Scienza Di Vincenzo Mirra. Dal Sole ai buchi neri, le stelle sono sorgenti di energia, di vita, centro di equilibrio gravitazionale dei sistemi planetari. Bruciano miliardi di tonnellate di idrogeno al secondo, come gigantesche fornaci nucleari accese nel buio cosmico.
Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni
(William Shakespeare, La Tempesta)
... e delle stessa materia delle stelle.
Lassù, al cielo stellato, non guardano solo scienziati e astronomi. Ma sognatori incalliti di ogni età, e poi artisti, poeti e compositori che hanno rivolto i loro occhi alle stelle e con il cuore predisposto ad accoglierne la bellezza hanno lasciato che tutta quella luce (ed il loro genio ispirato) firmasse la grandezza delle loro opere.
Le stelle sono sorgenti di energia cosmica. Irradiano luce. Sono il centro di equilibrio gravitazionale dei sistemi planetari. Bruciano miliardi di tonnellate di idrogeno al secondo, come gigantesche fornaci nucleari accese nel buio cosmico. Sono sorgente di vita.
Le stelle brillano nel firmamento del cielo da miliardi di anni ed esistono in miliardi di miliardi di tipi differenti: per caratteristiche, grandezza (massa e dimensione) e luminosità. Tutta la storia evolutiva di una stella, dalla durata del suo ciclo vitale al suo destino finale, è determinata dalla massa stellare al momento della sua formazione.
Trascorrono circa il 90% della loro vita in una condizione stabile chiamata sequenza principale, in cui nel nucleo stellare avviene la fusione dell’idrogeno in elio, i due elementi più abbondanti nell’Universo. In questa fase, la pressione di radiazione del nucleo è in perfetto equilibrio con la forza di gravità degli strati esterni. La durata della sequenza principale dipende dalla massa iniziale e dalla luminosità della stella. Più le stelle sono massicce e luminose e tanto più velocemente consumano il loro "combustibile nucleare", con una vita decisamente più breve (pari a qualche decina o centinaia di milioni di anni) delle stelle più piccole, che invece bruciano più lentamente l’idrogeno all’interno del loro nucleo e hanno un’esistenza molto più lunga (fino a centinaia di miliardi di anni).
Il nostro Sole ha un’età di 4,6 miliardi di anni ed è circa a metà della sua sequenza principale, mentre la stella più vecchia conosciuta si trova nella costellazione della Bilancia ed ha un’età di 13,2 miliardi di anni, di poco più giovane quindi (appena 500 milioni di anni) dell’origine dell’Universo (si stima che il Big Bang sia avvenuto circa 13,7 miliardi di anni fa).
Ma cosa succede quando il combustibile nucleare si esaurisce e le stelle escono dalla loro sequenza principale?
Ebbene in quel restante 10% di miliardi di anni le stelle vivono una fase turbolenta di altissima instabilità in cui la pressione di radiazione non è più sufficiente a contrastare la gravità superficiale ed il nucleo, di conseguenza, va incontro al collasso gravitazionale, mentre gli strati più esterni vengono espulsi progressivamente in maniera sempre più violenta. Ciò che resta è una una stella compatta enormemente densa costituita da uno stato altamente degenere di materia che si appresta a esibire il fenomeno esplosivo più violento e potente dell’universo: l’esplosione di una supernova. Un gigantesco fuoco d’artificio cosmico capace di emettere tanta energia quanta se ne prevede dal Sole durante tutta la sua esistenza, e talmente luminoso da coprire, anche se per breve tempo, la luminosità complessiva dell’intera galassia ospitante.
In questa colossale esplosione cosmica, il termine nova sta a indicare una nuova possibilità, perché dentro la gigantesca bolla di gas che si crea dalla fornace stellare può originarsi la formazione di nuove stelle.
La Supernova SN1604, conosciuta anche come Supernova di Keplero, è esplosa nella nostra galassia all’incirca 20.000 anni fa, quando sulla Terra apparivano le prime pitture rupestri (Grotte de Lascaux). Fu visibile ad occhio nudo, in direzione della costellazione dell’Ofiuco, per 18 mesi ed osservata da Keplero nel 1604. È al momento l’ultima supernova a essere stata osservata nella nostra galassia, mentre fu la seconda a essere osservata nello spazio di una generazione, la precedente SN1572 fu vista da Tycho Brahe in Cassiopea, come se l’Universo volesse far festa ad una nuova era di conoscenza che l’umanità cominciava ad esplorare con l’affermazione del nuovo pensiero scientifico.
Al termine di questo processo degenerativo, se la massa stellare del residuo è compresa tra 1,4 (limite di Chandrasekhar) e 3,8 masse solari, dalle supernovae emergeranno stelle di neutroni (che talvolta si manifestano come stelle pulsanti, chiamate pulsar), i corpi celesti più piccoli e densi nell’universo: la loro massa è paragonabile a quella del Sole ma concentrata nella dimensione di una sfera di poche decine di km di diametro; nel caso in cui invece la stella originaria sia talmente massiccia che il nucleo residuo mantenga una massa superiore a 3,8 masse solari (limite di Tolman-Oppenheimer-Volkoff) nessuna forza allora è più in grado di contrastare il collasso gravitazionale ed il nucleo si contrae fino alla voragine di un buco nero, una regione dello spazio-tempo supermassiva capace di attirare dentro di sé ogni cosa si trovi nel suo campo di attrazione gravitazionale e tale per cui nulla, una volta al suo interno, può più sfuggire verso l’esterno, nemmeno la luce. John Wheeler fu il primo a chiamarli così (ormai 50 anni fa, era il 1967); fino ad allora questi enormi divoratori cosmici erano noti come “stelle oscure” (dark stars) o “stelle nere” (black stars), con l’aggettivo “nero” a sottolineare l’impossibilità per la luce di riemergere e mostrarsi visibile una volta inghiottita, letteralmente, dentro l’orizzonte degli eventi. E questo precipitare di ogni cosa, fotoni compresi, dentro l’abisso fisico ignoto delle stelle oscure è la ragione del termine "buco": un buco nero di cui non ci è dato di vedere il fondo.
Un buco nero è l’oggetto più misterioso e affascinante dell’universo.
È talmente strano che non è neppure fisicamente descrivibile, certamente non nel senso comune e percettibile che è proprio dei corpi continui della meccanica classica. La gravità di un buco nero, infatti, è talmente grande da comprimere la materia che lo compone fino ad una densità praticamente infinita. Ne risulta un campo gravitazionale talmente intenso da non permettere a nulla di sfuggire alla sua attrazione. Al suo interno, dentro una superficie limite puramente immaginaria, chiamata orizzonte degli eventi, il buco nero viene teorizzato in uno stato della materia (massa ed energia) definito singolarità, con proprietà estranee persino alle leggi della meccanica quantistica. Anche la luce non è risparmiata dalla voracità gravitazionale di un buco nero e, una volta catturata, precipita nelle oscure e ignote profondità dell’abisso gravitazionale senza poterne più riuscire. Questo significa che i buchi neri non possono essere "visti" direttamente, nel senso classico della possibilità di osservarli, ma la loro presenza può essere soltanto stimata e rilevata misurando gli effetti di attrazione gravitazionale che essi esercitano nei confronti della materia vicina e della radiazione luminosa in transito nei loro paraggi o "in caduta" nel buco.
Una realtà fisica difficile da immaginare quella delle stelle nere, troppo diversa e lontana dall’esperienza dei bagliori di luce impressionista sulla tela di Van Gogh, e per molto tempo affermata solo come una previsione matematica e come soluzione possibile della fisica gravitazionale, quella formulata, nel 1915, con la teoria della relatività generale di Einstein. Ancora prima, già dalla fine del 1700, l’astronomo inglese John Michell aveva predetto come possibili alcuni casi limite della teoria gravitazionale newtoniana che consideravano l’esistenza di copri celesti per i quali la velocità di fuga dal loro campo gravitazionale poteva risultare superiore alla velocità della luce; tali oggetti non sarebbero stati quindi direttamente visibili, ma avrebbero potuto essere identificati per mezzo del moto di corpi celesti con essi interagenti.
Una realtà fisica difficile da immaginare quella delle stelle nere, troppo diversa e lontana dall’esperienza dei bagliori di luce impressionista sulla tela di Van Gogh, e per molto tempo affermata solo come una previsione matematica e come soluzione possibile della fisica gravitazionale, quella formulata, nel 1915, con la teoria della relatività generale di Einstein. Ancora prima, già dalla fine del 1700, l’astronomo inglese John Michell aveva predetto come possibili alcuni casi limite della teoria gravitazionale newtoniana che consideravano l’esistenza di copri celesti per i quali la velocità di fuga dal loro campo gravitazionale poteva risultare superiore alla velocità della luce; tali oggetti non sarebbero stati quindi direttamente visibili, ma avrebbero potuto essere identificati per mezzo del moto di corpi celesti con essi interagenti.
Nel corso dei due secoli successivi, prima la formulazione matematica di un genio della fisica e poi le osservazioni sperimentali delle onde gravitazionali avrebbero provato quella straordinaria intuizione del pensiero umano.
DEI BUCHI NERI E DI ALTRE STELLE O QUASI STELLE: LE PUNTATE
I L’UniversoII Le Stelle
III Isole nello spazio cosmico
IV Lo zio Albert
V Sliding doors
VI Esplorazione gravitazionale
VII Si accendono le luci
VIII Backstage della Navigazione siderale. Diario di bordo del capitano.
Le puntate già pubblicate
Vincenzo Mirra Nato a Napoli nel 1973, si è diplomato all'Istituto Nautico per poi laurearsi in Ingegneria Aeronautica ad indirizzo Spaziale. Alle passioni per la navigazione, il mare e l’astronautica, ha sempre aggiunto quelle per la letteratura, la scrittura di viaggio e di meditazione ed il teatro. È autore del blog letterario Beaufort, scritture al vento e taccuini di mare che esprime scritture di vario tipo e argomentazione, anche di natura sperimentale. Dal 2005 vive a Pisa, dove dal 2015 ha iniziato a frequentare corsi e laboratori teatrali, di recitazione, di lettura corale e di drammaturgia. Isole, AUGH! Edizioni. |
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