti. La retorica del «se vuoi puoi» è una trappola, perché nell'equazione impegno = risultato dobbiamo considerare la variabile che forse più di tutte influisce sulla soluzione ma che nessuno nomina mai: la botta di culo.

È il motto della maggior parte dei motivatori: «Se vuoi puoi», «Credi in te stesso», «Non arrenderti», «Sposta i tuoi limiti», «Never give up», che fa tanto figo ed è perfetto pure per un tatuaggio. Sono frasi che cercano di stimolare la volontà, spronare a non mollare mai, nemmeno quando la vita mette i bastoni tra le ruote, a credere in se stessi e nel potere dei propri sogni. Perché se una cosa la si vuole davvero e la si persegue con impegno, concentrandosi sull'obiettivo, prima o poi si riuscirà a raggiungerlo. Volere, in effetti, è fondamentale, è il punto di partenza, indica la direzione da seguire.
E se malgrado tutto, per quanto ci incaponiamo e proviamo, con tutto il nostro credo, non lo raggiungessimo, quell'obiettivo? Che significa? Che forse non lo volevamo davvero? Che siamo dei perdenti? Che è colpa nostra?
No. Significa solamente che in tutta l'equazione abbiamo dimenticato di considerare la variabile che forse più di tutte influisce sul risultato finale ma che nessuno nomina mai: la botta di culo.

Già, nella vita ci vuole anche fortuna.

Perché non sempre il nostro valore e il nostro impegno sono sufficienti. E se non riusciamo a raggiungere il nostro obiettivo, non sempre è perché non siamo o ci impegniamo abbastanza, non sempre è colpa nostra.
Si capisce meglio rovesciando causa ed effetto: tutti molti di quelli che ce l'hanno fatta si sono impegnati, ma non è vero il contrario, cioè che chiunque si impegni riesca a perseguire i propri obiettivi. Sarebbe come dire che farcela sia solo merito dell'averci provato quando è invece una condizione quantomeno necessaria ma, ahimè, non sempre sufficiente. Non è l'unica variabile dell'equazione, dicevo.
Alcuni si prefiggono obiettivi troppo scollati dalle loro reali possibilità, è vero. In questo caso non raggiungere ciò che si sono prefissati è abbastanza ovvio – tipo: io avrei voluto diventare una scrittrice famosa, vendere migliaia di libri. Si può avere anche una grande passione – per me era la danza, ora la scrittura –, ma non sufficiente talento nonostante l'impegno profuso.

Ma anche quando gli obiettivi sembrano realistici, non è detto che si riesca a raggiungerli.

È necessario far pace con l'idea che non tutto è realizzabile, che ci sono tanti elementi che concorrono al successo, anzi, che forse il successo stesso – nel senso più ampio del termine: autorealizzazione, benessere, soddisfazione, felicità – non è la sola strada percorribile.
Ho sempre sostenuto, ad esempio, che quelli che spronano a mollare tutto e mettersi in viaggio in un eterno tempo sabbatico, stanno mentendo. Ci nascondono che serve anche "fortuna" – intesa come "condizioni favorevoli", che vanno dal substrato sociale all'aspetto caratteriale, dalle possibilità economiche, all'indipendenza, trovarsi al momento giusto nel posto giusto, incontrare le persone giuste, tutta una serie di condizioni esterne che rappresentano un'opportunità di vita – per poter rincorrere la libertà e guadagnarci pure di che vivere. Quanti di loro hanno genitori anziani da accudire? Quanti una famiglia? Quanti hanno più di 50 anni?, ad esempio. Non possono spacciare la ricetta della felicità senza dire che non è per tutti!

Non a caso parlo di narrazione tossica. Sono stata talmente bombardata di «se vuoi puoi» – in buona fede – che ormai sono convinta di non valere o di non aver fatto abbastanza, di essere pigra.

Qualche anno fa, in un viaggio in Tanzania con la mia bimba, abbiamo incontrato una mamma che da nove mesi stava girando il mondo con sua figlia: tre mesi in Asia, tre in America Latina, tre in Africa. L'ho invidiata moltissimo, avrei tanto voluto poter viaggiare a lungo con mia figlia pure io – e chi non lo vorrebbe? Ma come avrei fatto con la sua scuola? Col mio lavoro? Con i miei genitori anziani che possono contare solo su di me? E soprattutto con misere possibilità economiche? «Se vuoi puoi», così mi ha schiaffeggiato. E io mi sono sentita come una che parla tanto ma poi non ha il coraggio di agire, una che non è in grado di organizzarsi la vita facendola girare secondo la propria volontà. Mi sono sentita una fallita. Poco importa che a pronunciare quelle parole fosse qualcuno con condizioni al contorno più favorevoli delle mie – e che proprio queste facessero un'enorme differenza.

Ch poi, fateci caso, la narrazione del «se vuoi puoi» è sempre portata avanti da soggetti "vincenti", da chi ce l'ha già fatta.

Che non è certo il 100% di chi ci ha provato.
«Se ti impegni ce la fai», «Volere è potere» sono frasi che sentiamo ripetere continuamente. Ma, anche se dette in buona fede per spronarci a non mollare o a migliorarci, assumono connotazione tossica quando omettono che ci sono in gioco talmente tante variabili fuori dal nostro controllo che non si può ridurre tutto all'equazione impegno = risultato. La narrazione che ci propinano ha delle lacune, non funziona sempre e comunque, anche se non ha nulla di razionalmente opinabile.

Certo, il destino va anche aiutato. Di sicuro c'è gente che lavora parecchio per perseguire un fine, si impegna, è capace, e merita tutto quello che di buono la vita riserva.

C'è chi si realizza perché ha la lungimiranza e la capacità – non è da tutti – di mettere a frutto le proprie qualità e le esperienze pregresse, anche senza botta di... Sì, insomma, avete capito. Che poi, non è certo mia intenzione sminuire chi ce l'ha fatta anche grazie alla "fortuna", anzi, sto dicendo che è necessaria. Ma sono stanca di sentire «se vuoi puoi», che sottintende quel velato giudizio che se fallisci è perché sei mediocre – non puoi – o scansafatiche – non vuoi. Ripetiamolo insieme: sforzarsi non basta, la retorica del «se vuoi puoi» non deve prescindere dal fatto che la vita è in fin dei conti una lotteria. Se ti impegni puoi semplicemente dire di avercela messa tutta e non avere rimorsi. Ecco. Ognuno di noi fa quel che può, ma il risultato è la risposta della vita a questo sforzo.

La fortuna è quel momento in cui la preparazione incontra l'opportunità. Randy Pausch

Forse la mia è solo la voce di una perdente, una con tanti sogni, la maggior parte dei quali mai realizzati.

Forse la mia è solo invidia per chi invece sembra essere un novello Re Mida e trasforma in realtà ogni sogno. Può essere. Ma mi sento parte di una categoria che vorrei sostenere, perché ne abbiamo bisogno. Facciamoci coraggio. Magari a volte siamo i primi a tirarci indietro, magari le delusioni hanno il sopravvento e ci cala l'autostima tra il risveglio e il caffè, ma datemi ascolto: non siamo perdenti, non è colpa nostra se pur credendo in noi stessi e impegnandoci tanto non arriviamo in cima. Non tutti sono destinati al successo, dicevo , non a tutti è dato realizzare i propri sogni, o meglio, non tutti i sogni e i desideri si realizzano. Ma non sentiamoci in colpa per questo, non pensiamo di essere inferiori, non facciamoci intrappolare da un «se vuoi puoi». Non lasciamoci rinchiudere nelle gabbie mentali della retorica di una società performativa.

Noi – ciò che siamo e facciamo – siamo il frutto di molte variabili. Se tutto fosse legato al «se vuoi puoi» io sarei Karen Blixen.

E invece no, perché non sempre volere è potere. Volere è volere. Punto. Che sia il fondamento per ralizzare qualsiasi cosa, il punto di partenza necessario, è fuori discussione. Ma cambierei la narrazione in questo modo: «Se lo vuoi davvero, almeno provaci», magari ci riesci. O magari no. Allora prova a cambiare obiettivo. La ricerca della propria strada e del proprio posto nel mondo è un percorso lunghissimo e complesso, svuotarlo di valore riducendolo alla retorica che «Se ti impegni ce la fai» è nocivo perché distante dalla realtà.

Ciò che Smail definisce il “volontarismo magico” – cioè la convinzione che ogni persona ha il potere di diventare ciò che vuole essere – è l’ideologia dominante e la religione non ufficiale della società capitalistica contemporanea, sostenuta sia da “esperti” dei reality televisivi che dai guru del business che dai politici. Il volontarismo magico è sia l’effetto che la causa del più basso livello di coscienza di classe che la storia ricordi. È l’altra faccia della depressione – la cui convinzione di fondo è che noi siamo gli unici responsabile della nostra miseria e perciò la meritiamo. Mark Fisher, Good For Nothing – Traduzione di Andrea Fumagalli e Cristina Morini di effimera.org



Stefania Bergo


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