Gli scrittori della porta accanto

Centri antiviolenza: e poi c’è chi raccoglie i cocci

E poi c’è chi raccoglie i cocci

Di Elena Genero Santoro. Ominicchi, ruffiani e quaquaraquà:  i vigliacchi che per fare sentire le loro ragioni alzano le mani su chi non può difendersi, sono e restano omiciattoli. Che però causano ingenti danni, fisici e psicologici, a intere famiglie. Che qualcuno dovrà ricostruire.

Quando un uomo picchia una donna, qualunque sia il motivo (frustrazione, effetto di alcol e droghe, fanatismo religioso, machismo o tutte queste cose insieme), fa danni. Rovina una persona, minaccia il suo equilibrio psico-fisico e spesso compromette la sua serenità di un intero nucleo famigliare.
Leonardo Sciascia in Il giorno della civetta divideva gli uomini in “uomini, mezz'uomini, ominicchi, ruffiani e quaquaraquà”. Posto che un Uomo, e forse nemmeno un mezz’uomo, potrebbe mai alzare un dito contro una donna, qui parliamo di ominicchi, ruffiani e quaquaraquà.
Già vent’anni fa, senza pensare a Sciascia, di mio gli individui del genere li avevo soprannominati omiciattoli. Nella mia testa ho sempre continuato a chiamarli così. E non importa se fisicamente sono alti, belli e palestrati: i vigliacchi che per fare sentire le loro ragioni alzano le mani su chi non può difendersi, sono e restano omiciattoli. Psicologie immature, personalità disturbate e coscienze embrionali sono i denominatori comuni che caratterizzano gli omiciattoli, i quali hanno come unico movente quello di fare valere il loro (presunto) potere e che però, quando rompono il giocattolo, lasciano una montagna di macerie che qualcun altro dovrà smaltire.

Quando il danno è fatto, devono mobilitarsi tutti: le forze dell’ordine, gli assistenti sociali, gli psicologi e i volontari di varia natura. 

Tutti al lavoro per consentire a una donna di ritrovare la propria dignità e fiducia in se stessa. Anche perché, si sa, spesso la violenza non finisce con l’allontanamento della donna, ma diventa persecuzione, stalking, minaccia. A quel punto c’è bisogno di un luogo protetto in cui la vittima possa trovare pace, stabilità e protezione, in attesa che la giustizia faccia il suo corso.
Quindi al di là di ogni altra considerazione, la violenza contro le donne ha anche un consistente costo sociale. E qui vorrei parlare proprio di chi raccoglie i cocci di certe situazioni, di chi dà una mano a ricostruire, psicologicamente e materialmente, la vita di una donna malmenata, di chi le offre assistenza e magari si attiva per trovarle un lavoro che le garantisca l’indipendenza economica (altro modo per affrancarsi dal persecutore). Si tratta per lo più di associazioni di volontari, talvolta sovvenzionati da comune e regione, ma anche no, che accolgono persone in difficoltà che scappano da situazioni difficili, come ad esempio Telefono Rosa.

Nel mio libro L’occasione di una vita e di nuovo in Immagina di aver sognato, di prossima uscita, ho inventato una Casa di Accoglienza che nasce in parte sulla falsariga di un’associazione di Torino, Gli Amici di Lazzaro, che si occupa anche di donne in fuga da realtà insostenibili.

Per la verità, Gli Amici di Lazzaro si stanno ultimamente dispiegando forze e risorse contro una particolare forma di violenza, che è lo sfruttamento della prostituzione e che va al di là della mera violenza domestica, ma coinvolge intere organizzazioni criminali. Così Gli Amici di Lazzaro organizzano “attività di strada con cui incontriamo le ragazze nigeriane, vittime di tratta e sfruttamento, dando loro la possibilità di fuggire da chi le ricatta e sfrutta oppure offrendo percorsi di formazione e accoglienza per chi è vittima della disperazione” (unita’ di strada contro lo sfruttamento).
Loro affermano che «la prostituzione non riguarda il sesso, bensì il potere: acquistare prestazioni sessuali significa negare la libertà sessuale dell’altra persona» e la annoverano tra le principali forme di violenza contro la persona.
Da una delle testimonianze riportate tempo fa nel loro sito è nato il personaggio di Maria, presente nel mio libro. Maria non esiste, ma la sua storia è l’interpolazione di alcune storie realmente accadute.
Era arrivata una nigeriana che parlava a stento l’italiano. Doveva avere circa vent’anni. Era sbarcata in Italia con la promessa di un impiego da badante. Per espatriare le avevano fatto firmare un foglio in cui si impegnava a restituire una somma di denaro che ammontava a circa cinquantamila euro, comprensivi del viaggio e dei documenti. Una volta in Italia però il cosiddetto lavoro non c’era, al contrario le era stato sequestrato il passaporto e lei era stata costretta alla prostituzione. Lei aveva dunque compreso che la promessa del lavoro era stata solo una trappola organizzata da un gruppo malavitoso albanese e che per riavere la libertà avrebbe dovuto prostituirsi fintanto che il debito non fosse stato saldato. Purtroppo, per quanto si desse da fare, sotto costante minaccia di violenza fisica e sotto la perenne sorveglianza di una “madame”, il debito sembrava non scendere mai. Alla fine la ragazza, che aveva un nome impronunciabile, ma in Italia era conosciuta come Maria, aveva deciso di scappare e di chiedere aiuto alle autorità, ma adesso doveva trascorrere qualche tempo nascosta. La vita di strada era un compromesso troppo pesante per lei, che voleva campare onestamente e non con il timore perenne delle bande criminali e delle brutte malattie. La denuncia contro gli sfruttatori le avrebbe garantito protezione e un permesso di soggiorno. Maria aveva paura, ma dopo l’ennesima dose di botte si era finalmente decisa a cercare aiuto. Elena Genero Santoro, L'occasione di una vita

L’attività de Gli Amici di Lazzaro comunque non si limita a questo. 

Aiutano concretamente i senza tetto e le famiglie in difficoltà economica (che in questo periodo di crisi sono sempre di più), si rivolgono ai giovani con campi estivi e doposcuola e, soprattutto, organizzano corsi di italiano e persino incontri di formazione spirituale interculturale per favorire l’integrazione degli stranieri.
E proprio parlando di integrazione culturale, mi collego immediatamente all’intervista a Souad Sbai, 46 anni, marocchina, che vive in Italia da ventisette anni, deputata PdL, molto attiva contro l’integralismo islamico. Ha subito molte minacce e intimidazioni, ma è andata avanti. Giornalista per la rivista che dirige, Al Magrebia, e come presidente dell’Associazione donne marocchine in Italia si batte per diffondere una cultura nuova, e per gridare che le donne devono essere emancipate, tutelate. La sua ultima iniziativa è la realizzazione della Casa di ascolto per le donne arabe, che verrà aperta a Milano con l’appoggio della regione Lombardia.
Lei afferma che quando una donna con un marito integralista arriva in Italia da un paese islamico, la sua vita irrimediabilmente peggiora, per una serie di motivi. Intanto, lasciata laggiù la famiglia d’origine, non può essere difesa da nessuno. Poi, il marito violento in Italia se ne approfitta perché qui da noi le leggi sono meno severe che altrove, e questo dato è allarmante e non ci fa certo onore. Infine, per l’appunto, non conosce la lingua né la imparerà mai se il marito non la lascia nemmeno uscire di casa. Così non potrà mai far valere i suoi diritti.
Io stessa sono stata testimone di un teatrino, al pronto soccorso pediatrico, in cui una famiglia musulmana, con due bambini al seguito di cui uno febbricitante, cercava di spiegare i sintomi all’infermiera. La moglie, completamente velata, non capiva una sola parola di italiano e se ne stava in un angolo della sala d’attesa mentre il marito faceva la spola tra la sala d’attesa e l’infermeria per la traduzione.

Infermiera: «Il bambino ha la febbre?»
Lui (si alza, va dalla moglie): «كان الطفل لديه حمى ؟ (*)»
La moglie: «نعم»
Lui torna dall’infermiera: «Sì».
(*) non conosco l’arabo, per questa semplice frase ho confidato nella bontà di Google translator, se qualcosa non è corretto me ne scuso.

E via di questo passo numerose volte.
Altre volte mi è capitato, al parco giochi coi miei figli, di incontrare una famiglia simile. I bambini, tre, in età scolare parlavano perfettamente italiano, con accento piemontese, e arabo. La madre, sempre velata e muta in un angolo, parlava solo l’arabo con i bambini.
Non voglio che ora passi un messaggio sbagliato. Non sto dicendo che in queste due famiglie i mariti picchino necessariamente le mogli, anzi, presumibilmente ciò non avviene. Sicuramente però l’isolamento linguistico e culturale è terreno fertile per i soprusi, quando accadono. Per fortuna qualche associazione ci pensa. Prevenire è meglio che curare.

Anche senza integralisti islamici, in Italia sappiamo picchiare le donne pure da soli e non abbiamo bisogno dell’esempio di nessuno. 

L’isolamento e la disinformazione sono fenomeni anche nostrani. Come nostrano è un certo tipo di approccio machista che, in certi contesti, porta all’aggressione. Basta leggere i commenti sui social network per vedere quanti uomini pensano che la donna debba restare a casa, che abbia dei compiti ben precisi e che in fondo debba rimanere subalterna al maschio. Ovviamente non tutti questi commentatori dei social picchieranno le loro mogli, ma anche in questo caso il terreno fertile per la violenza di genere è sempre l’idea di sottofondo che il maschio debba prevalere. Quando a questo pregiudizio si sommano altri tipi di problemi (tipo una personalità disturbata, e/o una dipendenza da gioco o da sostanze), inizia la spirale della violenza.
Nel romanzo Diventa realtà racconto una storia di violenza domestica tutta italiana.
Giorgia era arrivata alla Casa di Accoglienza accompagnata da suo padre, un vedovo minuto dall’aria distinta, con gli occhi chiari, i capelli brizzolati e i baffetti.
Lei aveva gli stessi occhi chiari, ciglia lunghe e rade e lo sguardo spaurito.
Un paio di anni prima era rimasta per errore incinta di un individuo manesco e arrogante con cui intratteneva una relazione altalenante. Lei era determinata ad abortire, ma lui l’aveva convinta a tenere il bambino, giurando che si sarebbe dato una regolata, che sarebbe cambiato e che si sarebbe assunto tutte le sue responsabilità. Allora lei aveva proseguito la gravidanza, tra mille tentennamenti, e il piccolo Marcello era nato bello e sano.
Il padre del neonato aveva mantenuto a modo suo le promesse fatte: aveva riconosciuto il figlio ed aveva iniziato a convivere con la ragazza, ma la sua indole aggressiva e insofferente aveva reso l’esistenza della neomamma un vero inferno.
Quando il bambino strillava, l’uomo cominciava a dare in escandescenze, urlava che quel marmocchio piangeva davvero troppo, che non era possibile che un esserino lungo mezzo metro facesse tutto quel casino. Nella sua visione contorta di quella condizione, la colpa era imprescindibilmente di Giorgia, che come madre non era adeguata, che avrebbe dovuto dargli di più da mangiare, o di meno da mangiare, o non avrebbe dovuto permettergli di dormire tanto nel pomeriggio, o avrebbe dovuto farlo dormire molto di più nel pomeriggio.
Qualunque cosa Giorgia facesse, o il suo esatto contrario, non era corretta. Peraltro l’uomo non si premuniva di trovare soluzioni costruttive per risolvere la situazione, anzi, per lo più usciva di casa sbattendo la porta e andava al bar a giocarsi un po’ di soldi alle slot-machine.
Giorgia viveva nel terrore. Abitare con quell’individuo non la faceva dormire tranquilla. Pativa ogni volta che il suo compagno doveva rientrare in casa, perché era sempre una sorpresa con quale umore si sarebbe presentato. Se poi, quando rincasava, il bambino era ancora da nutrire o da cambiare, volavano i ceffoni.

In Italia le associazioni contro la violenza sulle donne proliferano, basta dare un’occhiata in internet per trovare interi elenchi, regione per regione.

Non saprei dire se ciò sia un bene o un male. È un bene che le associazioni ci siano, un male che ce ne sia così tanto bisogno. Cito, tra le tante, il Telefono Rosa Piemonte che rivolge molti dei suoi sforzi per la formazione, oltre a mettere a disposizione una struttura di accoglienza.
Perché oltre a raccogliere i cocci di quello che è stato, bisogna costruire e fortificare: la consapevolezza nelle donne delle situazioni da fuggire e dei diritti che si possono fare valere. E soprattutto, sempre e comunque, che se un amore si manifesta con le botte NON è amore.
PS: dopo aver concluso questo articolo, ho preparato una torta e ritirato il bucato con l’aiuto del mio figlio maschio di quattro anni, che nel suo piccolo si è dato molto da fare a imburrare la teglia e passarmi gli ingredienti prima e a piegare gli asciugamani asciutti poi. Per lui si è trattato di un bel gioco e si è divertito moltissimo. L’augurio è che anche questa sia prevenzione, che nelle nuove generazioni non inizi nemmeno il pregiudizio dei mestieri “da donna” e di quelli “da uomo”, della mamma che sta a casa e del papà che può permettersi delle libertà in più. Siamo tutti individui meritevoli di rispetto, senza prevaricazione né lotte di potere.



Elena Genero Santoro


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